Debora, l’unica donna giudice

… Abbiamo davanti a noi ancora cinque capitoli del libro dei Giudici, dal cap. 17 al cap. 21. Sono dei capitoli particolari e nella Bibbia di Gerusalemme vengono presentati come ‘appendici’, perché il libro dei Giudici – come dicevamo già all’inizio – contiene dei ricordi molto antichi dal punto di vista letterario. Una storia letteraria di questi capitoli sarebbe piuttosto complicata perché ci sono certamente dei testi, come si notava soprattutto attraverso i canti e le poesia molto antiche (alcuni potrebbero essere i primi testi dell’Antico Testamento), che ricordano una situazione precedente la monarchia, come poi pretende la redazione, che li presenta come precedenti ai libri di Samuele in cui comincia appunto la storia della monarchia. Poi, però, è chiaro che questi capitoli sono stati redatti, cioè messi insieme, molto più tardi. La composizione scritta della Bibbia risale certamente agli ultimi tempi della monarchia, ai tempi dell’esilio e del postesilio, e i redattori hanno ripreso le cose antiche e le hanno unite a quelle nuove.

Bisogna sempre leggere questi testi sapendo che sono stati non tanto composti quanto messi insieme molto più tardi e quindi tenendo presenti le lezioni della storia che è stata vissuta, soprattutto il fallimento della monarchia. Infatti questo libro porta in sé dei segni molto forti sia di prima della monarchia, sia di dopo.

Questi cinque capitoli cominciano in un modo che non c’era nei capitoli precedenti: «In quel tempo non c’era un re in Israele; ognuno faceva come gli sembrava bene» (Gdc 17,6). Questo pensiero viene ripetuto al cap. 18,1: «Allora non c’era un re in Israele e in quel tempo la tribù dei Daniti cercava un territorio per stabilirvisi», e poi al cap. 19,1: «In quel tempo, quando non c’era un re in Israele… ». E poi il libro (e questo è certamente frutto dei redattori) termina così: «In quel tempo non c’era un re in Israele; ognuno faceva come gli sembrava bene» (Gdc 21,25).

Questo è chiaramente un giudizio negativo su questo tempo in cui ognuno faceva quello che voleva, perché è segno di anarchia. Chi scrive questo? Non doveva essere una cosa che riguardasse il popolo uscito dall’Egitto, che presentava una certa organizzazione, tanto che era suddiviso in gruppi. Esso era guidato da Mosè, poi c’erano i settanta anziani nominati da lui. Noi sappiamo che il libro dei Giudici riguarda piuttosto le tribù del nord, che non sono mai andate in Egitto e ad un certo punto sono state raggiunte da quelli che venivano dall’Egitto. Si è formato così un agglomerato di tribù che, attraverso parecchio tempo – forse parecchi secoli, addirittura otto o nove –, ha dato luogo ad una federazione tra le tribù del nord, le tribù provenienti dall’Egitto e le tribù che si erano mescolate con le popolazioni cananee. Nel libro dei Giudici abbiamo le testimonianze di questo movimento di tribù.

Negli ultimi capitoli abbiamo due temi fondamentali. Il primo è la storia della tribù di Dan, che cerca un suo territorio (cc. 17-18), e che diventa interessante perché anche Sansone era di questa tribù. È quindi un po’ come il seguito della storia di Sansone. Il secondo è nei cc.19-21, dove abbiamo un episodio piuttosto tragico, che attesta come queste tribù abbiano faticato a mettersi insieme rispettando ciascuna la storia e la cultura dell’altra. Il fatto interessa soprattutto la tribù di Beniamino.

Nello stesso tempo, nei cc. 17-18, si affaccia un problema particolare, quello del culto, del santuario, della liturgia, cioè del tempio e della religione. Questa è una problematica che interessa più da vicino perché in un certo senso è la preparazione alla storia della monarchia, con la quale nasce il tempio. Il tema del re tocca direttamente quello del santuario, che poi diventa il tempio di Gerusalemme.

Tutto questo ci può interessare anche per una lettura neotestamentaria e cristiana. Qualcuno di voi segnalava la tendenza di qualche persona a dire: “Gesù Cristo sì, la Chiesa no!”. Ma che cos’è questa faccenda della Chiesa? Che relazione ha con Gesù Cristo e con Dio? Si potrebbe parlare della mediazione umana che troviamo nella nostra fede per entrare in contatto con Dio. Perché il rapporto con Dio mette in campo tutta una serie di segni umani, di ‘sacramenti’? Il primo racconto del cap. 17, relativo al santuario di Mica, di Dan, è l’inizio del discorso sui sacramenti.

Ma vediamo come la storia viene raccontata. Tutti e due i gruppi dei capitoli, 17-18 da una parte e 19-21 dall’altra, si svolgono intorno alle montagne di Efraim. Queste costituiscono la parte centrale della Palestina occupata, secondo la Bibbia, dalla tribù di Giuseppe che era tra quelle uscite dall’Egitto. Se ricordate, il libro della Genesi si chiude con il testamento di Giuseppe: «Giuseppe fece giurare ai figli d’Israele così: “Dio verrà certo a visitarvi e allora voi porterete via di qui le mie ossa”. E quando gli ebrei lasciano l’Egitto, «Mosè prese con sé le ossa di Giuseppe, perché questi aveva fatto prestare un solenne giuramento agli Israeliti, dicendo: “Dio, certo, verrà a visitarvi; voi allora vi porterete via le mie ossa”» (Es 13,19).

Giuseppe viene sepolto, quindi, in terra d’Israele, proprio al centro della Samaria, a Sichem. Là si trova ancora oggi, in mezzo ad un ambiente completamente palestinese, in una grande sinagoga, una scuola talmudica. È una presenza ebraica in un territorio palestinese. La tribù di Giuseppe, poi, si divide in due piccole tribù, Efraim e Manasse. Il ricordo di questi due gruppi permane ancora: la zona di Efraim si trova tutta in Palestina, mentre una parte di quella di Manasse è nella Transgiordania, come abbiamo visto con la storia di Gedeone.

Leggiamo dunque Gdc 17,1ss: «C’era un uomo delle montagne di Èfraim che si chiamava Mica». ‘Mica’ è lo stesso nome di Michele (Mi-Kha’El), e significa ‘chi è come Dio?’. Quest’uomo ricorda un furto che egli aveva perpetrato ai danni della madre: «Egli disse alla madre: “Quei millecento sicli d’argento che ti erano stati presi e per i quali hai pronunciato una maledizione, e l’hai pronunciata alla mia presenza, ecco, li ho io; quel denaro l’avevo preso io. Ora te lo restituisco”. La madre disse: “Benedetto sia mio figlio dal Signore!”…» Vedete come si passi facilmente dalla maledizione alla benedizione, secondo i costumi ‘barbarici’.

«Quando egli ebbe restituito il denaro alla madre, questa prese duecento sicli e li diede al fonditore, il quale ne fece una statua di metallo fuso, che fu collocata nella casa di Mica. Quest’uomo, Mica, aveva un santuario; fece un efod e i terafìm e diede l’investitura a uno dei figli, che divenne suo sacerdote». Questa è una famiglia religiosa in cui c’è la premura di farsi un piccolo santuario in casa per le preghiere e gli atti di culto. Non c’è ancora un luogo di culto comune, e ognuno se lo fa a casa sua. Mica prepara anche degli abiti particolari, i terafim, che devono essere indossati quando si vuole interpretare la volontà del Signore. Ci si mette addosso dei segni sacri per essere in grado di interpretare gli avvenimenti che si svolgono sempre secondo il volere di Dio. Sono chiaramente gesti che sanno di superstizione, ma in fondo si vuole riconoscere importanza a quello che viene fatto con le proprie mani (idolo, vesti sacre), che viene poi rivestito di valore religioso.

È la forma più elementare della religiosità, che poi ha preso forme più sviluppate. L’arte sacra, in fondo, partecipa di questo: si fa un grande dipinto di argomento sacro e lo si pone sopra l’altare; la statua della Madonna di Lourdes e le icone orientali sono tutte opere prodotte dalle mani dell’uomo che talvolta usiamo come mezzo per entrare in contatto con Dio. Anche l’Eucarestia è pane fatto dalle nostre mani su cui il sacerdote pronuncia delle parole; noi lo poniamo nel tabernacolo o nell’ostensorio e diventa un modo di rapportarsi con Dio, sia mangiandolo, sia guardandolo.

Sono cose fatte dalle mani dell’uomo alle quali si riconosce si riconosce un valore sacro. Questo riguarda la religione, non la fede che è un’altra cosa, è molto più pura! La mediazione di cose fatte dalle mani dell’uomo – dal tempio ai segni sacramentali –, unisce due fatti: un’opera fatta dall’uomo che a un certo punto gli sfugge di mano e diventa un oggetto di culto attraverso il quale si vuole raggiungere il Signore della fede.

Anche nella storia di Mica si evidenzia come la sua religione sia soprattutto un desiderio di discernimento spirituale: sapere cosa è giusto fare, e se le cose andranno bene o male. Così si compiono atti di culto al Signore, gli si offre qualcosa perché poi Lui ricambi con il successo nelle imprese. È l’aspetto più ‘commerciale’ della religione, uno scambio vero e proprio: io ti prego, e tu mi concedi la grazia che ti chiedo.

Ritorniamo al testo. Siamo al v. 7: «Ora c’era un giovane di Betlemme di Giuda, della tribù di Giuda, il quale era un levita». Qui si fa confusione, perché se è un levita, non appartiene alla tribù di Giuda, ma di Levi. Nella redazione non c’è chiaramente la trasposizione della legge del deserto stabilita da Mosè, il quale ha stabilito che la tribù di Levi è quella dedicata al culto, al sacerdozio, mentre le altre vivono normalmente. La tribù di Levi non ha un territorio particolare, per cui i leviti sono accolti e mantenuti da tutte le altre tribù. È quindi impossibile che un levita appartenga alla tribù di Giuda ma, in un certo senso, questo è anche una denuncia di ciò che avverrà.

Ecco perché queste storie sono anche una preparazione al tempo dei re. Quando il regno si divide in due, quello del nord e quello del sud, Geroboamo – re del nord che provoca la scissione – fa costruire un tempio per conto suo a Dan e crea un sacerdozio che non è quello derivante da Aronne. In un certo senso farà quello che sta facendo ora Mica a casa sua, proporzionandolo però alle dimensioni del regno. E questo verrà ricordato, nel catalogo dei re del nord, come il peccato di Geroboamo: aver reso religioso quello che doveva essere solo uno scisma politico. Il Signore approverà la decisione di Geroboamo di separarsi dai discendenti di Davide perché riconosce la difficoltà dei rapporti tra i due gruppi; ma quando la separazione definitiva diventa un fatto religioso, si tramuta in un peccato, appunto quello di Geroboamo.

Riprendiamo la lettura: «Mica gli domandò: “Da dove vieni?”. Gli rispose: “Sono un levita di Betlemme di Giuda e vado a cercare una dimora dove la troverò”. Mica gli disse: “Rimani con me e sii per me padre e sacerdote; ti darò dieci sicli d’argento all’anno, vestiario e vitto”. Il levita entrò. Il levita dunque acconsentì a stare con quell’uomo, che trattò il giovane come un figlio. Mica diede l’investitura al levita; il giovane divenne suo sacerdote e si stabilì in casa di lui. Mica disse: “Ora so che il Signore mi farà del bene, perché questo levita è divenuto mio sacerdote”».

È evidente lo stato ‘barbaro’ della religiosità, dove gli uomini fanno tutto quello che vogliono. Mosè nel deserto aveva ordinato la vita cultuale d’Israele dando tutta l’autorità sacerdotale al fratello Aronne e creando il ‘sacerdozio aronnico’, che però viene dalla parola di Dio, dall’alleanza al Sinai, da quello che Mosè ha contemplato sul monte e deve realizzare nel popolo. Qui invece, sulla montagna di Efraim abbiamo una cosa più ‘casereccia’, secondo il desiderio religioso di essere in buone relazioni con Dio. Che cos’è il culto? Che cos’è la dimensione religiosa? È il riconoscimento che c’è un Altro da cui dipendiamo.

Se vogliamo, la religione è un fatto umano e consiste nel riconoscere che se noi siamo al mondo non lo abbiamo deciso noi, e quindi c’è Qualcuno che ha una volontà di creazione e mette in atto la sua provvidenza. Oggi, nel mondo moderno, questa religiosità è andata in crisi e abbiamo il fenomeno che chiamiamo ‘ateismo’, cioè la convinzione che non ci sia nessuno al di fuori di noi. Ma noi sappiamo bene che non è vero e che, come afferma giustamente Von Balthasar, non c’è l’ateismo, ma l’idolatria; non ci sono i religiosi e gli atei, ma i religiosi e gli idolatri. L’ateo infatti adora comunque qualcosa al di fuori di sé: saranno i suoi ideali, il suo partito politico, i suoi beni… Chi non ha il concetto di Dio se lo fa a casa sua, perché c’è bisogno di avere il nome di qualcuno, un capo.

Queste sono forme di religiosità laica, cioè sono il desiderio di farsi adorare da qualcuno, e noi andiamo alla ricerca di chi adorare. Al posto di Dio poniamo qualcuno a cui diamo davvero un potere superiore, ed è l’idolatria. È una tendenza che va verificata e controllata, e che quindi richiede discernimento. L’idolatria a basso costo la troviamo dovunque, soprattutto dove non c’è Dio ma tanti piccoli dèi: il denaro, l’ideologia, il successo, il potere, il piacere a buon mercato, il dominio sugli altri, il controllo dell’opinione pubblica attraverso i mezzi di comunicazione. Non facciamo mai il processo a questi idoli, e la colpa è nostra perché ci abbiamo creduto.

Siamo giunti al cap. 18, in cui si presenta la tribù di Dan. Secondo il libro di Giosuè, questa tribù ha ricevuto da Mosè il territorio della costa mediterranea a sud di Tel-Aviv, ma quando i Daniti sono arrivati per occupare questa regione, essa era già abitata dai Cananei, sostituiti poi dai Filistei, sbarcati dalla Grecia. I Daniti, quindi, si trovano spiazzati perché non hanno un loro territorio.

Al tempo della storia di Sansone la maggior parte della tribù è probabilmente già andata più a nord per trovarsi una terra, ma alcuni erano rimasti, e tra questi la famiglia di Sansone. Costui vive sotto l’oppressione che Filistei attuano nei confronti degli Israeliti.

I Daniti che erano migrati cercavano dunque dei luoghi da occupare, e tale occupazione della terra promessa riproduce in qualche modo la storia precedente, con l’occupazione della terra promessa da parte del popolo che vive nel deserto.

Ricordiamo che ad un certo punto Mosè aveva scelto degli esploratori e «li mandò a esplorare la terra di Canaan (Nm 13,17ss). (…) Il quadro, come dicevo, si ripete nel libro dei Giudici: «La tribù dei Daniti cercava un territorio per stabilirvisi, perché fino a quei giorni non le era toccata nessuna eredità fra le tribù d’Israele. I figli di Dan mandarono dunque da Sorea e da Estaòl cinque uomini della loro tribù, uomini di valore, per visitare ed esplorare il territorio; dissero loro: “Andate ad esplorare il territorio!”. Quelli giunsero sulle montagne di Èfraim fino alla casa di Mica e passarono la notte in quel luogo. Mentre erano presso la casa di Mica, riconobbero la voce del giovane levita; avvicinatisi, gli chiesero: “Chi ti ha condotto qua? Che cosa fai in questo luogo? Che hai tu qui?”. Rispose loro: “Mica mi ha fatto così e così, mi dà un salario e io sono divenuto suo sacerdote”. Gli dissero: “Consulta Dio, perché possiamo sapere se il viaggio che abbiamo intrapreso avrà buon esito”. Il sacerdote rispose loro: “Andate in pace, il viaggio che fate è sotto lo sguardo del Signore”. I cinque uomini continuarono il viaggio» (Gdc 18,1-7a).

I cinque uomini, dunque, continuano il loro viaggio verso nord e arrivano al monte Hermon a oriente e al confine con il Libano a occidente, dove c’è una situazione naturale fatta di rocce e molto disagiata. Ma quando giungono all’estremo nord della Palestina si trovano in un paesaggio meraviglioso, arricchito dall’acqua che viene dalle cinque sorgenti del Giordano che scendono verso il lago di Galilea. Vi abbondano i frutti e gli animali. C’è anche il lago di Hule che poi gli israeliani hanno in parte bonificato; è una zona molto interessante perché è uno dei luoghi della terra in cui si concentrano le migrazioni degli uccelli. Per questo motivo gli israeliani, quando l’hanno bonificato, ne hanno lasciato una parte come parco da visitare. È una delle cose più belle del nord della Palestina la presenza di tutte queste specie di animali rari che sostano lì, in un clima che risente dell’Asia, dell’Africa e dell’Europa. Ci sono anche frutti che sono stati celebrati nelle letterature antiche: sono originari di terre diverse e crescono nello stesso terreno. È davvero un luogo di benedizione.

Quegli esploratori, dunque, «arrivarono a Lais e videro che il popolo, che vi abitava, viveva in sicurezza, secondo i costumi di quelli di Sidone, tranquillo e fiducioso [erano dunque fenici]; non c’era nella regione chi, usurpando il potere, facesse qualcosa di offensivo; erano lontani da quelli di Sidone e non avevano relazione con nessuno. Poi tornarono dai loro fratelli a Sorea e a Estaòl, e i fratelli chiesero loro: “Che notizie portate?”. Quelli risposero: “Alziamoci e andiamo contro quella gente, poiché abbiamo visto il territorio ed è ottimo. E voi rimanete inattivi? Non indugiate a partire per andare a prendere in possesso il territorio. Quando arriverete là, troverete un popolo che non sospetta di nulla. La terra è vasta e Dio ve l’ha consegnata nelle mani; è un luogo dove non manca nulla di ciò che è sulla terra”» (Gdc 18,7b-10).

Ecco allora l’aggressione: «Seicento uomini della tribù dei Daniti partirono da Sorea e da Estaòl, ben armati. Andarono e si accamparono a Kiriat-Iearìm, in Giuda; perciò il luogo, che è a occidente di Kiriat-Iearìm, fu chiamato e si chiama fino ad oggi Accampamento di Dan. Di là passarono sulle montagne di Èfraim e giunsero alla casa di Mica» (18,11.13).

Qui giunti, prendono il sacerdote e lo portano via con loro: «“Vieni con noi e sarai per noi padre e sacerdote. Che cosa è meglio per te: essere sacerdote della casa di un uomo solo oppure essere sacerdote di una tribù e di una famiglia in Israele?”. Il sacerdote gioì in cuor suo; prese l’efod, i terafìm e la statua e si unì a quella gente. Allora si rimisero in cammino, mettendo innanzi a loro i bambini, il bestiame e le masserizie. Essi erano già lontani dalla casa di Mica, quando i suoi vicini si misero in armi e raggiunsero i Daniti. Allora gridarono ai Daniti. Questi si voltarono e dissero a Mica: “Perché ti sei messo in armi?”. Egli rispose: “Avete portato via gli dèi che mi ero fatto e il sacerdote, e ve ne siete andati. Ora che cosa mi resta? Come potete dunque dirmi: Che cos’hai?”. I Daniti gli dissero: “Non si senta la tua voce dietro a noi, perché uomini irritati potrebbero scagliarsi su di voi e tu ci perderesti la vita e la vita di quelli della tua casa!”. I Daniti continuarono il viaggio; Mica, vedendo che erano più forti di lui, si voltò indietro e tornò a casa» (18,19ss).

Abbiamo il primo caso di aggressione da parte di un’intera tribù d’Israele nei confronti di una famiglia, che viene spogliata della sua religiosità. Questo è l’aspetto peggiore del culto fatto da mani di uomini; il culto diventa cioè uno strumento di potere umano e diventa addirittura un modo con cui vorremmo far approvare da Dio le violenze che compiamo, le empietà di cui siamo responsabili. Sulle cinture delle SS tedesche c’era scritto: Dio con noi. Non si chiedevano se loro stavano con Dio, e questo è un altro discorso! La religiosità più empia è proprio quella di volersi appropriare di Dio, farne un Dio che dà sempre ragione.

Questa azione di violenza da parte dei Daniti sulla famiglia di Mica diventa un delitto ancora più grave quando «giunsero a Lais, a un popolo che se ne stava tranquillo e fiducioso; lo passarono a fil di spada e diedero la città alle fiamme. Nessuno le prestò aiuto, perché era lontana da Sidone e i suoi abitanti non avevano relazioni con altra gente. Poi i Daniti ricostruirono la città e l’abitarono. La chiamarono Dan dal nome di Dan, loro padre, che era nato da Israele; ma prima la città si chiamava Lais. E i Daniti eressero per loro uso la statua; Giònata, figlio di Ghersom, figlio di Mosè, e i suoi figli furono sacerdoti della tribù dei Daniti».

Sono sacerdoti, ma non nella linea di Aronne, secondo il racconto di esodo. E si stabilirono lì «finché gli abitanti della regione furono deportati», il che informa che i Daniti rimangono in questa regione fino all’VIII secolo a.C., quando gli Assiri scendono per aiutare il Regno del Sud, chiamati dal re Acaz (come già abbiamo visto) e deportano la popolazione della Galilea del nord. La tribù di Dan sparisce in questo modo, e lì il re Geroboamo costruirà un tempio al Dio d’Israele per il Regno del nord. I sacerdoti non saranno aronnici, non saranno legali secondo l’istituzione mosaica.

Gli scavi archeologici attestano che la città di Dan si è abbastanza conservata, e soprattutto si può ancora vedere il grande altare del tempio fatto erigere da Geroboamo nel nord del paese. Rimane ancora oggi una delle zone più belle della Palestina ed è una delle riserve d’acqua per Israele. Purtroppo i pellegrinaggi cristiani non l’hanno come meta perché è troppo lontana, per cui non ci sono neppure chiese per celebrare l’Eucarestia. È bella e importante, sia dal punto di vista naturale che storico per tutto quello che ricorda.

Ma quella tribù era costituita di ladroni che, privati della loro terra, volevano privare gli altri di quella che occupavano, rivestendo le loro azioni di un carattere religioso per giustificare quello che facevano. È un’occasione per meditare seriamente sull’uso della religione per il potere umano. (…)

Gruppi di lettura continua della Bibbia in Bergamo
Settimana Biblica 2012 Bergamo 24 – 29 settembre 2012 Il libro dei Giudici
Relatore: p.j. Francesco Rossi de Gasperis
Il testo non è stato rivisto dal relato
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