Lunedì – Giovedì della XX settimana del Tempo Ordinario (Anno dispari)

Anche se il paragone può sembra un po’ strano, credo che si debba leggere il libro dei Giudici come il libro dei “Fioretti” di S. Francesco, cioè come delle antiche storie raccontate più volte. Qui si parla delle tribù, soprattutto di quelle del nord, e nella composizione della letteratura deuteronomista (Giosuè, i libri dei re…), nel tempo successivo all’esilio, gli autori scrivono di un esito negativo dell’esperienza monarchica come l’avevano voluta gli anziani d’Israele. Mettono insieme dei ricordi – anche molto antichi – delle vicende del Regno del Nord e di quello del Sud, in un tono piuttosto pessimista, come può essere appunto quello di un fallimento. Gli Israeliti avevano voluto un re come gli altri popoli, avere delle istituzioni permanenti, e adesso si ritrovavano ad essere una provincia dell’impero babilonese o persiano.

Di questa storia finita male si raccontano tanti fatterelli, tra i quali la preparazione della monarchia. Troviamo perciò insieme dei testi monarchici e antimonarchici, sicché si pensa ad una diversità di autori. Non credo che si debba moltiplicare tanto il numero degli autori, quanto la ricchezza di un’esperienza in cui c’è qualcosa andato bene e qualcosa andato male. Nell’ultima parte del libro dei Giudici si ripete un ritornello, a partire dal cap. 17,6 fino all’ultima riga del libro: «In quel tempo non c’era un re in Israele; ognuno faceva come gli sembrava bene», cioè faceva quello che voleva. L’autore di queste righe vuol sottolineare come quel tempo fosse caratterizzato dall’anarchia, al contrario del tempo della monarchia, mentre ci sono passi che insinuano che tutto andava meglio quando la monarchia non c’era. Si parla quindi di una duplice esperienza dalla quale si comprende come le cose andassero bene o male per tutte e due le parti.

Per questo motivo dicevo che Giudici è il libro del passato e il libro del futuro. Si poteva pensare che quando non c’era il re le cose andavano meglio. Questa è infatti la situazione nel postesilio, quando il ritorno dalla deportazione non significa che ritorna anche la monarchia. È piuttosto l’avvento di un’altra stagione per il popolo di Dio. Qui siamo in un tempo di anarchia spirituale.

La Chiesa è una società anarchica perché è condotta dallo Spirito Santo, che è inafferrabile, non è un’istituzione umana. Potremmo dire che lo Spirito Santo è ‘disordinato’ perché il Signore non va per gradi o per gerarchie, per cui può suscitare un movimento spirituale nel più piccolo di una società. Questo è vero sempre, anche oggi. Vediamo, ad esempio, quella che noi chiamiamo ‘crisi delle vocazioni’; dobbiamo riconoscere che le vocazioni, almeno nel senso tradizionale, cioè quelle relative alla vita religiosa, diminuiscono.

Ma chi è all’origine delle vocazioni? Nessuna Conferenza Episcopale può riunirsi e stabilire il numero di vocazioni da mettere a disposizione delle parrocchie, degli istituti religiosi maschili e femminili, delle terre di missione. Non c’è più la tribù sacerdotale di Levi, per cui basta essere figli di quella tribù per essere automaticamente sacerdoti… Siamo esposti allo Spirito! S. Tommaso dice che lo Spirito del Signore non farà mai mancare le vocazioni alla sua Chiesa, soprattutto se si allontaneranno quelli che non sono degni e si tratterranno quelli che lo sono. Nessun programma pastorale può dire che le cose andranno in un certo modo, perché tutto dipende dalle persone e dai numeri. Questo rimarrà vero sempre, perché sempre il Signore governa la sua Chiesa attraverso il suo Spirito.

L’effetto di questo dominio dello Spirito è una certa anarchia nella Chiesa. Ad esempio, nella Chiesa c’è la dimensione sacramentale e quella carismatica. Se volete imparare a pregare, dovete andare da qualcuno che sappia pregare e lo insegni a voi; non basta andare dal parroco, perché bisogna verificare se lui sa pregare. Se invece uno ha bisogno della celebrazione dell’Eucarestia, allora deve certamente andare dal sacerdote ordinato.

Ci sono quindi competenze e preparazioni diverse. Non è detto che il vescovo sia sempre un maestro di preghiera, anche se la cosa sarebbe desiderabile. Il vescovo deve essere soprattutto un padre spirituale, ma di fatto, se andiamo a guardare la preparazione di molti vescovi, sono quelli che hanno studiato il diritto canonico, non spiritualità; sono piuttosto degli amministratori spirituali.

Nella Chiesa ci sono diversi compiti e non si può tirare la somma in modo infallibile. Siamo esposti allo Spirito perciò, sotto questa prospettiva, la Chiesa è un’assemblea carismatica. Non credo che sia un progresso, quello di parlare di ‘movimento carismatico’ o ‘non carismatico’, perché tutti, nella Chiesa, siamo carismatici e tutti dobbiamo ricorrere allo Spirito. Certo, il movimento carismatico vuole ricordare questa situazione, ma nello stesso tempo siamo tutti istituzionalizzati. Non mi piace parlare di Chiesa ‘carismatica’ e Chiesa ‘gerarchica’, perché tutta la Chiesa è insieme carismatica e gerarchica. La gerarchia indica che siamo un popolo ‘ordinato’: tutti siamo ‘ordinati’ nel battesimo. La distinzione tra laici e clero è una dimensione canonica, non teologica! Tutti i religiosi, o sono clero o sono laici. Le suore, ad esempio, sono tutte laiche; la categoria dei ‘religiosi’ non è un ordine teologico: siamo tutti religiosi perché siamo battezzati.

Credo che la Chiesa trarrebbe un grosso vantaggio dal far circolare queste nozioni teologiche, piuttosto che quelle canoniche. Che cosa significa che tu sei religioso? Hai fatto tre voti, ma come li vivi? Un benedettino ha fatto tre voti, il domenicano ha fatto tre voti, il gesuita ha fatto tre voti, il francescano ha fatto tre voti, ma ciascuno vive la povertà, la castità e l’obbedienza nel proprio modo, secondo la propria vocazione, il proprio carisma. Perciò quella che sembra un’istituzione è in realtà soggetta di nuovo allo Spirito. Facciamo una concelebrazione intorno all’altare con dieci ordinati sacerdoti, ma ciascuno di loro vive il sacerdozio secondo la propria vocazione. Ci può essere un missionario come ci può essere un contemplativo; ci può essere un certosino che non parla mai e un predicatore che parla troppo.

È lo Spirito che domina, e noi dobbiamo tenerlo ben presente. La vita secondo lo Spirito detta un modo ordinato di vivere, che richiama in qualche modo l’istituzione, stabile nel tempo anche se adeguata alla cultura. Noi siamo abbracciati dallo Spirito e siamo anche esposti, perché sappiamo che lo Spirito del Signore guiderà la Chiesa anche nel futuro; e vediamo che nascono anche tante cose e talvolta inaspettate. Oggi, ad esempio, non si capiscono più alcuni tipi di clausure in cui tutti gli uomini sono da una parte e tutte le donne dall’altra. Siamo fatti per vivere insieme, e questo comporta dei problemi e dei vantaggi. Abbiamo poi delle coppie che vogliono vivere da monaci senza esserlo. È un fatto nuovo, voluto dallo Spirito.

Ho fatto questa riflessione per dire che questi libri ci aiutano a vedere lo Spirito come un fuoco d’artificio che produce tante forme di vita, tanti modi di corrispondere alla grazia di Dio.

Siamo al cap. 11.

Nel libro dei Giudici incontriamo adesso un’altra figura, quella di IEFTE. Siamo di nuovo in una situazione di peccato: «Continuarono a fare ciò che è male agli occhi del Signore e servirono i Baal, le Astarti, gli dèi di Aram, gli dèi di Sidone, gli dèi di Moab, gli dèi degli Ammoniti e quelli dei Filistei; abbandonarono il Signore e non lo servirono più» (Gdc 10,6). Forse si può fare un parallelo con il nostro tempo, in cui ci sono tante persone che se parliamo del Signore ci guardano come se raccontassimo delle favole. Forse il Signore manderà un giudice anche per noi; forse lo sta mandando o forse l’ha già mandato. Bisogna che lo aspettiamo con le orecchie aperte e gli occhi attenti, pronti ad una salvezza che forse si presenta in un modo che non ci aspettiamo.

È a questo punto della storia dei giudici che arriva la figura di Iefte, figlio di Gàlaad (che prende questo nome dalla regione in cui vive) e di una prostituta. Avevamo già incontrato il figlio di una concubina, Abimèlec; qui conosciamo quello di una prostituta. «La moglie di Gàlaad gli partorì dei figli, i figli di questa donna crebbero e cacciarono Iefte e dissero: “Tu non avrai eredità nella casa di nostro padre, perché sei figlio di un’altra donna”» (Gdc 11,2ss). Quindi quest’uomo, che poi diventa giudice d’Israele, è disprezzabile e viene messo al margine dalla sua famiglia, sicché «fuggì lontano dai suoi fratelli e si stabilì nella terra di Tob. Attorno ad Iefte si raccolsero alcuni sfaccendati e facevano scorrerie con lui».

Ad un certo punto arrivano gli ammoniti e diventano un pericolo per gli israeliti, i quali si recano da Iefte perché, conoscendo la sua abilità nel combattere, desiderano che vada con loro per difenderli da quei nemici. «Iefte rispose agli anziani di Gàlaad: “Non siete forse voi quelli che mi avete odiato e scacciato dalla casa di mio padre? Perché venite da me ora che siete nell’angoscia?”. Gli anziani di Gàlaad dissero a Iefte: “Proprio per questo ora ci rivolgiamo a te: verrai con noi, combatterai contro gli Ammoniti e sarai il capo di noi tutti abitanti di Gàlaad”. Iefte rispose agli anziani di Gàlaad: “Se mi fate ritornare per combattere contro gli Ammoniti e il Signore li mette in mio potere, io sarò vostro capo”».

Come vediamo, non si parla ancora di ‘re’, ma comincia ad emergere lentamente l’idea di un’organizzazione in cui mettere qualcuno a capo. È, come dicevamo, un pensiero che non piace al Signore; il sottomettersi ad un uomo o a una donna che ha più potere di noi e dispone di noi, è sempre una forma di idolatria. Bisogna guardarsi dai personaggi carismatici che vogliono avere il potere o a cui lo si dà. Possono anche essere dei santi uomini e delle sante donne, ma dare loro il potere in mano non è un fatto spirituale.

Forse dipende dal fatto che sono un gesuita, ma S. Ignazio non avrebbe mai parlato di ‘padre spirituale’. Non ci può essere un ‘padre spirituale’, ma forse ci può essere un ‘aiuto’ spirituale quando si chiede un consiglio. Non ci sono i ‘santoni’, ma ognuno è il soggetto della propria esistenza e della propria condotta. Non c’è neppure la ‘guida spirituale’, perché l’unica guida legittimata è lo Spirito Santo. Ognuno di noi ospita in sé lo Spirito del Signore, e se noi andiamo a metterci sotto la guida di un altro essere umano, rendiamo inutile la sua presenza. Piuttosto rendiamoci capaci di percepire lo Spirito Santo che è stato dato a ciascuno. Siamo un popolo di donne e di uomini liberi, non siamo schiavi, sudditi o sottomessi, proprio perché siamo figli di Dio.

Anche Iefte tende a farsi riconoscere il potere: «Iefte rispose agli anziani di Gàlaad: “Se mi fate ritornare per combattere contro gli Ammoniti e il Signore li mette in mio potere, io sarò vostro capo”». È un uomo furbo e intelligente, e con gli ammoniti intavola un dialogo.

In questo cap. 11 abbiamo il riassunto di quasi tutta la storia precedente, relativa al tempo dell’uscita dall’Egitto e della conquista. Iefte ricorda che Israele è passato in mezzo a tante tribù, chiedendo il permesso di transito, ma non per assoggettarle, bensì per raggiungere la terra promessa, e ricorda anche le relazioni con Moab, con Ammon, con le tribù della Transgiordania. Conclude poi il suo discorso: «“Io non ti ho fatto torto, e tu agisci male verso di me, muovendomi guerra; il Signore, che è giudice, giudichi oggi tra gli Israeliti e gli Ammoniti!”. Ma il re degli Ammoniti non ascoltò le parole che Iefte gli aveva mandato a dire» (vv. 27-28).

Scoppia così la guerra e Iefte fa un voto al Signore: «Se tu consegni nelle mie mani gli Ammoniti, chiunque uscirà per primo dalle porte di casa mia per venirmi incontro, quando tornerò vittorioso dagli Ammoniti, sarà per il Signore e io lo offrirò in olocausto» (v. 31). È un voto veramente folle! «Quindi Iefte raggiunse gli Ammoniti per combatterli e il Signore li consegnò nelle sue mani. Così gli Ammoniti furono umiliati davanti agli Israeliti. Poi Iefte tornò a Mispa, a casa sua; ed ecco uscirgli incontro la figlia, con tamburelli e danze. Era l’unica figlia: non aveva altri figli né altre figlie. Appena la vide, si stracciò le vesti e disse: “Figlia mia, tu mi hai rovinato! Anche tu sei con quelli che mi hanno reso infelice! Io ho dato la mia parola al Signore e non posso ritirarmi”. Ella gli disse: “Padre mio, se hai dato la tua parola al Signore, fa’ di me secondo quanto è uscito dalla tua bocca, perché il Signore ti ha concesso vendetta sugli Ammoniti, tuoi nemici”. Poi disse al padre: “Mi sia concesso questo: lasciami libera per due mesi, perché io vada errando per i monti a piangere la mia verginità con le mie compagne”.

L’addolora il fatto di morire senza lasciare una discendenza. Nell’Antico Testamento la verginità era una specie di maledizione; morire vergine significava morire senza aver portato frutto, senza aver avuto figli. Questa idea si trova anche nel Magnificat di Maria: «Ha guardato l’umiltà della sua serva», cioè di una donna maledetta perché vergine. Sono categorie di cui bisogna essere consapevoli.

«Ella non aveva conosciuto uomo; di qui venne in Israele questa usanza: le fanciulle d’Israele vanno a piangere la figlia di Iefte il Galaadita, per quattro giorni ogni anno» (vv. 32-40). È una festa per questa fanciulla che tranquillamente acconsente che il padre realizzi quello che ha promesso al Signore, chiedendogli soltanto un breve tempo per prepararsi alla morte.

La Bibbia ci racconta questo fatto senza biasimare minimamente Iefte. C’è soltanto un altro caso simile, ed è il sacrificio di Isacco da parte di Abramo, però qui all’ultimo momento arriva l’angelo, che salva il figlio fermando la mano di Abramo e mostrando un ariete da sacrificare al suo posto. Nel caso di Iefte non c’è nessun animale, forse perché la vittima sacrificale era una donna… I profeti d’Israele sono molto severi sui sacrifici umani, su coloro che uccidono i figli.

Qui siamo di fronte al caso di un voto fatto in buona fede, ma comunque con molta leggerezza e con molta ingenuità, perché aperto alle casualità più impensate. Eppure viene preso sul serio, e la stessa giovane donna incoraggia il padre a mantenere la promessa fatta al Signore. È una storia molto pura, che ricorda l’annunciazione a Maria («avvenga per me e secondo la tua parola»); in questa ragazza, in qualche modo, si preannuncia la fedeltà di Maria, il suo mettersi a disposizione della parola del Signore. Qui è la parola del padre Iefte, però permane un senso religioso: un impegno preso con Dio deve essere assunto fino in fondo.

È un po’ la sfida rivolta a tutti noi. Pensiamo a tutti gli impegni matrimoniali che si prendono e si disdicono. Dove sta più questo senso dell’onore e della fedeltà alla parola data? Perché si rompe il patto stretto davanti al Signore? Qualunque cosa avvenga, bisogna innanzitutto tenere fede al patto! Per questo si dubita che molti matrimoni siano validi, cioè che siano veri matrimoni. Chi oggi si sposa deciso a rimanere fedele per sempre e a qualunque condizione all’altro? Ma sposarsi nel Signore vuol dire che ciascuno dei due si fa strumento dell’amore che Dio ha per l’altro. Io ti sarò fedele sempre, proprio perché il mio amore non è soltanto il mio, ma anche quello di Dio che è unificato al mio. Così anche prendo l’amore che il Signore ha per te e lo faccio mio. Perciò una volta che io mi sono sposato con te, non posso più disporre della mia fedeltà, che ormai è data a te, qualunque cosa accada. Ma chi si sposa con questa consapevolezza? E che cosa sono le preparazioni al matrimonio che vengono fatte nelle nostre parrocchie? Su che cosa vengono impostati gli incontri? Sulla biologia o sul diritto civile o altro ancora.

Ho la convinzione che molti matrimoni di fatto non sono veri matrimoni, e che quindi molti divorzi non siano necessari, perché sono divorzi già in partenza. E temo che oggi, nella nostra cultura, molta gente che si sposa parte mettendo già in conto la possibilità della separazione. Non è un ‘compromettersi’ per sempre.

Si sceglie spesso il matrimonio civile, che è il matrimonio umano, privo del sacramento, cioè della volontà di mettere la vita nelle mani della fedeltà di Dio per l’altro. Il matrimonio civile è una realtà in se stessa, è la realtà umana di un uomo e di una donna, e certamente c’è la fedeltà alla parola di creazione. Non è come fare una gita insieme, ma progettare una vita insieme, e per verificare quanto questo impegni per tutta la vita in modo serio, bisogna valutare tutte le varie legislazioni umane. Sappiamo tuttavia che nella storia dell’umanità c’è questa istituzione matrimoniale per cui si forma una famiglia e ci si impegna in essa almeno per il tempo che viene richiesto per seguirla.

Mi pare che i pastori della Chiesa dovrebbero sottolineare la parola di Gesù che dice: “Mosè vi ha permesso di divorziare per la durezza del vostro cuore”. Io credo che oggi siamo in questa situazione: i nostri cuori non sono pronti ad assumere quell’impegno che il matrimonio-sacramento significa. Perciò, se avessi autorità di farlo, io consiglierei di celebrare matrimoni-sacramenti soltanto nel caso che ci sia questa consapevolezza. Sarebbe meglio sposarsi civilmente, o almeno cominciare così, in modo che non venga data quella indissolubilità che deriva dall’unicità dell’amore di Dio nei nostri confronti. Nessuno può rompere l’amore che Dio ha per me, per cui se qualcuno si fa segno di questo amore che Dio ha per me, si compromette in modo definitivo. E noi non siamo pronti per questo. La civilizzazione a cui apparteniamo ci ha spogliati della capacità di donarci per sempre.

Vediamo dei preti che lasciano il sacerdozio, dei religiosi e delle religiose che lasciano i loro voti, vediamo le famiglie che si spaccano. È un fatto culturale, e in questo momento non siamo pronti per essere diversi. (…) Succede addirittura che qualcuno lasci presso un notaio uno scritto in cui dichiara di non aver intenzione di restare accanto al marito/moglie se le cose non vanno bene, per avvalersi di questa dichiarazione al momento opportuno. Ebbene, quand’anche filasse tutto liscio, quel matrimonio non è valido. (…)

Il problema dell’uomo e della donna insieme è davvero il problema fondamentale dell’umanità, perché se ne va di mezzo il fatto che la creatura umana è a immagine e somiglianza di Dio, ne va di mezzo la confessione dell’unità di Dio. Dio è uno, e bisogna che il nostro essere ‘due’ diventi capace di farsi ‘uno’. E non solo a livello di coppia, di uomo e donna, ma anche a livello di tutta l’umanità. È necessario che non ci rassegniamo al non poter vivere insieme e ci si rimetta costantemente al lavoro per realizzare un compito che non è finito una volta per sempre. Tutta la vita umana è un compito da realizzare; non siamo uomini e donne, ma dobbiamo diventarlo! E questo non si fa da un giorno all’altro. (…)

Alla fine il problema è proprio questo: la fede in Gesù Cristo. Se la sua parola è unica e assoluta, allora io mi gioco la vita non tanto con l’altro coniuge, ma con Gesù stesso. E applicherei questo pensiero anche alla vita religiosa, alla condizione del presbitero, anche se in questo caso si tratta soltanto di una disciplina ecclesiastica. Non c’è nessuna ragione per cui un presbitero debba essere celibe, e sappiamo bene che ci sono dei preti cattolici sposati. Il celibato sacerdotale è un fatto ecclesiastico, molto meno impegnativo del matrimonio-sacramento.

Invece i voti religiosi monastici sono un problema serio. Una professione monastica vera, è un impegno ‘per sempre’. È un impegno che segna un uomo o una donna, perché si è donato/a per sempre al Signore e non può ritrattare il patto. La Chiesa può permetterlo a livello di ‘circolazione urbana’, ma non può sciogliere un voto monastico, concluso tra la persona e il Signore: io mi do a Te per sempre. E se questo è valido, cioè se io sono veramente in condizione di possedere il senso della ragione e della responsabilità di ciò che sto facendo, nessuno può poi intervenire di liberarmi dal voto. (…)

Ricordiamoci sempre che Dio ci accompagna sempre. Appoggiamoci alla sua Parola per diventare quello che ancora non siamo capaci di essere. Non dobbiamo avere paura di sentirci in crescita; in certe parti della nostra vita umana siamo ancora dei neonati, e non c’è nessuno che sia pienamente maturo. Ci sono dei periodi storici – che possono essere anche molto lunghi – con profonde zone d’ombra. Vediamo bene quanto tempo ci abbiamo messo per dire di non fare le crociate, per riconoscere che quella di Lepanto non è poi stata una vera vittoria, una vittoria permanente. Ci sono delle cose che hanno un valore temporaneo e che dobbiamo lasciar passare, per mantenerci sempre in cammino, pronti a crescere secondo la parola di Dio.

Gruppi di lettura continua della Bibbia in Bergamo
Settimana Biblica 2012 Bergamo 24 – 29 settembre 2012 Il libro dei Giudici
Relatore: p.j. Francesco Rossi de Gasperis
Il testo non è stato rivisto dal relatore