Stiamo per concludere l’insegnamento di Gesù. Matteo ha diviso la sua opera in cinque grandi insegnamenti di Gesù, il discorso della montagna; il discorso sulla missione; il discorso sulle parabole; il discorso sulla comunità, e infine l’ultimo grande discorso finale dei capitoli 24-25, come se fossero cinque libri all’interno del vangelo stesso, ricordando la divisione dei primi cinque libri della bibbia, il Pentateuco. Era come se Matteo stesse scrivendo per la comunità la nuova legge, non più quella di Mosè ma quella di Gesù per la sua comunità. Siamo arrivati all’ultimo di questi grandi discorsi; dopo il capitolo 25 Gesù non parlerà più alla comunità, ai discepoli, alla gente e dal capitolo 26 comincia il racconto della passione, morte e resurrezione.

Il capitolo si divide in tre parti, una distinzione che permette una esposizione più accurata del messaggio: le due parabole, quella della dieci ragazze, la parabola dei talenti al centro e la missione sulle nazioni pagane: venite a me benedetti dal Padre mio…L’insegnamento è importante perché riprende nella prima parte, la parte finale del discorso della montagna, che si concludeva al capitolo 7 presentando la situazione di due uomini, un uomo saggio e un uomo pazzo, uno che costruisce la casa sulla roccia e uno che la costruisce sulla sabbia. Lo stesso insegnamento verrà rappresentato nella parabola delle dieci ragazze, ragazze sagge e ragazze pazze, gli stessi termini che si trovavano alla fine del primo discorso.

Dico questo perché è importante che nella conclusione dell’insegnamento di Gesù, venga ripreso il centro del messaggio annunciato, che deve essere il centro della nostra vita: il discorso della montagna, le beatitudini del regno. La parabola che ora analizziamo, ha per oggetto due gruppi di ragazze che partecipano a un corteo di nozze, è l’ultima volta nel vangelo in cui Gesù parlerà del regno dei cieli. Il regno dei cieli è l’espressione con la quale Matteo presenta la novità portata da Gesù nella storia: un Dio che si mette a servizio dell’uomo. È un Dio che regna, il regno dei cieli e il regno di Dio sono la stessa cosa, solo che Matteo non adopera il termine Dio per non urtare la sensibilità dei suoi ascoltatori che, provenendo dal giudaismo, non gradivano nominare Dio.

In Marco troviamo il regno di Dio, in Matteo il regno dei cieli. È una novità nella quale l’umanità fa esperienza di un Dio che non regna, mediante il potere, imponendo la sua legge, le sue norme agli uomini, ma regna attraverso il servizio, mettendosi a disposizione degli altri. Nella parabola delle dieci ragazze sarà l’ultima volta che Gesù illustra la novità del suo messaggio: il regno dei cieli associato alla figura dello sposo, che aveva un valore molto importante per la tradizione religiosa del tempo.

Le dieci ragazze partecipano ad un corteo di nozze, devono andare incontro allo sposo e lo sposo richiamava l’insegnamento dei profeti per parlare del rapporto nuovo che Dio voleva instaurare con il suo popolo. I profeti dicevano: non possiamo dire che Dio si rapporta con l’umanità attraverso la Legge, troppo burocratica e fiscale; io non posso dire che Dio mi vuol bene se dipende dai precetti che osservo, o non osservo. I profeti dicevano che non si può sentire la presenza di un Dio che ama il suo popolo, perché è un’immagine fiscale, di uno che contratta quanto ti impegni, quanto ti do. Avevano presentato una novità nel panorama religioso dell’epoca, Dio è lo sposo che vuole conquistare la sua sposa, il popolo.

La sposa si è dimostra tante volte in atteggiamenti adulterini di prostituzione, di infedeltà, però Dio non si lascia mai vincere. Nella figura dello sposo si rappresenta il nuovo rapporto di amore intimo, di amore coniugale, non più basato sulla Legge, basato sull’amore degli sposi. La novità che Matteo ci offre parlando in questa parabola dello sposo è che lo sposo che potete individuare nella figura del dio della religione, ora lo trovate nella figura di questo uomo chiamato Gesù. È uno sposo tra noi, lo possiamo toccare, conoscere e possiamo comunicare direttamente con Lui.

1 “Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che prese le loro lampade uscirono incontro allo sposo. Di solito Gesù parlando del regno dei cieli, fa un paragone dice: il regno dei cieli è simile a, qui lo presenta al futuro, perché indica la tappa finale del regno, una tappa in cui si manifesta il compimento del progetto di Dio: che l’uomo possa entrare nella pienezza di vita.

Facendo esperienza di un Dio che si mette al servizio degli altri, l’uomo potrà assimilare la realtà così nuova, che trasforma la sua vita, facendolo arrivare alla pienezza. Le tre sezioni del capitolo concludono in maniera più o meno simile per capire che si parla di una tappa finale: si parlerà di entrare nelle nozze, alla fine di questa parabola; si parlerà di entrare nella gioia del Signore, alla fine della parabola dei talenti; si parlerà di ricevere l’eredità del regno, fine della visione delle nazioni.

Matteo si vuole riagganciare a quanto ha già detto al capitolo 24, parlando di come la comunità deve fare esperienza della novità del massaggio di Gesù, per cui comincia la parabola con Allora, cioè continuiamo con l’insegnamento che riguardava la manifestazione del Signore nella storia, quale sarà il comportamento conseguente dei credenti nella storia. In modo particolare richiama l’ultima parabola del capitolo 24, quella dei due servi o due funzionari. Uno era chiamato saggio, fedele, perché aveva cercato di svolgere il compito che gli era stato affidato, procurare cibo agli altri domestici della casa. L’altro era un servo malvagio che, anziché procurare il cibo agli altri, aveva pensato soltanto a nutrire se stesso, e sono due atteggiamenti che si possono trovare all’interno della comunità, in cui c’è chi procura vita agli altri e chi la sottrae con un atteggiamento negativo, letale. Matteo approfondisce l’insegnamento di quest’ultima parabola del capitolo 24, con una parabola delle vergini sagge e delle vergini stolte, parabola nota a tutti.

È una parabola propria di Matteo, non si trova negli altri evangelisti, non tratta della vigilanza anche se concluderà: vigilate perché non sapete né il giorno né l’ora; perché tutti si addormentano, anche le vergini sagge. Non è tanto il vigilare, quanto l’assimilare e praticare il messaggio di Gesù così importante per poter entrare in pienezza nella vita, per far parte del regno.

Protagoniste di questa parabola sono dieci vergini, Matteo adopera partenos, vergine, e indicava semplicemente una ragazza non sposata. A quell’epoca era usanza andare al matrimonio vergini, non era una scelta di vita, non erano delle vergini consacrate, erano semplicemente ragazze non ancora sposate, niente di particolare. Possiamo dire che è la parabola delle dieci ragazze, non tanto delle vergini stolte, delle vergini prudenti, come di solito si trova. L’evangelista le presenta in un gruppo di 10, una cifra che si presta bene per la suddivisione in due gruppi di cinque. Le dieci ragazze hanno lo stesso compito, di preparare le loro lampade e di andare incontro allo sposo, devono preparare un corteo di nozze. Ma queste ragazze si dimostrano tra di loro, in modo completamente diverso.

Si dice che le ragazze uscirono incontro allo sposo, ma quanto descritto non trova riscontro nelle usanze del tempo, perché era la sposa che accompagnata dalle sue amiche, ragazze non sposate, veniva portata in corteo alla casa dello sposo. Qui invece sono le ragazze che devono accompagnare lo sposo. La parabola lascia supporre che la sposa sia già entrata nella casa e che ancora deve arrivare lo sposo, le ragazze devono preparare il ricevimento dello sposo. Però, l’evangelista evita qualunque riferimento concreto sul corteo di nozze, per non distogliere l’attenzione del lettore, dell’ascoltatore, dal vero obbiettivo della parabola. Entriamo nella parabola che riguarda la fedeltà o meno al messaggio di Gesù. La parabola si costruisce con un linguaggio del tutto caratteristico e che a volte tende a cambiare gli elementi del racconto per catturare meglio l’attenzione degli ascoltatori.

La parabola nei vangeli non si riferisce mai ad una storia comune, ma ad un fatto particolare, qualcosa che bisogna dimostrare agli altri con un racconto più genuino. Il racconto non è una cronaca giornalistica e oggi il pubblico moderno, dotato di un senso critico, dice: questa parabola non è proponibile ad un’assemblea dotata di senso critico, perché tutti i personaggi fanno una brutta figura, più o meno tutti si addormentano. Lo sposo arriva in ritardo e se la prende a morte con quelli che non erano pronti; le ragazze hanno dimenticato di portare l’olio e prendono la porta in faccia: non vi conosco, fuori! Le ragazze sagge, sono acide e alla richiesta delle altre di avere dell’olio rispondono: no! Le verginelle prudenti non hanno conosciuto lontanamente la solidarietà. Leggendo si può dire: ma quanto sono antipatiche queste ragazze prudenti.

Dico questo perché la parabola non va presa come un racconto di cronaca, bisogna sgranare gli elementi come l’autore li ha presentati, per scoprire la logica interna del racconto. Superiamo le apparenti incongruenze narrative, che sono in funzione di un messaggio vitale da comunicare. Sono fatte dall’autore per catturare l’attenzione del suo uditorio e presentando le ultime parole della predicazione di Gesù sul regno, Matteo ha voluto associarlo a qualcosa di molto bello, un corteo nuziale.

Questa è la lettura positiva della parabola, tralasciando gli elementi descrittivi, e questo ci aiuta a superare uno dei più grandi equivoci che si sono insediati negli ambienti così detti cattolici: noi siamo venuti su questa terra a navigare in una valle di lacrime. Invece la parabola presenta il contrario, non dobbiamo sentirci in una valle di lacrime, ma dobbiamo sentirci invitati a preparare un corteo di nozze che si prepara con la gioia, con la luce, sentendo la fecondità dell’amore degli sposi. È un’immagine che comunica molta vita, perché presenta l’incontro definitivo con il Signore. Come l’evangelista ha già detto in precedenza, nella parabola del banchetto di nozze, tutti sono invitati ma pochi gli eletti; pochi sono quelli che rispondono all’invito di partecipare al corteo di nozze. In questa maniera possiamo desumere che il messaggio di Gesù è vero che è per tutti, ma non è di tutti, è soltanto di quelli che lo vogliono fare proprio, assimilandolo nella propria realtà, nella propria esperienza.

2 “Cinque di esse erano pazze e cinque erano sagge;” la differenza tra i gruppi di ragazze sta nell’atteggiamento, nel diverso modo di presentarsi. Un gruppo viene chiamato pazzo, è il termine che è già stato presentato alla conclusione del discorso della montagna, 7,26. Il pazzo è l’uomo che, dovendo costruire una casa, anziché costruirla sulla roccia, la costruisce sulla sabbia; soltanto un matto può fare una cosa del genere, ed è lo stesso termine usato per indicare le ragazze. Ma non solo, Gesù al capitolo 23 con invettive di fuoco contro gli scribi e i farisei, li ha chiamati pazzi, gente che agisce in modo funesto, errato.

La pazzia non riguarda tanto le capacità intellettuali, non è una questione di intelletto, è una questione di scelta, come scelgo, come mi pronuncio nella vita. Gesù parlando degli scribi e dei farisei, li ha chiamati persone che agiscono in maniera errata e funesta, che sono pericolosi per la vita della comunità. Gesù nel discorso della montagna, ha ammonito i suoi discepoli a non chiamare nessuno pazzo all’interno della comunità, 5,22 dice: chi poi dice al suo fratello pazzo sarà sottoposto al fuoco della Geenna, il discorso della pazzia è piuttosto grave.

Le altre invece vengono chiamate sagge, nel senso che sanno agire di conseguenza, che sanno mettere in pratica, che sanno manifestare la loro lucidità e ritornando al discorso della montagna è l’uomo che costruisce la sua casa sulla roccia, su fondamenta sicure. Abbiamo visto il termine saggio alla fine del capitolo 24, nella parabola dei due servi: il servo fedele capace di dare da mangiare agli altri è chiamato saggio; quello che pensa a mangiare per se stesso, percuote gli altri domestici. L’evangelista attraverso l’immagine del saggio ci dice che bisogna mettere in pratica il messaggio, non basta ascoltare, ma applicarlo nella propria vita.

3 “Le pazze presero le loro lampade, non presero con se l’olio; 4 le sagge invece, insieme alle loro lampade presero anche dell’olio nei vasi”. La follia o lucidità si mostra nel fatto che alcune prendono dell’olio e altre non lo prendono. Le ragazze pazze, preparando il corteo per lo sposo hanno calcolato i tempi e pensano che l’olio sia in quantità sufficiente. Invece la parabola è proprio centrata su questo non sapere quando arriva lo sposo, sull’incertezza. Le sagge invece che sono lucide, prevedendo i tempi di attesa, prendono più olio, perché non sanno: è bene che le nostre lampade non si spengano, si mantengano accese.

L’evangelista con questa parabola dà un insegnamento fondamentale alla comunità, non importa quanti siano i lucidi, i saggi nella storia, importa che ci siano. L’evangelista in maniera molto sottile, dice: non vi scoraggiate se trovate tanta pazzia, tanta follia attorno a voi. Se apriamo i giornali o la tv per vedere che cosa succede anche all’interno stesso della Chiesa, ti prende il magone per questo tornare al conservatorismo, rispolverare atteggiamenti, dottrine di prima del concilio; queste santificazioni in massa, un modo di sganciare soldi, soldi, perché le canonizzazioni a S. Pietro si fanno così. Non bisogna lasciarsi prendere dallo scoraggiamento, Matteo dice che non importa la quantità, sappiamo che ci sono; nella tappa finale del regno si sperimenta questa situazione di persone lucide che hanno mantenuto la loro fedeltà e di persone matte che si sono lasciate prendere da tante altre cose.

C’è la crisi vocazionale, ma è una constatazione che le congregazioni più retrograde hanno i seminari strapieni! Non è questione di numero, non importa che siano in 20.000 e noi in tre, quello che importa è che ci siano tre persone lucide che possono fare l’accoglienza allo sposo, possono manifestare che il suo messaggio ha messo radici e da questo messaggio si sprigionerà una potenza di vita enorme.

5 “Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. 6 Ma nel mezzo della notte si levò un grido: ecco lo sposo! Usciteincontro!”Durante la settimana biblica con Pepe Rius, teologo catalano, leggiamo il vangelo, lui dice che leggiamo con l’encefalogramma piatto, leggiamo tutto uguale.! Invece qui si sta dicendo che nel mezzo della notte una voce grida: ecco lo sposo! Lo strillo doveva servire per attirare l’attenzione e il vangelo non è soltanto fatto da parola, ma anche dal tono. L’evangelista ha voluto incidere, accentuare il momento, ecco lo sposo, con un bel grido nella notte, e tutte le vergini di soprassalto:

7 Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade”. 8 Le stolte dissero alle sagge: Dateci un po’ del vostro olio perché le nostre fiaccole si spengono. 9 Le sagge risposero: No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene.

Il ritardo dello sposo è l’elemento chiave della parabola, è lì dove si vede il comportamento lucido o meno delle ragazze. Tornando alla parabola del capitolo 24, anche lì il padrone di casa tardava, però il servo fedele si dà da fare per procurare il cibo agli altri. L’altro dice: siccome tarda, pensiamo a noi stessi. Il tardare fa capire che è importante come tu ti comporti, non perché c’è il padrone davanti, ma perché tu hai piena fiducia in lui e lui ha piena fiducia in te, ti sai comportare di conseguenza. L’incontro dello sposo, della sposa, aveva una forte risonanza nella tradizione giudaica; c’è un testo rabbinico in cui per parlare di come Jahve è venuto sul Sinai è paragonato all’arrivo notturno di uno sposo, che va incontro alla sua sposa.

Nel cuore della notte c’è il grido che fa destare le dieci ragazze, si svegliano e per prima cosa pensano di preparare subito le lampade, che si lasciavano accese e bisognava pulirle se c’erano cose bruciate affinché lo stoppino illuminasse meglio. Qui si vede la differenza tra i due gruppi di ragazze. Solo ora si accorgono che avevano fatto una scelta sbagliata, che non avevano portato olio a sufficienza e le lampade si stavano spegnendo. Non prendiamo le sagge dal punto di vista di una cronaca, non sono acide, le sagge rispondono con lucidità, e dicono: non ve lo possiamo dare perché rischiamo tutti di fare una brutta figura. Se vi diamo del nostro olio sicuramente non basterà per tutti, le lampade si spengono, lo sposo arriva nel buio e facciamo una pessima figura. È meglio un corteo dimezzato; noi che abbiamo le lampade accese rimaniamo qui per garantire l’accoglienza, voi andate a comperarlo. Non è una questione di solidarietà, ma di lucidità, bisogna garantire l’accoglienza, preparare la strada. La strada deve essere illuminata allo sposo, è meglio un corteo dimezzato con un po’ di luce piuttosto di un arrivo, dello sposo, al buio.

10 “Ora, mentre quelle andavano a comperare l’olio, arriva lo sposo,si sapeva che andava a finire così,

quelle che erano pronte entrarono con lui alla sala delle nozze e la porta fu chiusa. 11 Più tardi arrivarono anche le altre ragazze e incominciarono a dire: Signore, Signore aprici! 12 Ma egli rispose: In verità vi dico non vi conosco.Uno potrebbe dire che queste, oltre che acide, prendevano in giro le povere matte: nel cuore della notte uno dove può cercare l’olio? Ma non sarebbe del tutto strano perché quando c’era una festa di nozze, tutto il paese partecipava al grande evento e sicuramente potevano trovare quelli che mercanteggiavano l’olio, e far aprire loro la bottega e prendere dell’olio. Le ragazze avrebbero ancora una chance, però il racconto lascia intravedere che va a finire male, perché quando abbandonano il corteo non saranno presenti al momento decisivo e rimarranno escluse dalla festa. Abbandonando il corteo, hanno perso la possibilità di entrare con lo sposo nella sala di nozze.

C’è un altro elemento strano, non prendiamo la parabola come un racconto di cronaca, non restiamo agli elementi descrittivi, entriamo nella congruenza teologica del racconto. Uno può dire l’atteggiamento dello sposo è strano, è la gioia di incontrare la sposa e si improvvisa portiere che sbarra la porta al gruppo delle ragazze e risponde in maniera secca, dura! Questo è il modo con cui l’evangelista cattura l’attenzione degli ascoltatori; questa maniera un po’strana di presentare i personaggi e le situazioni che accadono, hanno lo scopo didattico di catturare di più l’attenzione di chi sta ascoltando per chiedersi il perché. Lo sposo risponde alle cinque ragazze con le stesse parole che Gesù ha già rivolto alla fine del primo grande discorso della montagna, a quelli chiamati gli operatori di iniquità costruttori del nulla,7,23 non vi conosco, non so chi siete.

Le ragazze non vengono fatte entrare dallo sposo nella sala delle nozze perché non sono conosciute, non hanno niente in comune: per quale motivo dovete entrare? Non fate parte di questa realtà di vita, di questa festa. Si riceve la famigliarità, è l’insegnamento della parabola, quando uno è capace di spendere la propria vita a favore degli altri. Questo ci rende famigliari con il Signore, la capacità che io posso dimostrare di spendere la mia vita a favore degli altri. Matteo dice: i giusti, le persone che fanno della propria vita un servizio d’amore per gli altri, splenderanno come il sole nel regno del Padre nostro. Le persone che spendono la propria vita, non è tanto il fatto di tenere una candela accesa, splendono già di per sé, sono loro la luce, e hanno luce a sufficienza per entrare nella gioia del banchetto di nozze.

13 “Vigilate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora.” Finito il racconto, Gesù rivolge ai discepoli l’esortazione a vigilare. È una ripresa degli insegnamenti precedenti, quasi con le stesse parole che Matteo ha già adoperato in 24,42 vigilate dunque perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà.

Qual è il significato di questa esortazione che Gesù rivolge ai discepoli? Lo dobbiamo ricavare dal contesto stesso della parabola. Non è il rimanere svegli, perché tutte le dieci ragazze si sono addormentate; il vigilare vuol dire procurarsi dell’olio bastante per poter accogliere lo sposo. Vigilare è vivere in pienezza ogni istante della propria vita; la persona vigile, la persona lucida, non è quella che rimpiange il passato, per cui perde il tempo, o quella che vive in ansia per il futuro per cui lo perde due volte in più! La persona che vigila è quella che vive ogni istante della propria vita in pienezza, il presente continuo ci rende eterni. Non siamo più condizionati dal passato, né inchiodati da un futuro in cui non sappiamo che cosa accadrà, ma il credente è talmente lucido perché la sua funzione è quella di preparare un corteo di nozze, è splendere con la propria vita perché vive ogni istante in pienezza, facendo che non venga mai a mancare la luce. Il vero credente non perde il tempo in vane attese, o cerca di indovinare il futuro, di prevedere i temi, assimila giorno dopo giorno la parola del Signore e da questa assimilazione, nelle sua vita, nasce un impegno continuo a praticare la giustizia, a spendere la propria vita per il bene degli altri. L’evangelista dice che questo rende lucidi, se io faccio questo percorso saprò cogliere il filo conduttore di tutti gli eventi. Anche nelle cose più catastrofiche che possono capitare intorno a me, saprò cogliere quel filo che sta andando verso una realtà di pienezza e saprò comportarmi di conseguenza.

Qual è il significato dell’olio, elemento fondamentale della parabola? Dalla parabola abbiamo capito che l’olio è qualcosa che non si può prestare, ma che tutti possono avere. Cosa ci dice l’evangelista? Ci sono realtà personali dell’individuo, di chi vuole vivere ogni istante la propria vita in pienezza, che non si possono trasferire all’altro: sono io che devo fare le scelte responsabili, che devo essere il protagonista della mia vita, non posso chiedere ad un altro di sostituirsi a me. L’olio lo posso avere io e lo puoi avere te, dipende dalle scelte che uno fa di volere o no l’olio. Tornando al discorso che Gesù ha presentato nelle beatitudini del regno, tutto quello che è favorevole agli altri, tutto quello che permette di comunicare agli altri qualcosa di buono, può essere identificato con l’olio. Gesù ha detto: i giusti risplenderanno come il sole, ma il discorso dello splendere lo ha già ripetuto in diverse occasioni nel suo vangelo, sempre nel contesto delle beatitudini.

Ai discepoli dice che devono risplendere con la luce delle buone opere, perché in questa maniera rendono gloria al Padre, non a sé 5,16: Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli. È il comportamento benevolo a favore degli altri che tutti possiamo avere, ma che non si può prestare: o ti impegni ad averlo come frutto della tua scelta, altrimenti ti arrangi. La saggezza delle ragazze si manifesta nel mettere in pratica le parole del Signore.

La persona saggia è, dice Gesù, quella che ascoltando il messaggio lo mette in pratica. Le lampade accese con l’olio, che non viene mai a mancare è il simbolo di quell’impegno costante a favore del bene degli altri; il vigilare non è un’attesa, è l’essere consapevoli di un impegno attivo e sempre presente, non lo si può rimandare a domani. Domani forse è troppo tardi. Solo quelli che realizzano la volontà del Padre, dice Gesù, possono entrare nel regno e possono andare incontro al Signore.

14 “Allo stesso modo infatti, un uomo che stava per partire chiamò i propri servi e consegnò loro i suoi beni.Allo stesso modo, il discorso si ricollega a quello precedente, stiamo parlando del regno dei cieli, realtà di vita dove ogni persona può sperimentare la piena realizzazione, può sentirsi integrata a pieno diritto, in ciò che le spetta come essere umano. Gesù fa dei paragoni o parabole o confronti per il regno dei cieli, senza adoperare mai immagini religiose. Non troverete mai nei vangeli: il regno dei cieli è simile a un gruppo di persone che ritirati in un eremo in preghiera… ma il regno dei cieli è come un banchetto di nozze, o come uno che prepara un corteo per accogliere lo sposo che va al banchetto. Lo stesso è nella parabola dei talenti, una parabola famigliare che conosciamo molto bene, in cui il regno dei cieli sembra più consono al mondo degli affari, che a una realtà spirituale, perché si parla di beni, di talenti, di investire, di guadagnare denaro, regolare i conti, banchieri e interessi. Qualcosa di profano, concreto e quotidiano e tutti si possono riscontrare in esso.

La parabola dei talenti, come quella delle dieci ragazze è un paragone; è una storia dove l’evangelista cambia i termini del racconto perché a lui interessa dire qualcosa che altrimenti non potrebbe raccontare. Ci sono delle realtà che io non posso comunicare a livello astratto, ma mediante un racconto, che mi serve da veicolo per dire quello che con semplici parole non riesco a dire. La parabola ci mette in guardia sulla fede, un insegnamento di Gesù molto importante: la fede come adesione alla proposta che Gesù ci ha dato. La fede non comporta pii sentimenti, comporta un agire coraggioso che non è mai esente da rischi; non si può pensare alla propria fede come qualcosa di inscatolato, di messo al sicuro, dove nessuno può darci il minimo disturbo, ma è una dimensione dell’uomo e deve essere sempre considerato l’agire, mai esente da rischi.

La parabola dice che c’è un uomo facoltoso, che chiama i suoi servi; il termine servi nella cultura orientale indicava quelli che stavano sotto un grande personaggio, re o ricco, erano suoi funzionari, stavano alle sue dipendenze, però il termine era servi. Stiamo attenti al linguaggio perché abbiamo ascoltato un’infinità di volte la parabola dei talenti, però non stiamo a quanto racconta. Dobbiamo andare piano per non perderci neanche una parola, una virgola del racconto dove funzionari di alto rango riceveranno dal padrone delle somme importanti e una grande responsabilità. Matteo dice che questo uomo chiamò non i suoi servi, ma i propri servi; l’evangelista sottolinea il rapporto di appartenenza tra il signore e i suoi dipendenti, qualcosa che glieli rendeva molto vicini. Il signore consegna non solo i suoi beni, ma tutto quello su cui egli aveva comando, tutto quello di cui si sentiva padrone; c’è una massima identificazione con le sue cose. Ha un rapporto di identità piena con le sue cose e questo si riflette nel rapporto di comunione con i suoi funzionari.

L’uomo parte e consegna dei beni ai servi, non si dice che presta i talenti per poi recuperarli. L’evangelista adopera il verbo consegnare, che nella lingua antica veniva adoperato nel contesto del passaggio di un’eredità. Quando il re consegnava il regno, la corona al suo erede, non faceva questo e poi un giorno si sarebbe ripreso la corona; dal momento che aveva individuato il suo erede, diceva: da oggi tu sei il mio erede, la mia corona non potrà più tornare indietro. Consegnare è trasferire qualcosa con intenzione di non ricuperarlo. Quando si portava un ragazzo dal pedagogo, lo si consegnava al suo istruttore, non perché poi dovesse tornare come prima, ma perché diventasse una persona adulta e libera.

15 “A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo le proprie capacità e partì”. Prima della partenza il padrone trasmette ai suoi funzionari pieni poteri sui suoi beni e l’evangelista ci dice quanto viene loro donato, cinque talenti, due e uno; i beni sono dati in base alle proprie capacità. Chi era capace di ricevere cinque, ne riceve tanto e così gli altri due. Poi il padrone parte senza dare nessuna indicazione, senza chiedere garanzia alcuna, lasciando i funzionari in piena libertà e per questo Matteo dice che sono i propri funzionari, perché con loro c’era un rapporto di stretta comunione. Li lascia in piena libertà e in base alle proprie forze ricevono delle somme di denaro. Non vi lasciate prendere dai numeri, dicendo che ha lasciato a uno cinque, all’altro due, all’altro uno, ma non poteva dare a tutti cinque? Questo non è possibile; per ricevere un dono devo essere capace di gestirlo, non tutti sanno gestire i doni che vengono dati; questo padrone è molto saggio, non dà ai suoi dipendenti una responsabilità più grande di quella che possono svolgere, altrimenti li farebbe schiattare.

Faccio un esempio banale: non posso andare in cucina e mangiare tre chili di spaghetti, perché il mio stomaco non è pronto per una cosa del genere, qualcuno lo farà, io non ne posso mangiare più di un etto. Questo per dirvi che per ricevere un dono ci vogliono capacità idonee, in modo da accoglierlo. Il padrone conosce i propri servi, si fida di loro in base alle loro attitudini. Chi ha ricevuto un talento, non pensiamo che sia un poveraccio, un talento equivaleva più o meno, tra 26 e 36 chili d’oro, erano ben 6000 denari, cioè ben 20 anni del salario di un operaio. L’ultimo della fila non riceve degli spiccioli o dell’elemosina, anche a lui è consegnata una somma importante. Inoltre il padrone parte e non pretende alcuna garanzia, li lascia in piena libertà.

Il termine talento che usiamo per dire che una persona ha molto talento viene da questa parabola, però il talento non è quello con cui io nasco, ma quello che mi viene dato in base alla mia capacità. Io ho talento per essere un bravo musicista, e non ci vuole la parabola per capire che dovrò tirarlo fuori; il talento della parabola è qualcosa che mi viene affidato dopo, in base alle mie capacità perché io lo faccia fruttificare, trafficare per sviluppare al massimo la mia vita.

16 “ Colui che aveva ricevuto cinque talenti andò subito a trafficare e ne guadagnò altri cinque. 17 Così anche quello che ne aveva ricevuto due ne guadagnò altri due. 18 Ma colui invece che ne aveva ricevuto uno, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone”. Chi ha ricevuto i cinque talenti parte subito, senza aspettare un attimo si dà fare per trafficare, trasforma la somma e ne guadagna altri cinque. Ha dimostrato che era in grado di ricevere quel dono. Lo stesso quello che ne ha ricevuto due si mette a trafficare e ne guadagna altri due.

I primi due personaggi si sono appropriati di quello che è stato loro consegnato, l’hanno fatto cosa propria. Invece l’ultimo fa una buca nel terreno, ci nasconde il denaro del suo padrone, non lo ritiene qualcosa che gli è stata consegnata. L’assenza del padrone è importante, è sinonimo di libertà, i dipendenti sono lasciati in piena autonomia per fare i lavori di trasformazione. Il padrone non rimane a sorvegliare i suoi uomini, si fida pienamente e la trasformazione avviene in libertà. Le due persone che hanno ricevuto, uno cinque e l’altro due, hanno capacità diverse, ma dal momento che hanno saputo trafficare con i doni, sono diventate uguali; nonostante la diversità delle loro forze, hanno saputo moltiplicare il dono dato.

Quando parliamo di uguaglianza, di fraternità all’interno della comunità, non c’è una fraternità che regga o comunità che possa essere chiamata tale, se non rispetta le diversità dell’altro. Non possiamo dire che siamo comunità perché tutti la pensiamo allo stesso modo o perché vestiamo, agiamo in maniera uguale, non è comunità, è un lager, un cimitero, non so che cosa può essere! La comunità parte dalla diversità di persone che diventano uguali dal momento che sanno mettere a frutto i doni che le sono stati dati. Quello che ha ricevuto due non ha invidia di quello che ne ha cinque, perché si sente realizzato, non è geloso dell’altro, sono uguali nella loro diversità. Questo non capita all’ultimo, che fa una buca nel terreno.

Fare una buca nel terreno è nascondere qualcosa e ricorda i rituali della morte, figura di qualcuno che ha seppellito non una somma di denaro, trenta chili d’oro, ma se stesso. Non ha ritenuto che il segno di fiducia potesse anche essere rivolto a lui. Si percepisce il suo dramma, perché non crede che il padrone possa avere una stima così grande di lui da essere destinatario di una fiducia tale. Il talento che gli è stato dato gli pesa, bisogna nasconderlo. È l’immagine dell’infelicità, perché potendo diventare ricco, perde l’occasione, non ne vuole sapere assolutamente nulla. Ritroveremo alla fine del racconto questo rituale della morte.

19 “Dopo molto tempo il padrone di quei funzionari viene e regola i conti con loro. 20 Si presentò quello che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque talenti dicendo: Signore mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque. 21 Gli disse il suo padrone: Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti stabilirò sul molto. Entra nella gioia del tuo Signore”. Passò molto tempo e il padrone facoltoso, perché il racconto fili, tornò. Era partito, doveva tornare, però l’evangelista non usa il verbo tornare, ma viene, come se fosse la prima volta che si presentava nella vita di questi uomini. Viene non per chiedere, ma per regolare i conti, nel senso di toccare con le proprie mani che cosa è successo durante la sua assenza. C’è un paradosso grandissimo, quando il primo funzionario presenta i cinque talenti guadagnati, il padrone gli dice che è stato fedele nel poco (agli occhi del padrone è poco), perché quanto ha fatto con tutte le sue forze viene moltiplicato dalla risposta del padrone: ti stabilirò sul molto. È una risposta inaspettata, il primo funzionario viene fatto partecipe di tutti gli averi del padrone. Lo stesso era avvenuto nella parabola del funzionario fedele, che il padrone, tornando, trova che procura da mangiare ai suoi colleghi e dice: bene ti stabilirò su molto, perché ti sei fidato del mio incarico. Il padrone non chiede indietro i talenti, nessuno li restituisce, l’unica cosa è presentare quanto fatto: ecco, ne ho guadagnati altri cinque, mi sono dato da fare. Non c’è restituzione, ma far vedere cosa la persona ha saputo produrre. Il primo funzionario si dimostra una persona realizzata perché il padrone gli dice: servo, dipendente, buono e fedele, hai saputo appropriarti di quello che ti è stato dato e l’hai saputo far crescere. La venuta del padrone è per confermare ciò che di positivo è avvenuto.

Questo servo, buono e fedele, riceve un’altra sorpresa dal padrone, che dice: entra nella gioia del tuo Signore. Cosa vuol dire entrare nella gioia del Signore? Già aveva guadagnato molti soldi, diventava amministratore! La gioia è un tema che Matteo sviluppa diverse volte nel suo vangelo, per far capire come la buona notizia fa scattare nell’uomo una realtà di felicità. È la gioia dei maghi quando incontrano la stella con Gesù; la gioia dell’uomo che trova un tesoro e vende tutto per comperare il campo dove il tesoro è nascosto; la gioia delle donne quando vedono Gesù risorto o del pastore che ha ritrovato la pecora smarrita. Con il termine gioia Matteo ci dice che l’uomo ha lasciato la sua condizione di funzionario, è diventato anche lui signore: entra nella gioia del tuo Signore, considerati anche tu signore, perché hai saputo far fruttificare quello che ti è stato dato, tu sei creatore, sei signore come me. Non c’è più un padrone e un dipendente, ma una realtà di piena comunione con il Signore.

C’è un richiamo al vangelo di Giovanni, quando Gesù parlando ai suoi discepoli dice: non vi ho mai chiamati servi, ma amici. Quello che veramente preme al Signore è che l’uomo possa scoprire la sua condizione di essere signore e non servo, o dipendente da nessuno.

22 “Presentatosi poi quello dei due talenti disse: Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due talenti. 23 Gli disse il suo padrone: Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti stabilirò su molto; entra nella gioia del tuo Signore”. Si ripete lo stesso quadro con le stesse parole, cambia soltanto la cifra, la risposta del Signore è la stessa. Non importa la quantità guadagnata, importa che tu ti sei appropriato di qualcosa per farlo fruttificare, hai sentito il regalo come tuo, non lo hai sciupato, lo hai fatto raddoppiare. L’uguaglianza è nella dignità alla quale viene invitato il secondo funzionario, quello che conta è l’impegno di aver fatto fruttificare quello che era stato consegnato. Per la seconda volta il padrone dice: bene, c’è soddisfazione, per questo era venuto il padrone, non per fare dei conti. Era venuto per dire: che bello, sei una persona riuscita, non sei più un funzionario, sei un signore. Tu lo hai capito con la tua testa, non ho dovuto insegnartelo. È la grande gratificazione del padrone che il suo funzionario ha capito che era signore, non era servo di nessuno. Il bene ricorda, in maniera un po’ lontana, la frase che il Dio della Genesi ripete ad ogni sua opera: Dio vide che era cosa molto bella. È ammirare le cose che uno è riuscito a fare e in questo caso il padrone gode di quello che è stato realizzato. Perché entrino nella gioia del Signore, tutti e due ricevono la stessa dignità, il padrone non ha dovuto rinunciare a niente di suo, non è stato spodestato, ha fatto spazio perché gli altri si potessero integrare nella condizione di signori. Essi hanno fatto fruttificare il dono con il quale hanno creato rapporti di uguaglianza e di comunione con il Signore, è molto più importante della cifra guadagnata.

24 “Venuto invece colui che aveva ricevuto un solo talento disse: Signore, so che tu sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso”. Il racconto cambia, il terzo personaggio non si pronuncia come gli altri due, comincia in maniera molto presuntuosa: so che tu sei, io so di conoscerti. È il primo sbaglio del funzionario che crede di conoscere il suo padrone e dà una motivazione del suo operato. Ci sono delle differenze di vedute sulla persona del padrone; i primi due sono andati dal padrone dicendo: ecco ho guadagnato; l’ultimo dice: so che tu sei un uomo duro. Prima si parla di una generosità che non ha limiti in una massima fiducia e poi si presenta il volto di un uomo molto duro, molto severo, che può mietere dove non ha seminato o raccogliere dove non ha sparso.

Abbiamo il nucleo della parabola; l’evangelista ci dice: che cosa è veramente l’uomo che va avanti in una realtà di vita, che è il regno. L’uomo deve essere servo di Dio o deve essere l’erede di questo Padre? I primi due funzionari hanno capito che sono eredi, che è stato consegnato tutto, perché la vita possa acquistare la qualità divina. Invece l’altro ha un’immagine distorta di Dio, ha l’immagine che gli è stata inculcata dell’uomo come servo assoggettato alla volontà di un padrone che decide. Per cui anche se gli affida qualcosa, è sempre del padrone, glielo deve ridare perché non si sa mai. Una falsa immagine del padrone può portare al fallimento totale della persona, ora viene motivato il suo modo di operare,

25 “Per paura andai a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco il tuo talento”. Il terzo personaggio non ha mai sentito come suo il dono che gli era stato consegnato, era il talento del suo padrone: ecco il tuo talento, che ho nascosto sotto terra. L’uomo ha preso tutte le precauzioni, non si è sentito oggetto della massima fiducia che il padrone gli ha dimostrato. La sua paura è coerente con la sua visione distorta del padrone: un tipo avido, un tipo che domina e non si sa come si può comportare. È in preda della paura, non vuole rischiare niente, ha il terrore di fare qualcosa di sbagliato, di perdere il talento e attirarsi le furie del padrone.

L’immagine distorta parte dalla presunzione dell’uomo che dice: ti conosco. Gli altri due dicono soltanto: ho creduto nel dono che tu mi hai dato e l’ho fatto moltiplicare. Credono alla generosità del padrone. Il gesto dell’ultimo funzionario, abbiamo già detto che ricorda la morte e i suoi rituali, nel diritto rabbinico, all’epoca di Gesù, si diceva: chi sotterrava il denaro che gli era stato affidato, se questo veniva rubato, non era tenuto alla restituzione o al risarcimento. Il funzionario si mette al sicuro: caso mai me lo dovessero rubare, o lo perdessi, meglio nasconderlo, perché se sarò chiamato in causa, non lo dovrò ridare. Lo ridà, ma senza frutti, restituisce quello che gli era stato dato. Una falsa immagine del padrone, o di Dio, può bloccare il processo di crescita della persona, che per paura di commettere errori, non rischia, non si gioca la vita e non farà mai fruttificare i doni.

26 “ Ma il suo padrone disse: Servo maligno e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; 27 avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così ritornando io avrei ritirato il mio con l’interesse”. Il rimprovero del padrone è forte, mentre negli altri due c’era l’invito: entra nella gioia. Il padrone ripete le parole del terzo funzionario, ma non tutte, manca qualcosa. Non ripete esattamente le cose che gli ha rivolto il funzionario: sapevi che sono un uomo duro (Signore so che sei un uomo duro che mieti) perché lui non è un uomo duro e il riprendere che raccolgo dove non ho seminato, è in maniera interrogativa, per dire: ma sei così in preda di un’immagine così dura, sei stato un povero cretino, se tu affidavi i tuoi soldi a un banchiere per lo meno qualcosa avresti ricavato. Qualunque persona con un minimo di luce, sarebbe andato in banca per avere un interesse, invece non sei stato capace di fare nemmeno questo. La tua pigrizia, la tua paura ti ha completamente rovinato la vita.

28 “Toglietegli dunque il talento e datelo a chi ha 10 talenti”. Il terzo funzionario non viene punito perché ha fatto qualcosa di male, ma perché non ha fatto nulla, non ha saputo far fruttare gli interessi del dono. Con le logiche del mercato potremmo dire che lo ha diminuito, lo ha sciupato. Ha seppellito se stesso, non è degno di ricevere il dono e quasi, quasi il padrone gli fa un favore: togliamoglielo, ha dimostrato di non saper gestire neanche un talento, diamolo a quello che ha dimostrato la massima capacità per farlo fruttare.

29 “Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha”. Questa espressione è già apparsa nella parabola dei quattro terreni, al capitolo 13,12; non si tratta di avere: colui che ha, ha di più; ma a chi produce viene aumentata la capacità di produrre. La somma che il primo e il secondo funzionario hanno ricevuto è molto di più delle loro capacità di aver fatto raddoppiare i cinque e i due talenti. Il racconto dice che chi è capace di produrre, sente aumentare dentro di sé la capacità di produrre ancora di più. Anche se rischio e tante volte sbaglio, non perdo niente, ma dal momento che produco ricevo un’altra forza in più. I doni che i funzionari hanno ricevuto, non sono all’altezza di tutta la generosità del padrone, perché ha dato molto di più di quello che essi potevano avere.

30 “E il servo inutile gettatelo nelle tenebre esteriore; là sarà pianto e stridore di denti.Anche questa ci può sembrare un’immagine dura, severa. Però rimaniamo nel linguaggio della parabola, l’evangelista vuol dire qualcos’altro, non è una cronaca di giornale su che cosa è successo in un certo tempo a particolari persone. L’immagine forte ti fa ragionare: si parla di tenebre esteriori, si parla di pianto e stridore, tutto ciò indica una frustrazione. L’uomo si trova veramente così, finalmente qualcuno gli dice quello che veramente è: tu sei un frustrato e da questa tua consapevolezza qualcosa potrà cambiare. Non ha altro che considerare la propria frustrazione.

Il racconto dei talenti è rivolto a chiedere in quale Dio noi crediamo: in un Dio che ci tiene sottomessi e che ci considera suoi servi o in un Padre che ci considera eredi e non vede l’ora che entriamo nella sua gioia, saliamo alla sua stessa altezza?

Questo discorso deve essere scoperto dall’uomo, Dio non può dire: ecco tu sei signore. Sarebbe troppo facile, la gloria di Dio è quando l’uomo dice: anch’io sono signore. Questa è la gloria di Dio, che l’uomo arrivi con le proprie capacità, con la propria creatività di intraprendenza a scoprire la sua condizione: io non sono un servo, io non sono dipendente da nessuno, sono un signore. È l’obbiettivo del racconto, che mette al centro la novità di tutto quanto Gesù sta insegnando. Cosa trovate di solito, nelle religioni? Troviamo che Dio, che le divinità hanno creato l’uomo, ma nella novità di Gesù troviamo che Dio vuole che l’uomo sia anche lui Dio, questa è la grande novità. Dio non solo crea l’uomo, questo lo diamo per scontato, ma fa sì che gli uomini siano divini, che l’uomo sia in una condizione di pienezza: mi sento anch’io veramente divino, sono signore anch’io.

Si arriva a questo, imparando dall’immagine che Gesù ci ha dato del Padre: un uomo talmente generoso che ha una fiducia talmente grande dell’uomo, che lo lascia in piena libertà senza alcuna costrizione, senza alcuna minaccia, senza porre condizioni di nessun tipo, senza chiedere garanzie, questo è il Dio di Gesù. È il Dio che fa crescere l’uomo per portalo non ad uno stato di perfezione ad un gradino al di sotto della divinità, ma in uno stato di piena autonomia in modo che non dipende neanche da Dio, perché è come lui. È questa la gloria di Dio che Gesù ci ha voluto comunicare, la parabola ci presenta questo passaggio, come un ponte, dalla condizione umana alla gioia divina.

Tante volte usiamo il concetto Dio onnipotente, è molto equivoco, porta a immagini falsate di Dio. La vera potenza di Dio consiste nel fatto che si limita perché tu possa realizzarti. Non è potenza dire che io faccio tutto quello che posso e tu non fai altro che eseguire; questo è schiavismo, è manipolazione, è tenere l’uomo in uno stato di infantilismo totale. La vera potenza è che mi limito, me ne vado, vi lascio liberi, limito il mio potere perché tu possa entrare nella condizione di signore. Devi arrivare a questo da te, io non te lo posso imporre altrimenti sarebbe troppo facile e sicuramente non gratificante come la parabola ci racconta.

Vediamo l’insegnamento finale della parabola sulle nazioni, le parole di tutto l’ultimo grande discorso hanno una forza particolare, dal momento che sono le ultime parole che Gesù rivolge ai discepoli: abbiate in mente questo, siamo tutti signori e la gloria di Dio è che noi possiamo entrare con la nostra libertà, consapevolezza, libera scelta nella dimensione di massima realizzazione. La parabola sulle nazioni riprende la prima parte del discorso delle beatitudini, in cui Gesù aveva detto ai discepoli: tutto quanto volete che gli altri facciano a voi, anche voi fatelo a loro, questa infatti è la Legge e i profeti (7,12). Questo è l’insegnamento che verrà ripreso alla fine dell’ultimo discorso. Come abbiamo detto anche per le altre parabole, l’uomo entra in pieno diritto nella realtà del regno non per il suo rapporto con Dio, ma per il suo rapporto con gli altri, con i quali può stabilire rapporti di vera uguaglianza, nella sua diversità, senza gelosie, invidie, rivalità, ambizioni. Altrimenti è impossibile che ci sia comunione.

31 “ Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria e tutti gli angeli con lui, allora si sederà sul trono della sua gloria. 32 E saranno riuniti davanti a lui tutte le genti. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri”, È l’immagine che tutti conosciamo e vi anticipo che non si parla di nessun giudizio, sono i paraocchi che i preti ci hanno messo su questo testo di Matteo. Matteo parla dei popoli pagani: quando il Figlio dell’uomo verrà e saranno riuniti davanti a lui le genti pagane (non si parla del popolo di Israele), che per un motivo o per l’altro non hanno fatto esperienza della proposta di Gesù. È un incontro di tutta l’umanità (quello che significa essere umani) con il Figlio dell’uomo, non si parla di nessun giudice, non si dice: quando il giudice verrà, ma quando il Figlio dell’uomo verrà. Abbiamo già detto nel capitolo 24 che il Figlio dell’uomo non è altro che la vittoria di ciò che è umano, non può vincere ciò che non è umano, che è sfigurato dal potere, dall’ambizione, dalla violenza, dallo sfruttamento, anche se ha una forza molto forte. Ha i giorni contati. Vince ciò che è umano, ciò che rende l’uomo essere compiuto. Noi possiamo riconoscerci idealmente, nel Figlio dell’uomo, Gesù, colui che ha portato a piena realizzazione il progetto di umanità.

Gesù è l’Uomo per eccellenza, in questa umanità possiamo sentirci coinvolti tutti noi; tramite Gesù anche noi possiamo raggiungere il massimo di umanità ed entrare nella condizione divina e sederci sul trono della gloria. Non è il trono di un giudice, è un’espressione presa dall’Antico Testamento per parlare della presenza di Dio nel tempio di Gerusalemme. Lì non c’era nessuna immagine di Jahve, ma si diceva che lo stesso tempio era il trono della gloria di Dio. Matteo riprende l’immagine per dire che dove l’uomo manifesta la sua piena condizione, la sua umanità, lì c’è Dio e lì avviene l’incontro con tutte le genti.

C’era una teoria per alcuni tutt’ora valida, ma infondata, che fuori dalla Chiesa non c’è salvezza, ma non è assolutamente conciliabile con il messaggio di Gesù, soprattutto alla luce di quest’insegnamento: non importa che fede tu professi, importa il tuo rapporto con l’altro. Certo noi siamo contenti di professare la fede di Gesù, non la cambio per nessuna, però questo non mi rende superiore agli altri, non presumo di avere qualcosa che gli altri non possono avere, ma cerco di diffondere una dinamica d’amore perché anche in altre culture venga messo al primo posto l’interesse per l’altro.

Bisogna leggere questa pagina ultima, in chiave di umanità; come posso dimostrare la mia attenzione verso i bisogni degli altri, ed è questo che mi fa entrare nella vita. L’Uomo o il Figlio dell’uomo è paragonato ad un pastore (non c’è traccia di un giudice) che alla sera può facilmente separare le pecore dalle capre, perché a occhio nudo distingue una pecora da una capra.

33 “e porrà le pecore alla sua desta e i capri alla sua sinistra”. Sono valori che appartengono alla cultura del tempo, quello che sta a destra del re ha più onore, quello che sta a sinistra è visto in maniera più negativa. Sono categorie della mentalità del tempo, a noi interessa come il Figlio dell’uomo, indicato come un re, si rivolge alle nazioni. 34 Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo. 35 Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero straniero e mi avete ospitato, 36 nudo e mi avete vestito; malato e mi avete visitato”, il Figlio dell’uomo distingue dalla semplice vista: tu sei vivo, perché quando ho avuto fame mi hai dato da mangiare, ho avuto sete mi hai dato da bere, ero malato, ero straniero… chi è vivo lo manifesta già dal volto, dalla sua persona. Non c’è bisogno di fare una distinzione, buoni o cattivi; si vede chi è nella vita, non è altro che constatare che la vita è scoppiata dentro di te perché hai avuto attenzione nei confronti dell’altro per garantirgli le minime esigenze, come dare un pezzo di pane, un bicchier d’acqua, niente di particolare, di grandioso. Non sono opere che rimangono nelle cronache giornalistiche o in prima pagina.

Abbiamo visto al capitolo 13, alla fine delle parabole del regno, l’immagine in cui si diceva che il regno sarà come una rete, dove entrano pesci buoni, vivi e pesci marci, che sono già morti. I pescatori tengono i pesci buoni, dei marci che puzzano, non sanno che farsene. Non c’è un verdetto, ma soltanto un appello all’umanità: tu sei stato uomo e lo hai dimostrato perché ti sei interessato per i bisogni degli altri. Gesù dice a queste persone: venite a me benedetti dal Padre mio e ricevete il regno, entrate nella condizione di massima dignità o entra nella gioia del tuo Signore, come abbiamo visto nella parabola dei talenti. Tu sei erede, tu che sei uomo e hai realizzato la volontà del Padre dandoti da fare per gli altri. La cosa interessante è che il Padre ha preparato il regno, lo teneva già pronto fin dalla creazione del mondo. Da quando ha creato tutto, Dio ha avuto un pensiero solo, che l’uomo potesse entrare nella realtà di vita piena e si è mantenuto fedele al suo desiderio nonostante i tradimenti, le infedeltà dell’uomo. Questi uomini ricevono il regno perché sono stati misericordiosi, hanno avuto dei gesti di attenzione, di umanità nei confronti dei bisogni degli altri; non è chiamato in causa Dio,cosa a lui ha fatto, ma per aver fatto qualcosa a chi era nel bisogno.

Matteo ci ricorda una pagina della letteratura giudaica, del Talmud, dove c’è qualcosa di simile su cosa succede alla fine dei tempi: Nell’aldilà, il Santo che benedetto sia, prenderà un rotolo della Thorà, se lo poserà sulle ginocchia e dirà: Chi se ne è occupato venga e riceverà la sua ricompensa. Nella mentalità giudaica la ricompensa dei giusti veniva dall’osservanza della Legge, la Thorà. Matteo cambia i termini, non parla di una legge, di un codice, di norme e precetti da osservare, ma di persone che avevano bisogno di aiuto e verso le quali tu hai dimostrato la tua attenzione. È un comportamento che tiene conto delle elementari esigenze umane e permette all’altro di rimanere in vita: io ho garantito la vita di una persona, interessandomi a dargli da mangiare, da bere, ad accoglierlo…

Matteo accoglie una tradizione molto forte sul comportamento nei confronti degli altri e nel Deuteronomio 15,11, Dio parla così: poiché i bisognosi non mancheranno mai nel paese, perciò io ti do questo comando e ti dico: apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso nel tuo paese. La Legge di Mosè già prevedeva che si doveva essere generosi ad aprire la mano verso il fratello, ma c’è un limite: io debbo preoccuparmi se tu sei del mio clan, del mio popolo. Gesù secondo l’insegnamento che Matteo ci presenta, non pone più alcun limite: a chiunque hai dato un pezzo di pane, un bicchiere d’acqua, un vestito, un saluto, un’assistenza all’ospedale, è considerato giusto per entrare nella vita.

L’elenco di opere si conclude con una che ci lascia perplessi,

erocarcerato e siete venuti da me”. Di solito negli elenchi di altre letterature, non si parla mai di carcerati, perché il carcerato è uno che sconta una pena, io non sono in causa, è responsabile del castigo ricevuto; però il testo dice che anche verso queste persone bisogna manifestare la misericordia. Nel mondo giudaico, chi andava a finire in galera non era nutrito e i parenti gli portavano da mangiare. Se non aveva nessuno, oltre la galera, moriva di fame. Non si parla di fare una visitina al carcerato, ma interessarsi per la sua sopravvivenza e in questo testo, Matteo lo ritiene un gesto di grande umanità. Non possiamo ritenerci persone umane se vogliamo cancellare qualcosa da questo elenco.

Certamente mi interesserò di un povero ammalato, di uno che è affamato, che io mi debba interessare dei carcerati, non esiste! È già tanto se non imploro contro loro le ire divine! I malvagi ci minacciano la vita, ci tolgono la sicurezza per le strade! C’è chi implora la pena di morte o torture, ma la tortura peggiore è che rimangono come vermi per il resto della vita, chiusi in carcere. Gesù dice: chi la pensa così non sarà mai uomo, sarà un aguzzino spietato, augurandogli che non vada a finire in carcere, allora saprà cosa è quello che augura all’altro. L’attenzione ai carcerati è una caratteristica esclusiva di Gesù in questo messaggio. In quest’elenco di opere non viene fatto accenno alcuno alla fatica che gli uomini hanno dovuto compiere, non sono delle opere pesanti, non si è dovuto costruire una casa per i malati, ma basta dare un pezzo di pane e hai manifestato la tua umanità.

Nell’elenco presentato ognuno può rispondere in base alla propria umanità, nessuno si può tirare indietro dicendo: per me è troppo, non chiedermi questo. Vuol dire che non hai capito cosa significa essere uomo e ti auguriamo di non trovarti mai in quelle condizioni. Sicuramente ti farebbe molto piacere che qualcuno ti desse un pezzo di pane, ti accogliesse in casa, ti venisse a trovare all’ospedale, o ti rendesse il carcere meno duro.

37 “Allora i giusti risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? 38 Quando ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? 39 E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti da te? 40 Rispondendo il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me”. Le persone che si sono comportate in maniera umanitaria, credono di non aver fatto niente di particolare, non avevano mai pensato che Dio fosse lì in mezzo: quando mai pensavamo di poter fare qualcosa che tu gradivi? Sono impressionati dalla risposta del re che chiama fratelli più piccoli, le persone che sono nel bisogno.

Nel vangelo Gesù parla solo tre volte di fratellanza, questa è una, i fratelli più piccoli; ne ha parlato nel contesto della parabola chi è mia madre chi sono i miei fratelli: chi compie la volontà del Padre, è per me come se fosse mia madre, mia sorella, mio fratello. Alla fine del vangelo, nel monte della resurrezione, Gesù chiamerà i discepoli fratelli e dirà alle donne: 28,10 andate ad annunziare ai miei fratelli che vadano in Galilea. Il vangelo già ha presentato qual è la via per diventare fratello di Gesù: compiere la volontà del Padre o una situazione in cui una persona deve essere aiutata; Gesù considera suo fratello anche il carcerato. Questo non si era mai visto.

Leggendo gli elenchi di opere di misericordia o i libri dei morti, nei testi egiziani, quando la persona va nell’aldilà dice: io ho dato del pane. Questo è una cosa buona, ma in nessun testo si dice: perché io mi sentivo pienamente identificato con quella persona, anche con il carcerato. Non dobbiamo però vedere, nel poveraccio, l’immagine di Gesù; questo porta una umiliazione terribile! Faccio questo perché lì c’è Gesù! Qui si dice che questi hanno visto lì un disgraziato, dimostriamo l’umanità all’altro perché ha bisogno di essere aiutato, non perché lì si manifesta Gesù! È la conseguenza alla risposta successiva: siccome non ho visto Gesù, non faccio niente; invece la persona va accolta per quello che è. Così si sperimenta la presenza del Signore.

41 “Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco continuo, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. 42 Perché ho avuto fame e non mi avete da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; 43 ero straniero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. Questa è l’ultima volta nel vangelo, in cui è usato il termine maledetti, mentre prima si diceva venite benedetti dal Padre mio, ora è solo maledetti, Dio non maledice nessuno, benedice solo, Dio riconosce e parla bene di te (benedire vuol dire parlare bene di qualcuno), poiché ti sei dimostrato umano, ti sei dimostrato simile a lui che è il massimo della umanità.

Dio non può dire male di nessuno, perché aspetta, finché c’è la possibilità di entrare nella dimensione di umanità piena. La maledizione non è altro che la condanna delle persone stesse che si chiudono alla vita e la gettano sul proprio capo; sono coloro che, sordi agli elementari bisogni umani, si sono lasciati andare verso la morte. Non dando da mangiare o da bere, non uccido nessuno, ma non è detto, perché lo lasci in una condizione di morte imminente e in fondo anche tu sei omicida. Infatti qui si ricorda la maledizione di Caino, il primo fratricida, colui che ha negato la vita come queste persone che, negando l’aiuto, hanno portato l’altro a una situazione di morte.

Le persone che si auto maledicono, che hanno gettato la condanna sul loro capo, devono andare nel fuoco eterno. C’è un’immagine che a molti piace sbandierare: il fuoco eterno. Qui si parla che il fuoco continuo è stato preparato non per esse, ma per il diavolo e i suoi messaggeri (angeli). Il fuoco eterno è un’espressione che Matteo ha già adoperato al capitolo 18,6: guai a chi scandalizza questi piccoli, sarebbe meglio che gli venisse appesa al collo una macina da mulino e fosse gettato nel profondo del mare; se la tua mano ti scandalizza toglila, perché è meglio entrare nella vita monco, che andare a finire tutto intero nel fuoco eterno. In quell’occasione Matteo aveva spiegato il fuoco eterno, la geenna di fuoco, una realtà dove la vita è completamente estinta, annientata; in questo caso si parla del fuoco eterno, che non è preparato fin dalla creazione del mondo.

Il regno è stato preparato fin dalla creazione del mondo, il fuoco non è altro che la conclusione logica di quelli che si chiudono alla una dimensione di vita. Qui si parla del diavolo e dei suoi angeli, avversari dell’uomo e non hanno futuro.

44 “Allora anche questi gli risponderanno: Signore quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o ammalato o in carcere e non ti abbiamo servito? 45 Allora risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno solo di questi più piccoli non l’avete fatto a me. 46 Questi se ne andranno alla punizione eterna; ma i giusti alla vita eterna”. La risposta di questi ultimi è molto più sintetica, fanno soltanto la prima parte della domanda: quando mai ti abbiamo visto… e non aggiungono e non ti abbiamo fatto questo, perché per loro è lontano mille miglia, dicono non ti abbiamo servito. Matteo usa il verbo diaconeo, da dove viene diaconia, diacono. Gli altri non parlavano di servizio, ma di andare a trovare, di assistere; usano un termine tipico della sequela cristiana del credente, però pensano secondo la mentalità tradizionale, che il servizio deve essere rivolto alla divinità, e non ti abbiamo servito, ma quando mai! Rimangono perplessi, credono di aver servito la divinità, con le loro pratiche religiose che però non comprendono il dar da mangiare, dar da bere, che fa parte del quotidiano umano; esse non riguardano il rapporto con la divinità.

È la situazione tristissima di una realtà di frustrazione totale, dove concentrati nel servizio religioso, nelle pratiche di pietà, sono incapaci di vedere le necessità, i bisogni degli altri. Questi al termine finiscono in una punizione eterna, il termine indica mutilazione e potremmo dire che si sono chiusi alla vita. Quelli che hanno negato segni di umanità, si sono auto mutilati, sono persone incomplete, sono loro che si chiudono; la punizione eterna non è un castigo supplementare dopo la morte, è il constare una situazione di annientamento totale. Io mi sono mutilato, ho tolto quella parte di me che mi rendeva vivo, e questo mi rende in uno stato di morte totale definitiva, senza fiamme perpetue!

Questi se ne andranno alla punizione eterna e i giusti alla vita eterna, Matteo prende una espressione del libro del profeta Daniele, che aveva già usato una simile espressione: molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno, gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna dell’infamia eterna. Matteo ha invertito i termini, parla di quelli che vanno alla mutilazione e quelli che entrano nella vita, l’immagine è positiva. Nella nostra mente non rimane il discorso di punizione, ma una realtà di vita piena alla quale l’uomo può accedere. Attraverso immagini anche forti, l’evangelista sollecita la sua comunità ad entrare in una dimensione di misericordia: beati i misericordiosi perché troveranno misericordia. Questo preme all’evangelista, questo preme a Gesù, che tutte le persone si possano rendere conto che con la misericordia realizzano la volontà di Dio, che ha detto: misericordia voglio e non sacrificio.

Trascrizioni delle conferenze di fra Alberto Maggi e fra Ricardo Pérez Márquez della comunità dei Servi di Maria, tenute a Montefano tra il 1997 e il 2004, non riviste dagli autori.
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