Lunedì – Giovedì della XX settimana del Tempo Ordinario (Anno dispari)
libro dei giudici2

Iniziamo la lettura del libro dei Giudici, ponendo una certa attenzione sia ai contenuti, sia al modo in cui vengono presentati, per capire lo spirito del libro e come deve essere letto.

Vi dicevo che si tratta di un testo molto denso e complesso perché – come sempre nella Bibbia – la base è una storia, e con la storia cammina sempre anche la geografia. Dobbiamo tenere presente che le vicende che leggeremo riguardano le tribù delle zone settentrionali, non quindi quelle uscite dall’Egitto, stanziate soprattutto nel sud, nel territorio di Giuda, né quelle del centro. Le tribù del nord sono popolazioni che probabilmente sono sempre rimaste nella Palestina e che, attraverso vicende molto complicate e laboriose, piano piano hanno costituito una federazione con le tribù del sud, venute dall’Egitto (la federazione delle dodici tribù), e hanno formato il popolo d’Israele, che poi si è diviso in due regni, quello del nord e quello del sud. Le tribù del nord avevano molti contatti con le popolazioni che abitavano in quei territori settentrionali.

All’inizio abbiamo due capitoli e mezzo, fino a Gdc 3,6, che costituiscono un’introduzione che ci descrive quello che ieri ricordavamo schematicamente, cioè la conquista continua della terra, dopo la morte di Giosuè. Però alla metà del primo capitolo c’è un elenco impressionante di tutte le tribù d’Israele, che non riescono a conquistare il loro territorio.

Come certamente ricordate, nel libro di Giosuè avviene la spartizione del territorio tra le varie tribù, mentre in Giudici c’è una correzione di questo evento: «Manasse non scacciò gli abitanti di Bet-Sean…Nemmeno Èfraim scacciò i Cananei che abitavano a Ghezer…Zàbulon non scacciò gli abitanti di Kitron né gli abitanti di Naalòl… Aser non scacciò gli abitanti di Acco né gli abitanti di Sidone né quelli di Aclab, di Aczib, di Chelba, di Afik, di Recob… Nèftali non scacciò gli abitanti di Bet-Semes. Gli Amorrei respinsero i figli di Dan sulla montagna e non li lasciarono scendere nella pianura» (Gdc 1,27ss). Quindi nessuna tribù riuscì a conquistare tutto il territorio che le era stato attribuito. In questo, alcuni vedono il progetto divino di lasciare accanto ad Israele qualche popolo diverso perché gli israeliti imparassero a convivere con gli altri.

È quindi un altro modo di presentare la conquista della terra, un modo più lento, laborioso e faticoso, per cui non c’è la cacciata degli altri per mettersi al loro posto. Anche dal punto di vista politico attuale lo Stato d’Israele dovrebbe tenere presente che non c’è mai stata una conquista totale e esclusiva degli Israeliti e dei Giudei. Insieme ci sono sempre stati anche gli altri. Anzi, per combattere ogni idea di totalitarismo – che il Signore corregge nel suo popolo –, sarebbe opportuno ricordare che i generali più fedeli al re Davide (come ad esempio Uria, a cui egli toglie la moglie) non erano israeliti, ma appartenevano ad altri popoli con cui Israele aveva trovato il modo di convivere pacificamente.

Inutile quindi erigere dei muri di esclusione, perché questo non è il modo del Signore di condurre i popoli della terra. Vale per tutti, anche per noi. Non possiamo dire: “La terra è nostra, e gli altri vadano via!”. No, la terra è del Signore, noi non ne siamo i proprietari, come afferma il libro del Levitico: «La terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti» (Lv 25,23). Questo è il vocabolario del deserto, che rimane sempre come la grammatica del nostro vivere sulla terra.

In Giudici, dicevo, troviamo la costante del ricadere di Israele nel male compiuto agli occhi del Signore contaminandosi con i culti idolatrici delle altre popolazioni, per cui la convivenza diventa una sfida. Quando il popolo di Dio cade nella tentazione, viene duramente assoggettato a quelle. Da qui nasce l’invocazione al Signore per la salvezza, ed Egli manda un giudice perché sia vindice e liberatore del popolo di fronte alle altre nazioni e, almeno per un certo tempo, rimetta a posto le cose, faccia giustizia. Purtroppo, alla morte del giudice ricomincia l’infedeltà.

C’è dunque il motivo monotono della fragilità, della debolezza del popolo, e perfino la monotonia della misericordia del Signore che perdona. Questa è una lezione da assimilare: il nostro rapporto con Dio è instabile, per cui non si può pensare di essersi messi a posto una volta per tutte. Ad un certo punto può capitare una ricaduta, e allora bisogna riconoscere il Signore non solo come il Santo e il Giusto, ma anche come il Misericordioso.

La storia dei giudici inizia nel terzo capitolo, al v. 7. Come ho già detto, sono enumerati sei giudici ‘maggiori’ e sei ‘minori’. Faccio qualche breve cenno ai ‘maggiori’, soffermandomi di meno su alcuni, e di più su altri.

Abbiamo uno schema molto semplificato della vicenda dei giudici. Il primo è Otnièl, ma lo schema si ripeterà poi per ciascuno di loro.

Il primo momento è: «Gli Israeliti fecero ciò che è male agli occhi del Signore; dimenticarono il Signore, loro Dio, e servirono i Baal e le Asere». ‘I Baal e le Asere’ sono una ierogamia, cioè un matrimonio di divinità. Nella mitologia antica, la vicenda sessuale, la vicenda dell’uomo e della donna, viene proiettata anche nella sfera del divino, per cui ci sono gli idoli maschili e femminili.

Perciò servire i Baal e le Asere significa proiettare la vicenda umana nella stessa sfera divina e allontanarsi dal Signore, che non è né maschio, né femmina, e non è coinvolto in nessun problema sessuale o nuziale. Questi sono fatti che riguardano gli uomini perché riguardano le generazioni: gli uomini devono moltiplicarsi poiché c’è la morte, e a questa deve succedere la vita. Ma il Signore è al di fuori di questa catena sessuale.

Il peccato d’Israele è quindi quello di allontanarsi dal Signore per seguire il culto di una divinità fatta dall’uomo a propria immagine e somiglianza. Poi si può esprimere in tanti modi, perché l’idolatria prende corpo in molte maniere: il potere, il denaro, la violenza, la guerra… È comunque sempre un allontanarsi dalla purezza della conoscenza del Signore, che è il Dio del deserto, del Sinai, delle grandi teofanie.

Segue la reazione divina: «L’ira del Signore si accese contro Israele», che viene consegnato nelle mani del nemico Aram (regno del nord, Damasco).

Così, duramente provati dalla loro prepotenza, «gli Israeliti gridarono al Signore e il Signore fece sorgere per loro un salvatore, OTNIÈL, figlio di Kenaz, fratello minore di Caleb, e li salvò. Lo spirito del Signore fu su di lui ed egli fu giudice d’Israele».

Purtroppo, alla sua morte, il popolo cade nuovamente nel peccato: «La terra rimase tranquilla per quarant’anni, poi Otnièl, figlio di Kenaz, morì. Gli Israeliti ripresero a fare ciò che è male agli occhi del Signore». E la storia si ripete.

Questo, dunque lo schema: il giudice interviene e libera Israele (anche se magari si tratta solo di una piccola tribù). Il libro si interessa ai giudici in quanto difensori dell’intero popolo.

Il secondo giudice è EUD, scelto dal Signore dopo che gli israeliti, caduti in mano al nemico Moab (popolo del sud, verso la Giordania) a causa del loro peccato, l’hanno invocato perché li salvasse da una dominazione durata diciotto anni. Moab è un nemico tradizionale di Israele, anche perché collegato ad Esaù, fratello di Giacobbe/Israele.

Eud si comporta in un modo nuovo, rispetto ad Otnièl. Gli israeliti dovevano pagare un tributo al re Eglon (descritto come ‘molto grasso’), e la delegazione si reca da lui per versare quanto richiesto poi riparte. Ma Eud «tornò indietro e disse: “O re, ho una cosa da dirti in segreto”, e quanti stavano con lui uscirono. Allora Eud si accostò al re che stava seduto al piano di sopra, riservato a lui solo, per la frescura, e gli disse: “Ho una parola di Dio per te”. Quegli si alzò dal suo seggio. Allora Eud, allungata la mano sinistra, trasse la spada dal suo fianco e gliela piantò nel ventre» (Gdc 3,19ss).

Il giudice qui si comporta violentemente, ma noi, nella lettura del libro, non dobbiamo far caso a queste cose, bensì alla salvezza d’Israele. Non dobbiamo leggerlo con delle categorie morali. Non c’è nessuna morale: sono tempi duri e le relazioni sono brutali, ma il progetto divino è la salvezza d’Israele. La violenza sta nelle mani degli uomini, ma il Signore si serve anche di questo per raggiungere il suo fine. Questo è un quadro costante perché al Signore importa di farsi un popolo per sé, che sia il suo testimone e di cui poi si serve per offrire un messaggio di salvezza a tutti gli altri popoli.

Traducendo questo pensiero per noi, al Signore interessa la Chiesa intera, la sua purezza («La Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata Ef 5,27) perché possa far conoscere il nome del Signore.

Tornando al giudice Eud, il racconto continua: «Eud era fuggito e, dopo aver oltrepassato gli Idoli, si era messo in salvo nella Seirà. Appena arrivato là, suonò il corno sulle montagne di Èfraim e gli Israeliti scesero con lui dalle montagne ed egli si mise alla loro testa. Disse loro: “Seguitemi, perché il Signore vi ha consegnato nelle mani i Moabiti, vostri nemici”. Quelli scesero dopo di lui, occuparono i guadi del Giordano in direzione di Moab, e non lasciarono passare nessuno. In quella circostanza sconfissero circa diecimila Moabiti, tutti robusti e valorosi; non ne scampò neppure uno. Così in quel giorno Moab fu umiliato sotto la mano d’Israele e la terra rimase tranquilla per ottant’anni».

Troviamo poi una coppia, un uomo e una donna: DEBORA e BARAK. Vale la pena di leggere la loro storia, perché è interessante anche dal punto di vista letterario. È una vicenda rimasta famosa in Israele, tant’è vero che viene celebrata in due capitoli: nel quarto è in prosa, e nel quinto in poesia, con il famoso canto di Dèbora, composizione poetica che sembra essere uno dei testi più antichi dell’Antico Testamento. Ha un vocabolario molto forte, molto violento, e insieme molto epico.

Leggiamo, dunque, con una certa attenzione, al cap. 4,1ss: «Eud era morto, e gli Israeliti ripresero a fare ciò che è male agli occhi del Signore. Il Signore li consegnò nelle mani di Iabin, re di Canaan, che regnava ad Asor». Asor era una grande città al nord della Galilea.

«Il capo del suo esercito era Sìsara, che abitava a Caroset-Goìm». È interessante questa figura di Sìsara, come si è scoperto solo recentemente, leggendo alcuni articoli. Sìsara, se osserviamo bene le consonanti (la lingua ebraica non ha vocali), suona come ‘Sassari’. Così alcuni studiosi hanno avanzato la possibilità che i re cananei, a quel tempo più civilizzati dei popoli della Sardegna, andassero a cercare appunto dei soldati mercenari fin nelle isole del Mediterraneo. Potrebbero essere quindi dei soldati di ventura venuti dalla Sardegna, dove si trovano tracce di presenza fenicia.

«Gli Israeliti gridarono al Signore, perché Iabin aveva novecento carri di ferro e da vent’anni opprimeva duramente gli Israeliti. In quel tempo era giudice d’Israele una donna…». Questo è molto strano, non perché fosse impossibile o non frequente, ma stupisce il fatto stesso che, a un certo punto, in questo mondo di violenza, di guerra e di tradimenti, appaia una donna, «… una profetessa, Dèbora, moglie di Lappidòt». I nomi hanno una loro particolare importanza, e Dèbora significa ‘ape laboriosa’. «Ella sedeva sotto la palma di Dèbora, tra Rama e Betel, sulle montagne di Èfraim…». Siamo nel centro del territorio, con le tribù di Giuseppe, Efraim e Manasse (la più meridionale, vicina a Gerusalemme), dove Dèbora esercita la funzione di giudice a cui ci si rivolge per risolvere le cause in corso: «…e gli Israeliti salivano da lei per ottenere giustizia. Ella mandò a chiamare Barak [= fulmine] e gli disse: “Sappi che il Signore, Dio d’Israele, ti dà quest’ordine: Va’, marcia sul monte Tabor e prendi con te diecimila figli di Nèftali e figli di Zàbulon [tribù del nord, dove c’è Nazaret]. Io attirerò verso di te, al torrente Kison, Sìsara, capo dell’esercito di Iabin, con i suoi carri e la sua gente che è numerosa, e lo consegnerò nelle tue mani”. Barak le rispose: “Se vieni anche tu con me, andrò; ma se non vieni, non andrò”».

È strano che quest’altro giudice, Barak, voglia con sé anche una donna, ma in queste storie noi dobbiamo cercare che cosa viene da Dio perché nel libro dei Giudici non ci sono i mediatori o un re al quale il Signore deve ‘adattarsi’. Per parlare in termini cattolici, non c’è il Papa; una volta che c’è il Papa, il Signore deve guidare la Chiesa tenendolo presente. C’è un’istituzione stabilita, e per i propri scopi il Signore deve agire attraverso l’istituzione stessa, che in qualche modo lo condiziona. Qui, nel libro dei Giudici, no: c’è il Signore che pensa al suo popolo, e poi ci sono gli uomini con le loro moralità e immoralità. Le iniziative del Signore vengono prese direttamente da Lui.

Tutto questo è interessante per capire quali siano i ‘gusti’ del Signore, che cosa gli piaccia fare. Qui gli piace mettere in ballo una donna: Dèbora. Il guerriero valoroso, che sconfiggerà poi Sìsara con i suoi carri, si dice disposto ad andare in battaglia soltanto se lei lo accompagnerà. In tutto questo marasma sociologico di guerrieri, di alleanze e di inganni, è importante cogliere questo particolare.

«Dèbora] rispose: “Bene, verrò con te; però non sarà tua la gloria sulla via per cui cammini, perché il Signore consegnerà Sìsara nelle mani di una donna”. Dèbora si alzò e andò con Barak a Kedes. Barak convocò Zàbulon e Nèftali a Kedes; diecimila uomini si misero al suo seguito e Dèbora andò con lui». Diecimila uomini erano ben poca cosa di fronte ai novecento carri di Sìsara.

«Cheber, il Kenita [alleato di Sìsara], si era separato dai Keniti, discendenti di Obab, suocero di Mosè, e aveva piantato le tende alla Quercia di Saannàim, che è presso Kedes. Fu riferito a Sìsara che Barak, figlio di Abinòam, era salito sul monte Tabor. Allora Sìsara radunò tutti i suoi carri, novecento carri di ferro, e tutta la gente che era con lui da Caroset-Goìm fino al torrente Kison.

Dèbora disse a Barak: “Àlzati, perché questo è il giorno in cui il Signore ha messo Sìsara nelle tue mani. Il Signore non è forse uscito in campo davanti a te?”. Allora Barak scese dal monte Tabor, seguito da diecimila uomini. Il Signore sconfisse, davanti a Barak, Sìsara con tutti i suoi carri e con tutto il suo esercito; Sìsara scese dal carro e fuggì a piedi. Barak inseguì i carri e l’esercito fino a Caroset-Goìm; tutto l’esercito di Sìsara cadde a fil di spada: non ne scampò neppure uno».

Ma ricordiamo che quando Barak era stato convocato da Dèbora, la donna gli aveva detto: «Bene, verrò con te; però non sarà tua la gloria sulla via per cui cammini, perché il Signore consegnerà Sìsara nelle mani di una donna» (v. 9). Il Signore opererà la salvezza d’Israele sconfiggendo l’esercito nemico tramite Barak, ma la vittoria che concederà ad Israele sarà per mano di una donna. Per Barak le parole di Dèbora potevano essere scoraggianti, ma questo è il gusto di Dio quando agisce senza un’istituzione frapposta.

«Intanto Sìsara era fuggito a piedi verso la tenda di Giaele, moglie di Cheber il Kenita, perché vi era pace fra Iabin, re di Asor, e la casa di Cheber il Kenita. Giaele uscì incontro a Sìsara e gli disse: “Férmati, mio signore, férmati da me: non temere”. Egli entrò da lei nella sua tenda ed ella lo nascose con una coperta». Possiamo immaginare questo grande generale, che è stato sconfitto e cerca scampo presso un alleato nascondendosi… «Egli le disse: “Dammi da bere un po’ d’acqua, perché ho sete”. Ella aprì l’otre del latte, gli diede da bere e poi lo ricoprì. Egli le disse: “Sta’ all’ingresso della tenda; se viene qualcuno a interrogarti dicendo: C’è qui un uomo?, dirai: Nessuno”. Allora Giaele, moglie di Cheber, prese un picchetto della tenda, impugnò il martello, venne pian piano accanto a lui e gli conficcò il picchetto nella tempia, fino a farlo penetrare in terra. Egli era profondamente addormentato e sfinito; così morì». Direi che è davvero una scena selvaggia, di grande violenza.

«Ed ecco sopraggiunge Barak, che inseguiva Sìsara; Giaele gli uscì incontro e gli disse: “Vieni e ti mostrerò l’uomo che cerchi”. Egli entrò da lei ed ecco Sìsara era steso morto, con il picchetto nella tempia. Così Dio umiliò quel giorno Iabin, re di Canaan, davanti agli Israeliti. La mano degli Israeliti si fece sempre più pesante su Iabin, re di Canaan, finché ebbero stroncato Iabin, re di Canaan».

Qui ci sono due donne di cui il Signore si serve. Ma non dobbiamo pensare che Egli utilizzi la mano di Giaele per conficcare il picchetto nella testa di Sisara; Giaele agisce per conto suo. Ma perché compie questo gesto, contrario alle regole dell’ospitalità? Che cosa avrebbe detto il marito, alleato di Sìsara, al suo rientro nella tenda? Anche se il testo non lo dice, si potrebbe pensare che Giaele agisca come Raab nella presa di Gerico (vedi Gs 2,1). Giaele diventa quasi profetessa per dimostrare che il popolo di Dio è Israele e non quello di Asor o dei Keniti. Prende perciò le parti d’Israele e, così facendo, prende le parti del Signore.

Quello che interessa al Signore è la salvezza d’Israele di fronte a quei novecento carri di ferro che rappresentano la forza bruta, contro cui si pone la forza altrettanto bruta della donna. Qui si vede una cosa che poi si incontra varie volte. Pensiamo alla figura di Giuditta o a quella di Ester: pare che il Signore non ne possa più del maschilismo, perché è un’ingiustizia insopportabile ed è contro il piano di Dio. Qui ci riportiamo ai racconti della creazione. Il Signore crea l’essere umano a sua immagine e somiglianza, ma per farlo a sua immagine e somiglianza li crea maschio e femmina. E siccome il Signore è ‘uno’ e il maschio e la femmina sono due, costoro non sono a somiglianza di Dio finché non diventano una cosa sola. Perciò il solo maschio o la sola femmina non sono ad immagine di Dio; nessuno di noi è a immagine di Dio per conto suo, ma lo diventiamo quando siamo insieme, in comunione e alla pari. E certamente non maschilizzando le femmine o femminilizzando i maschi… E questo oggi non c’è, nemmeno nella Chiesa, per cui siamo tutti fuori posto nel piano del Creatore. Egli ci fornisce queste storie strane per farci capire il suo stile, e qui mette la gloria nelle mani di due donne.

È molto interessante, perché nella cultura del Medio Oriente Antico – e anche ai nostri giorni – la donna è la parte debole. Ma il Signore comincia con le cose deboli e se ne serve. Nel Nuovo Testamento abbiamo lo stesso atteggiamento, e viene affidato alle donne proprio l’annuncio della risurrezione, l’evento meno immaginabile nel giudaismo del primo secolo. È affidato a delle donne, la cui testimonianza ancora oggi non è valida in Israele perché la donna è passionale, debole.

Tuttavia non si deve puntare all’esaltazione della donna, altrimenti si sbilancerebbe di nuovo la situazione. No, bisogna essere ‘insieme in parità’, rispettando le qualità di ciascuno. Bisogna che io sia contento che l’altro sia se stesso! Molto spesso, invece, e a diversi livelli, la donna è in qualche modo cancellata; e talvolta è contenta di farsi cancellare.

Quegli avvenimenti sono poi celebrati in Giudici 5 con il canto di Dèbora, che nella Bibbia è uno dei più crudeli, ma poeticamente uno dei più belli. Vale la pena di leggerlo insieme: «In quel giorno Dèbora, con Barak, figlio di Abinòam, elevò questo canto: “Ci furono capi in Israele per assumere il comando; ci furono volontari per arruolarsi in massa: benedite il Signore! Ascoltate, o re, porgete l’orecchio, o sovrani; io voglio cantare al Signore, voglio cantare inni al Signore, Dio d’Israele! Signore, quando uscivi dal Seir, quando avanzavi dalla steppa di Edom, la terra tremò, i cieli stillarono, le nubi stillarono acqua». Qui i verbi ricordano quelli usati per il tempo del Sinai. L’uscire, l’avanzare sono i temi dell’esodo.

«Sussultarono i monti davanti al Signore, quello del Sinai, davanti al Signore, Dio d’Israele. Ai giorni di Samgar, figlio di Anat [il giudice successivo a Eud e prima di Dèbora], ai giorni di Giaele, erano deserte le strade e i viandanti deviavano su sentieri tortuosi. Era cessato ogni potere, era cessato in Israele, finché non sorsi io, Dèbora, finché non sorsi come madre in Israele. Si preferivano dèi nuovi, e allora la guerra fu alle porte, ma scudo non si vedeva né lancia per quarantamila in Israele». Nessuno, quindi si ribellava.

«Il mio cuore si volge ai comandanti d’Israele, ai volontari tra il popolo: benedite il Signore! Voi che cavalcate asine bianche, seduti su gualdrappe, voi che procedete sulla via, meditate; unitevi al grido degli uomini schierati fra gli abbeveratoi: là essi proclamano le vittorie del Signore, le vittorie del suo potere in Israele, quando scese alle porte il popolo del Signore. Déstati, déstati, o Dèbora, déstati, déstati, intona un canto! Sorgi, Barak, e cattura i tuoi prigionieri, o figlio di Abinòam! Allora scesero i fuggiaschi per unirsi ai prìncipi; il popolo del Signore scese a sua difesa tra gli eroi. Quelli della stirpe di Èfraim scesero nella pianura, ti seguì Beniamino fra le tue truppe». Come si nota, nel canto non si citano soltanto le tribù del nord che sono andati sul Tabor con Barak, ma quasi tutte le tribù d’Israele.

«Dalla stirpe di Machir scesero i comandanti e da Zàbulon chi impugna lo scettro del comando. I prìncipi di Ìssacar mossero con Dèbora, Barak si lanciò sui suoi passi nella pianura. Nei territori di Ruben grandi erano le esitazioni. Perché sei rimasto seduto tra gli ovili ad ascoltare le zampogne dei pastori? Nei territori di Ruben grandi erano le dispute. Gàlaad sta fermo oltre il Giordano e Dan perché va peregrinando sulle navi? Aser si è stabilito lungo la riva del mare e presso le sue insenature dimora». Ecco i severi rimproveri per quelli che non si sono mossi, non si sono uniti agli altri per la liberazione del popolo.

«Zàbulon invece è un popolo che si è esposto alla morte, come Nèftali, sui poggi della campagna! Vennero i re, diedero battaglia, combatterono i re di Canaan a Taanac, presso le acque di Meghiddo ». Questo ricorda la battaglia di Giosuè avvenuta nella stessa zona. Sono modo con cui, nella poesia, si dice che oggi si ripete quello che è successo ieri e che il Signore è fedele nel suo intervento per la salvezza del suo popolo.

«Dal cielo le stelle diedero battaglia, dalle loro orbite combatterono contro Sìsara. Il torrente Kison li travolse; torrente impetuoso fu il torrente Kison». Segnalo che si tratta del torrente in cui Elia ucciderà i profeti di Baal: «“Afferrate i profeti di Baal; non ne scappi neppure uno!”. Li afferrarono. Elia li fece scendere al torrente Kison, ove li ammazzò » (1Re 18,40). La geografia prende parte alla storia della salvezza, e abbiamo veramente il senso della terra. Non sono dottrine astratte del catechismo, ma sono una storia e una geografia testimoni della passione di un popolo che si trova ancora oggi di fronte a queste stesse difficoltà.

«Anima mia, marcia con forza! Allora martellarono gli zoccoli dei cavalli al galoppo, al galoppo dei destrieri. Maledite Meroz – dice l’angelo del Signore –, maledite, maledite i suoi abitanti, perché non vennero in aiuto al Signore, in aiuto al Signore tra gli eroi. Sia benedetta fra le donne [siamo rimandati alla preghiera a Maria] Giaele, la moglie di Cheber il Kenita, benedetta fra le donne della tenda! Acqua egli chiese, latte ella diede, in una coppa da prìncipi offrì panna. Una mano ella stese al picchetto e la destra a un martello da fabbri, e colpì Sìsara, lo percosse alla testa, ne fracassò, ne trapassò la tempia. Ai piedi di lei si contorse, cadde, giacque; ai piedi di lei si contorse, cadde; dove si contorse, là cadde finito». Sembra davvero di vedere quest’uomo che si contorce nello spasimo della morte. Il verbo viene ripetuto per ben tre volte.

Adesso assistiamo ad un’altra scena, quella della madre di Sìsara che aspetta il ritorno del figlio vincitore: «Dietro la finestra si affaccia e si lamenta la madre di Sìsara, dietro le grate: “Perché il suo carro tarda ad arrivare? Perché così a rilento procedono i suoi carri?”. Le più sagge tra le sue principesse rispondono, e anche lei torna a dire a se stessa: “Certo hanno trovato bottino, stanno facendo le parti: una fanciulla, due fanciulle per ogni uomo [il testo originale non dice ‘fanciulla’, ma ‘utero’]; un bottino di vesti variopinte per Sìsara, un bottino di vesti variopinte a ricamo; una veste variopinta a due ricami è il bottino per il mio collo”. Così periscano tutti i tuoi nemici, Signore! Ma coloro che ti amano siano come il sole, quando sorge con tutto lo splendore”». Ed ecco la conclusione: «Poi la terra rimase tranquilla per quarant’anni».

La figura di Debora richiama alla mente quella di Giuditta, che viene presentata come una vedova «bella d’aspetto e molto avvenente nella persona; inoltre suo marito Manasse le aveva lasciato oro e argento, schiavi e schiave, armenti e terreni che ora continuava ad amministrare. Né alcuno poteva dire una parola maligna a suo riguardo, perché aveva grande timore di Dio» (Giuditta 8,7-8).

Per porre termine all’assedio posto dagli Assiri decide di uccidere il generale Oloferne. Lascia gli abiti sobri della vedovanza e si rende affascinante; poi, con un’ancella fidata, va alla tenda di Oloferne, lo seduce con la sua bellezza e dopo quattro giorni di preghiera da parte di lei e di corteggiamento da parte di lui, accetta di cenare alla sua tavola: «Oloferne si deliziò della presenza di lei e bevve abbondantemente tanto vino quanto non ne aveva mai bevuto in un solo giorno da quando era al mondoGiuditta fu lasciata nella tenda e Oloferne era sprofondato sul suo letto, ubriaco fradicio. Si erano allontanati tutti dalla loro presenza e nessuno, era rimasto nella camera da letto. Giuditta, fermatasi presso il letto di lui, staccò la scimitarra; poi, accostatasi al letto, afferrò la testa di lui per la chioma e con tutta la sua forza lo colpì due volte al collo e gli staccò la testa» (Giuditta 13,2ss). Poi, con la testa di Oloferne avvolta nelle tende, fugge dal campo nemico e rientra nella città assediata portando la notizia della liberazione.

Nella Bibbia c’è questo filo che la percorre tutta: Dio si serve, per vincere, delle cose più deboli.

Il libro dei Giudici ci vuole rivelare chi è il Signore. Il mondo in cui si verificano queste cose è il mondo degli uomini, anche oggi. Credo che non ci sia stato nessun tempo nella storia in cui ci fosse più violenza di quanta ce n’è oggi; dal punto di vista morale non abbiamo fatto molti progressi! È il mondo come lo facciamo e lo gestiamo noi; in un certo senso si potrebbe dire che è abbandonato alle nostre mani perché il Signore ci ha dato l’intelligenza e la libertà. Dovremmo capire che è estremamente stupido gestire il mondo in questo modo, ma siccome non lo capiamo, paghiamo le conseguenze.

Secondo il libro dei Giudici, di generazione in generazione – alcune durano quaranta, altre ottant’anni – Dio salva Israele, salva la Chiesa, salva il mondo mediante la Chiesa. Il Signore ha un progetto di salvezza per tutti, ma le sue armi sono quelle della debolezza. E la debolezza estrema è la croce del Figlio, ed è la vittoria del Figlio sulla croce gloriosa.

Ma questo fa pensare a Maria. Nell’inno Tota pulchra es Maria ci sono le parole di Giaele («Coloro che ti amano siano come il sole, quando sorge con tutto lo splendore» – Gdc 5,31) e quelle di Giuditta («Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu magnifico vanto d’Israele, tu splendido onore della nostra gente. Compiendo tutto questo con la tua mano, hai operato per Israele nobili cose: di esse Dio si è compiaciuto. Sii per sempre benedetta dal Signore onnipotente» – Gdt 15,9-10).

Cogliamo allora questi aspetti della rivelazione del Signore riflettendo sul mondo umano e come si presenta pieno di inganni e tradimenti. Giaele è una figura mostruosa, a ben vedere, eppure a Gerusalemme, nella cripta della Dormizione di Maria sul monte Sion, sopra la statua di Maria distesa, ci sono tutte le donne della Bibbia, tra le quali Giaele con il martello. Questo corrisponde, nella poesia della Chiesa, alla Vergine che schiaccia il Maligno (il serpente) e a Gesù che si rallegra, quando tornano gli apostoli, perché vede i demoni colpiti dalla loro predicazione e gettati nell’inferno. Dio si compiace della vittoria sul male. Tra il bene e il male c’è guerra, e Dio vuole schiacciare la menzogna, la violenza, l’ingiustizia. Purtroppo nella coscienza umana queste cose sono confuse tra la libertà umana e la malizia del demonio, ma Dio vuole la sconfitta del male.

In mezzo a tutta questa confusione dobbiamo saper discernere che cosa il Signore preferisce. Ci vuole la forza di Barak, con i suoi diecimila uomini che scendono dal Tabor, ma poi ci vuole il coraggio decisivo di Giaele. Dobbiamo muoverci liberamente in mezzo a tutto questo, assimilando questi criteri di forza nella debolezza.

Una volta sono giunto a Burgos, in Spagna. Nel museo della cattedrale sono stato colpito da un grande arazzo azzurro, che occupava tutta una parete. Descrive il momento in cui Giaele alza il martello, e la cosa veniva segnalata come virtù, ed esattamente la virtù della fortezza. È interessante anche per capire come i gusti e la sensibilità delle generazioni cristiane cambino. Oggi le nostre sensibilità più o meno morali (o moralistiche, visto che la violenza non manca neanche in questi tempi) verrebbero ferite da una scena del genere, ma è significativo notare come il popolo di Dio legga la Scrittura attraverso i secoli.

Gruppi di lettura continua della Bibbia in Bergamo
Settimana Biblica 2012 Bergamo 24 – 29 settembre 2012 Il libro dei Giudici
Relatore: p.j. Francesco Rossi de Gasperis
Il testo non è stato rivisto dal relatore