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Arriviamo alla fine del libro dei Giudici con un episodio forse più violento e più tragico di quelli che abbiamo incontrato. Vi chiederei di tener presente tutto il cammino che abbiamo fatto, per poter avere un’idea adeguata di questo libro e di che cosa rappresenta nell’insieme della Bibbia e soprattutto della storia deuteronomica, che va dal libro di Giosuè fino al tempo dei re. È un’opera intera, storiografica, per cui va tenuto presente sia il materiale di questi capitoli, sia la redazione che l’ha assemblato, per capire quale è il momento della rivelazione della parola di Dio e quale è, allora, anche il significato spirituale che deve avere per noi. (…)

Questo tipo di incontri che noi facciamo si interessa di cogliere il significato di un libro o di alcuni libri all’interno di tutto il discorso biblico, senza la pretesa di voler trovare nel libro che stiamo leggendo la definizione finale delle cose di cui si parla. Nel libro dei Giudici non c’è tutto il cristianesimo, ma ci interessa di capire che cosa si è seminato in questo momento della rivelazione biblica e che cosa rimane del libro dei Giudici in quello che è attualmente il nostro modo di vivere la rivelazione biblica.

Ci troviamo oggi davanti al delitto di Gabaa e la guerra contro Beniamino. Abbiamo già detto in varie occasioni che un filo lega questi capitoli ed è che al Signore interessa salvare Israele. Il tema di questo libro è che il Signore sta accompagnando il suo popolo che sta nella terra promessa in mezzo a tutti gli altri popoli, e soprattutto quella parte d’Israele che non viene dall’Egitto e quindi non ha conosciuto la vicenda dell’esodo e che quindi si trova nel paese come gli altri popoli.

Questo libro parla della formazione di un popolo particolare, le tribù del nord e le tribù del sud che si uniscono insieme e che piano piano prendono una fisionomia particolare perché il Signore le ha scelte per farne il proprio popolo. (…)

Nel libro dei Giudici abbiamo incontrato vari momenti di questa opera di formazione del popolo che il Signore fa per sé secondo la formula dell’alleanza: «Vi prenderò come mio popolo e diventerò il vostro Dio». Questo lo incontriamo nel libro dei Giudici attraverso, si potrebbe dire, degli articoli di giornale. Ognuna di queste storie è una storia a parte; sia pure nella continuità, il popolo è sempre lo stesso.

Però nei primi sedici capitoli noi incontriamo una confessione generale, da parte del popolo, della sua peccaminosità. Questo popolo che si sta formando non è affatto arrogante, ma si confessa ripetutamente dicendo che «Israele fece quello che è male agli occhi del Signore». È una continua confessione dei propri peccati riconoscendo che in un certo periodo non si è riusciti ad essere popolo di Dio e si è caduti nell’idolatria la cui conseguenza è stata una dura punizione.

Erano colpevoli di infedeltà, ma non avevano potuto staccarsi dal Signore. All’invocazione innalzata nella sofferenza, il Signore ha risposto mandando il suo aiuto. Non ha risolto il problema con un intervento permanente, almeno per il momento, ma con l’invio di un aiuto per le necessità che avevano spinto il popolo a pregarlo.

Abbiamo quindi questa sorta di aiuto spirituale che si potrebbe definire ‘passeggero’. Lo Spirito del Signore scende su qualcuno e lo rende capace di liberare il popolo dalla situazione disagiata in cui è caduto e di rimetterlo in piedi per un certo tempo. Poi ricomincia da capo, con la stessa modalità.

È un libro molto diverso da quello precedente di Giosuè, che sembra piuttosto una marcia trionfale, un inno militare: noi arriviamo e vinciamo, sconfiggendo tutti i re del nord, del sud, del centro… Questa è una celebrazione epica, si potrebbe dire, e il libro dei Giudici ne è una correzione. Quella di Israele in mezzo agli altri popoli non è davvero una marcia trionfale, ma una formazione lenta, faticosa, in cui quello che fa soffrire di più e rende la cosa difficile è tutto il confronto cultuale e culturale con gli altri popoli.

Il primo problema è quello delle varie tribù che devono fondersi insieme, e non è certo facile mettere insieme quelle che vengono dal deserto e che sono state schiave in Egitto, e quelle che invece non sono state in Egitto e si occupano piuttosto di coltivazioni. I popoli nomadi, poi, (Madianiti, Ammoniti, Moabiti) sono un serio pericolo perché vengono a razziare i prodotti del suolo. Si potrebbe dire che ogni tribù pensa a se stessa, cerca di sviluppare la propria identità rispetto alle altre. Quindi, al Signore interessa Israele in quanto popolo, ma all’israelita interessa la propria tribù. E ancora molto difficile pensare di mettersi insieme e considerarsi ‘popolo’.

Questo per quanto riguarda i primi capitoli del libro dei Giudici e l’identità nazionale, cioè il fatto di essere un popolo particolare, minacciato dalle altre popolazioni che non lo sono affatto.

Poi ci sono i due capitoli (17-18) su cui ci siamo fermati ieri, che in un certo senso ci hanno presentato un problema nuovo, più particolare, dell’edificazione di questo popolo. Da una parte è la scelta di Dio di fare d’Israele il proprio popolo (tema fondamentale del libro), dall’altra è la risposta d’Israele all’intervento di Dio, alla sua visita: il tempio, il culto. Si potrebbe dire che è il problema della religione. Nella religione l’iniziativa è dell’uomo, ma ci può essere un’iniziativa degli uomini che passa – cioè comincia con noi e termina con noi, perché l’uomo non sa uscire da sé per arrivare a Dio –, oppure può esserci una religione che viene dalla fede, dalla visita di Dio, dalla sua iniziativa che suggerisce il modo adeguato di rispondere al Signore. Abbiamo visto questo andare a tentoni delle tribù (l’idolo e il santuario di Mica, il levita di Giuda, il culto pagato). Abbiamo visto la religione come un manomettere, in qualche modo il rapporto con Dio, per farlo servire agli interessi nostri. Siccome deve emigrare, dal momento che ci sono i Filistei, la tribù di Dan va a cercare un territorio da un’altra parte, tentando di ottenere una protezione divina con delle manovre cultuali forse anche poco pulite. Ma non c’è ancora una finezza individuale in questo. Si mescolano insieme delle forme idolatriche e anche delle forme più pure.

Nella storia di Sansone, di questo nazireo consacrato al Signore, vediamo che la sua vita non è certo un modello morale e nemmeno religioso. Però Sansone prega, ha un senso vero di Dio. In fondo ricerca il Signore anche se gli hanno tolto gli occhi. Accetta la provvidenza di Dio su di sé anche attraverso l’umiliazione di aver tradito il segreto della propria forza prodigiosa. C’è in lui una finezza di fede che dovremmo cogliere, ma che in questo uomo rozzo non sa esprimersi in modo adeguato.

Però così il Signore comincia, e queste sono delle lezioni che possiamo conservare anche per noi perché anche nella nostra vita il Signore comincia a formarci come uomini e donne del suo popolo attraverso quella miscela di divino e di umano che c’è in noi e che lui porta avanti attraverso il tempo e la vita di un popolo, fino a farci scoprire la santità umana piena, che è quella del Figlio.

Allora cogliamo, come già si poteva cogliere nella storia dei patriarchi, un rapporto tra fede e morale, dove la fede è il dono di Dio, la sua visita all’uomo, e la morale è la risposta che l’uomo cerca di costruire con le proprie mani per rispondere all’iniziativa di Dio. C’è una distanza, e questo lo notavamo appunto anche nel caso dei patriarchi, tra la fede e la morale. Abramo ci impiega parecchio per sintonizzarsi veramente con la promessa di Dio, tant’è vero che Dio gli ha promesso che avrà una discendenza e lui, vedendo che un figlio non arriva mai, pensa di dargli una mano facendo un figlio con la schiava. Noi definiamo Abramo come ‘padre nella fede’, ma lo è diventato attraverso tutta la sua vita. È padre nella fede quando Dio gli chiede di sacrificargli Isacco.

Fede e morale, ma anche fede e religione. Forse la religione è un capitolo della morale, è il mondo costruito dall’uomo direttamente in risposta all’iniziativa di Dio. È il campo della preghiera, dei voti, delle promesse che si fanno a Dio, delle richieste di aiuto, del dialogo con Dio, ma tenendo conto dei costumi umani del tempo a cui siamo arrivati, della società a cui apparteniamo.

Il mondo del libro dei Giudici è il mondo della violenza, ma bisogna tenere ben presente che il mondo umano è il mondo della violenza. Non è vero che il mondo di oggi è più umano anzi, oggi c’è una violenza più massiccia che al tempo dei giudici, una violenza articolata in tante forme. Non è soltanto la violenza della spada, ma anche quella dell’economia, del mercato, della cultura, dei mezzi di propaganda e di comunicazione. (…)

Però è vero – e di questo dobbiamo tener conto – che nella Bibbia alcuni libri, specialmente i più antichi, sembra che attribuiscano quella violenza a Dio stesso, che vorrebbe la vendetta, la giustizia fatta appunto con la violenza. Ma qui dobbiamo essere intelligenti e dobbiamo aiutare gli altri ad esserlo. Nella Bibbia abbiamo la parola di Dio che non cala così, dall’alto; questo non c’è, nella spiritualità biblica! Non è che questa parola sia stata pronunciata dal Signore. La Bibbia è parola di Dio in parola di uomini, cioè è la parola di Dio interpretata da quello che la scrive, dagli autori umani biblici. Non c’è nemmeno una parola di Gesù, che pure era un uomo come noi. Non sappiamo quali siano le sue esatte parole, perché sono le parole riportate degli evangelisti (c’è il ‘Padre nostro’ riportato da Matteo e quello riportato da Luca. Non sappiamo quali siano le sue esatte parole, perché sono le parole riportate degli evangelisti (c’è il ‘Padre nostro’ riportato da Matteo e quello riportato da Luca). (…)

Vediamo che nel libro dei Giudici, nella guerra contro Beniamino, il Signore è consultato più volte dalle altre tribù che gli chiedono: «“Devo continuare a combattere contro Beniamino, mio fratello?”. Il Signore rispose: “Andate contro di loro”». La stessa storia si ripete due o tre volte (Gdc 20,23). Dio vuole forse la guerra militare contro Beniamino? L’autore biblico, sia pure in buona fede, attribuisce a Dio quello che vuole lui. Ma noi leggiamo la parola di Dio o la parola degli uomini? Noi leggiamo la storia di Dio affidata alla parola di uomini, i quali però vi mettono il loro zampino. E noi dobbiamo saper distinguere le cose…

Certo ci può sorgere la domanda su che cosa voglia veramente Dio e quale sia il modo per obbedire, cioè se sia quello prospettato dall’autore biblico. Ed ecco che nel Figlio abbiamo il criterio per un giusto giudizio. Quando nel vangelo di Giovanni si dice: «Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condanno; perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo». E nello stesso passo afferma: «Chi vede me, vede colui che mi ha mandato» (Gv 12,45.47). Allora, se Gesù non punisce ed è come il Padre, significa che il Padre stesso non punisce nessuno.

Perciò ogni volta un autore biblico di dieci o venti secoli prima dice che Dio ha punito qualcuno, bisogna interpretare questa parola con la parola del Figlio, il quale afferma che Dio non punisce nessuno, non fa violenza a nessuno anzi, a mandato il Figlio per salvare il mondo. (.–)

Nel Dio della Bibbia, dunque, non c’è violenza, ma la violenza che è attribuita a Dio viene dall’autore umano, il quale attribuisce a Dio quello che desidera lui. Quando io leggo che Dio interviene per sconfiggere un popolo invece di un altro, capisco che non è possibile, e lo capisco dalla coscienza di Gesù. Devo allora raffinare il mio senso morale e religioso partendo dalla fede nella coscienza di Gesù, dal suo cuore, dalla sua libertà.

Riprendiamo il libro dei Giudici e leggiamo l’ultima storia. Anche il cap. 19 comincia con la segnalazione già fornita ai cc. 17 e 18: «In quel tempo, quando non c’era un re in Israele…» (19,1), segnalazione che si ripeterà fino alla fine del libro. Perciò questi capitoli ultimi sono preparatori del libro seguente, il primo libro di Samuele, che sarà il libro in cui un re comincia a guidare Israele: gli interventi di Dio a favore del suo popolo sono affidati ad un’istituzione permanente. Mentre i giudici sono dei salvatori passeggeri, un po’ come avveniva nell’antica Roma di epoca repubblicana: in caso di pericolo grave veniva eletto un ‘dittatore’, che aveva il potere per sei mesi e poi ritornava alla sua vita normale.

Nella pagina che stiamo per leggere si ricordano ancora la montagna di Efraim e la città di Betlemme, e questo richiama il problema della fusione delle tribù tra di loro perché Betlemme appartiene alla tribù di Giuda (quella di Davide), che viene dal deserto dell’esodo, mentre nella tribù di Efraim ci sono quelli di Giuseppe e altri che sono vissuti sempre nel territorio. Sono le due tribù antagoniste, nel popolo che viene dal deserto, perché entrambe sono molto forti. Anzi, quelle di Giuseppe sono due tribù, Efraim e Manasse.

«Un levita, che dimorava all’estremità delle montagne di Èfraim, si prese per concubina una donna di Betlemme di Giuda» (19,1b). Il termine ‘concubina’ indica che probabilmente non era la prima moglie. Anche oggi, nel mondo islamico, solo la prima moglie è considerata tale, anche se l’uomo musulmano può sposare quattro donne. Infatti la prima non è mai ‘mandata via’.

«Ma questa sua concubina provò avversione verso di lui e lo abbandonò per tornare alla casa di suo padre, a Betlemme di Giuda, e vi rimase per un certo tempo, per quattro mesi. Suo marito si mosse e andò da lei, per parlare al suo cuore e farla tornare» (19,2-3). Il levita le è rimasto affezionato e desidera che ritorni a vivere con lui. Abbiamo già visto questo atteggiamento in Sansone quando il suocero, visto che lui se n’era andato, aveva ceduto la figlia ad un altro. Nella lingua ebraica il ‘parlare al cuore’ è un’espressione molto forte, che significa riparlare di amore.

«Aveva preso con sé il suo servo e due asini». Prevedendo di portarla a casa, aveva preso con se una cavalcatura anche per lei. «Ella lo condusse in casa di suo padre; quando il padre della giovane lo vide, gli andò incontro con gioia. Il padre della giovane, suo suocero, lo trattenne ed egli rimase con lui tre giorni; mangiarono e bevvero e passarono la notte in quel luogo. Il quarto giorno si alzarono di buon’ora e il levita si disponeva a partire. Il padre della giovane disse al genero: “Prendi un boccone di pane per ristorarti; poi ve ne andrete”. Così sedettero tutti e due insieme, mangiarono e bevvero. Poi il padre della giovane disse al marito: “Accetta di passare qui la notte e il tuo cuore gioisca”.

Quell’uomo si alzò per andarsene; ma il suocero fece tanta insistenza che accettò di passare la notte in quel luogo». C’è tutto il senso di una festa di famiglia, con questo suocero che fa di tutto per trattenere accanto a se i due giovani e rimanda di giorno in giorno il loro viaggio.

«Il quinto giorno egli si alzò di buon’ora per andarsene e il padre della giovane gli disse: “Ristòrati prima”. Così indugiarono fino al declinare del giorno e mangiarono insieme. Quando quell’uomo si alzò per andarsene con la sua concubina e con il suo servo, il suocero, il padre della giovane, gli disse: “Ecco, il giorno ora volge a sera: state qui questa notte. Ormai il giorno sta per finire: passa la notte qui e riconfòrtati. Domani vi metterete in viaggio di buon’ora e andrai alla tua tenda”. Ma quell’uomo non volle passare la notte in quel luogo; si alzò, partì». L’ultimo tentativo di trattenere il genero non ha buon esito. I due sposi partono, ma è già pomeriggio inoltrato.

Il levita si pone il problema di dove trascorrere la notte «e giunse di fronte a Gebus, cioè Gerusalemme, con i suoi due asini sellati, la sua concubina e il servo». Ma Gerusalemme non è ancora occupata dagli israeliti, ma dai Gebusei. Gerusalemme è una fortezza nel deserto che Giosuè non è riuscito a conquistare, o forse non ha avuto interesse a conquistare perché è fuori dalle grandi strade. Betlemme sta sulla strada del nord, quella che va a Sichem e poi a Damasco, comunque il levita decide di non fermarsi a Gerusalemme, abitata da stranieri, ma di proseguire per Gabaa. (Questa sarà la città di Saul, la capitale d’Israele durante il suo regno). Si tratta di una collina a nord di Gerusalemme e appartiene alla tribù di Beniamino. Il racconto è interessato alla tribù di Beniamino, perché è la tribù da cui verrà il re Saul. È una tribù piccola, che ha però sempre creato guai al popolo d’Israele. Per la verità ha dato anche salvezza, perché di Beniamino è anche Geremia, come pure Paolo di Tarso. È quindi una tribù ricca di umanità, si potrebbe dire, e abbastanza evoluta. Le due tribù di Giuda e Beniamino vanno sempre insieme.

Siccome a Gabaa ci sono gli israeliti, il levita si ferma per la notte. Di fatto nessuno gli apre la porta. Ogni tribù vive ancora per conto proprio e non c’è la coscienza dell’accoglienza fraterna. Allora si mette sulla piazza, con la concubina, il servo e i due asini carichi di tutta la roba donata dal suocero. (v. 16ss): «Quand’ecco un vecchio, che tornava la sera dal lavoro nei campi – era un uomo delle montagne di Èfraim, che abitava come forestiero a Gàbaa, mentre la gente del luogo era beniaminita –, alzàti gli occhi, vide quel viandante sulla piazza della città. Il vecchio gli disse: “Dove vai e da dove vieni?”. Così lo condusse in casa sua e diede foraggio agli asini; i viandanti si lavarono i piedi, poi mangiarono e bevvero. Mentre si stavano riconfortando, alcuni uomini della città, gente iniqua, circondarono la casa». Si ripete quello che viene raccontato in Genesi 19: quando arriva uno straniero – sembra che questa sia la situazione sociologica che viene ripetuta – si scatenano gli appetiti sessuali, soprattutto in termini di omosessualità. La presentazione dell’omosessualità nella Bibbia non è certo positiva anzi, è piuttosto negativa perché non è solo violenza, ma è violenza contro natura. Si scatena questa bramosia di ‘assaggiare’ straniero, si potrebbe dire.

«Bussando fortemente alla porta, e dissero al vecchio padrone di casa: “Fa’ uscire quell’uomo che è entrato in casa tua, perché vogliamo abusare di lui”. Il padrone di casa uscì e disse loro: «No, fratelli miei, non comportatevi male; dal momento che quest’uomo è venuto in casa mia, non dovete commettere quest’infamia! Ecco mia figlia, che è vergine, e la sua concubina: io ve le condurrò fuori, violentatele e fate loro quello che vi pare, ma non commettete contro quell’uomo una simile infamia”. Ma quegli uomini non vollero ascoltarlo. Allora il levita afferrò la sua concubina e la portò fuori da loro. Essi la presero e la violentarono tutta la notte fino al mattino; la lasciarono andare allo spuntar dell’alba. Quella donna sul far del mattino venne a cadere all’ingresso della casa dell’uomo presso il quale stava il suo padrone, e là restò finché fu giorno chiaro. Il suo padrone si alzò alla mattina, aprì la porta della casa e uscì per continuare il suo viaggio, ed ecco che la donna, la sua concubina, giaceva distesa all’ingresso della casa, con le mani sulla soglia. Le disse: “Àlzati, dobbiamo partire!». Ma non ebbe risposta. Allora il marito la caricò sull’asino e partì per tornare alla sua abitazione» (19,22-28).

Il levita, quindi, ritorna a casa sua sulle colline di Efraim e taglia il cadavere in dodici pezzi che manda poi alle dodici tribù: «Agli uomini che inviava ordinò: “Così direte a ogni uomo d’Israele: È forse mai accaduta una cosa simile da quando gli Israeliti sono usciti dalla terra d’Egitto fino ad oggi? Pensateci, consultatevi e decidete!”» (19,30). La donna violentata a morte da una delle tribù, quella di Beniamino – era un’israelita! Davanti a questo fatto mostruoso si risveglia un moto di coscienza nazionale. Si riunisce un convegno a Mispa. È questa una località in cui si tengono convegni ricordati anche nei libri successivi, come in quello dei Maccabei. Mispa significa ‘luogo di osservazione, altura’.

«Così tutti gli Israeliti si radunarono contro la città, uniti come un solo uomo. Le tribù d’Israele mandarono uomini in tutta la tribù di Beniamino a dire: “Quale delitto è stato commesso in mezzo a voi? Consegnateci quegli uomini iniqui di Gàbaa, perché li uccidiamo e cancelliamo il male da Israele”. Ma i figli di Beniamino non vollero ascoltare la voce dei loro fratelli, gli Israeliti» (20,11- 13).

Davanti a questa presa di posizione, le undici tribù decidono di muovere guerra alla tribù ribelle. I beniaminiti sono molto valorosi e ottengono molte vittorie sulla coalizione delle altre tribù, tanto che il Signore viene interpellato sull’opportunità di continuare a combattere. E dal Signore viene il responso di fare giustizia e continuare la guerra. Ma negli altri israeliti sorge insieme una domanda inquietante: “Possiamo distruggere una delle nostre dodici tribù?”.

Comunque riescono a sconfiggere definitivamente i beniaminiti: «Seicento uomini, che avevano voltato le spalle ed erano fuggiti verso il deserto, raggiunsero la roccia di Rimmon e rimasero alla roccia di Rimmon quattro mesi. Intanto gli Israeliti tornarono contro i figli di Beniamino, passarono a fil di spada nella città uomini e bestiame e quanto trovarono, e diedero alle fiamme anche tutte le città che incontrarono» (20,47).

Siamo al cap. 21. Di tutta la tribù di Beniamino rimangono poche centinaia di uomini, e c’è quindi il serio pericolo che una delle dodici tribù si estingua, fatto molto più grave della vendetta che si sta compiendo. Sicché si mette fine alla guerra e si pensa a come trovare delle mogli per i superstiti, ma «gli Israeliti avevano giurato a Mispa: “Nessuno di noi darà la propria figlia in moglie a un Beniaminita…Come faremo per procurare donne ai superstiti, dato che abbiamo giurato per il Signore di non dar loro in moglie nessuna delle nostre figlie?”.. Dissero dunque: «Fra le tribù d’Israele, qual è quella che non è venuta davanti al Signore a Mispa?». Quale tribù non ha combattuto contro i Beniaminiti? «Fatta la rassegna del popolo, si era trovato che là non vi era nessuno degli abitanti di Iabes di Gàlaad. Allora la comunità vi mandò dodicimila uomini dei più valorosi e ordinò: voterete allo sterminio ogni maschio e ogni donna che abbia avuto rapporti con un uomo; invece risparmierete le vergini». Questo tabù della sessualità fa parte della religiosità orientale: la ragazza vergine è, in un certo senso, pulita, pura.

«Quelli fecero così. Trovarono fra gli abitanti di Iabes di Gàlaad quattrocento fanciulle vergini, che non avevano avuto rapporti con un uomo, e le condussero all’accampamento, a Silo, che è nella terra di Canaan. Tutta la comunità mandò messaggeri per parlare ai figli di Beniamino, che erano alla roccia di Rimmon, e per proporre loro la pace. Allora i Beniaminiti tornarono e furono date loro quelle donne di Iabes di Gàlaad a cui era stata risparmiata la vita; ma non erano sufficienti per tutti.

E qui nasce un nuovo problema, quello di procurare mogli anche agli altri duecento beniaminiti, ricordando però che hanno giurato al Signore di non dare nessuna delle loro figlie a quella tribù malvagia. Così si pensa ad un inganno: «Ecco, ogni anno si fa una festa per il Signore a Silo. Andate, appostatevi nelle vigne e state attenti: quando le fanciulle di Silo usciranno per danzare in coro, uscite dalle vigne, rapite ciascuno una donna tra le fanciulle di Silo e andatevene nel territorio di Beniamino. Quando i loro padri o i loro fratelli verranno a discutere con noi, diremo loro: “Perdonateli: non le hanno prese una ciascuno in guerra, né voi le avete date loro: solo in tal caso sareste in colpa”». Si ritorna alla cultura dei popoli primitivi e anche il matrimonio si presenta sempre come la cattura di una preda. Del resto c’è ancora l’espressione “prendo moglie/marito”. Si va dal “parlare al cuore” a “prendere moglie”.

Il libro termina così: «I figli di Beniamino fecero a quel modo: si presero mogli, secondo il loro numero, fra le danzatrici; le rapirono, poi partirono e tornarono nel loro territorio, riedificarono le città, e vi stabilirono la loro dimora. In quel medesimo tempo, gli Israeliti se ne andarono ciascuno nella sua tribù e nella sua famiglia e da quel luogo ciascuno si diresse verso la sua eredità. In quel tempo non c’era un re in Israele; ognuno faceva come gli sembrava bene».

In questa narrazione ci deve essere anche qualcosa di storico. Non è semplicemente una leggenda perché le circostanze che vi vengono menzionate sono molto concrete dal punto di vista geografico, topografico.

Da una parte questa storia introduce la vicenda di Saul, perché egli viene proprio dalla tribù di Beniamino. Abbiamo quindi un criterio tipico del modo di comportarsi di Dio: la salvezza giunge da quella che sembra invece la rovina, la perdizione. Da questa tribù malvagia e ridotta al minimo viene il primo re, e viene un po’ con la figura di un giudice che deve salvare il popolo dalle nazioni vicine. Si potrebbe dire che la salvezza viene dalla morte, con un’immagine quasi pasquale.

Dall’altra parte il tema che questa storia vuole affrontare è quello della fusione delle tribù tra di loro, con i problemi che nascono dall’unificazione. Noi abbiamo celebrato i 150 anni dell’unità d’Italia e conosciamo bene le difficoltà che nascono dalla composizione in unità di genti diverse, di culture e di tendenze diverse.

Si evidenziano tutte le contraddizioni dello spirito umano che fanno parte di tutti questi ‘articoli giornalistici’ sulla lenta elaborazione che il popolo d’Israele ha conosciuto per diventare il popolo che riconosce l’elezione del Signore e affronta tutte le conseguenze di tale diversità.

Il libro dei Giudici è un libro duro, cupo, del tutto diverso dal libro di Giosuè, ma forse proprio per questo più storico. Ci riporta una coscienza sofferta dell’unificazione di questo popolo per essere ‘popolo di Dio’.

Gruppi di lettura continua della Bibbia in Bergamo
Settimana Biblica 2012 Bergamo 24 – 29 settembre 2012 Il libro dei Giudici
Relatore: p.j. Francesco Rossi de Gasperis
Il testo non è stato rivisto dal relato
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