Il Ciad, nonostante le gravi criticità interne – tra cui violazioni dei diritti umani, gestione opaca del potere e repressioni denunciate da più organizzazioni – continua ad accogliere oltre un milione di profughi in fuga dalla guerra in Sudan. In un contesto segnato da povertà e instabilità, il Paese mantiene le frontiere aperte e garantisce ai rifugiati un documento d’identità valido, offrendo possibilità concrete di restare e ricostruire.

di Luca Attanasio. Giornalista e scrittore
1 Agosto 2025
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La maggior parte del peso di profughi, sfollati, popolazioni in fuga da conflitti, disastri ambientali, regimi liberticidi o impoverimento estremo, come è noto, ma poco narrato, lo sopporta il cosiddetto Sud globale. Tantissimi Paesi africani, mediorientali o asiatici, gravati a loro volta da problemi enormi, ospitano milioni di esuli. Si potrebbero citare tanti casi come il piccolo Libano arrivato nel periodo peggiore della crisi siriana a ospitare 1,5 milioni di persone; o l’Uganda che accoglie 1,6 milioni di individui in fuga da Sud Sudan e Repubblica democratica del Congo, così come vari altri che non fanno che aumentare l’imbarazzo che si prova nel sentire in Europa affermazioni che gridano all’invasione [nel 2024 sono entrati in Unione Europea circa 239mila migranti irregolari su una popolazione complessiva di 450 milioni circa fonti Frontex].
Uno degli esempi più eclatanti di quanto andiamo dimostrando, ce lo offrono i Paesi limitrofi al Sudan che, dallo scoppio della guerra nell’aprile 2023, si sono trovati a dare ospitalità a circa 3 milioni di individui. Tra questi, spicca il caso del Ciad. Il Paese, che ha vissuto nel 2021 un colpo di stato, è segnalato per una gestione del potere autocratica e vive sospeso tra instabilità, povertà (anche causata da gravi questioni ambientali), penetrazione jihadista ma anche, di recente, una iniziale ripresa socio-economica. Secondo le statistiche più aggiornate, accoglie oltre un milione di profughi.
LA GUERRA PIÙ GRAVE AL MONDO
La guerra in Sudan, la crisi che può essere descritta come «la più grave al mondo del momento» (Onu) e allo stesso tempo la più negletta, sta creando spaventosi problemi non solo alla popolazione autoctona, ma anche a un’area molto estesa che va dalla Libia e l’Egitto a Nord, l’Etiopia a Est, il Sud Sudan e il Centrafrica a Sud, Sud-Ovest e, appunto, il Ciad a Ovest. Le statistiche più accreditate parlano di oltre 14 milioni di profughi di cui 11 interni e i restanti oltre confine.
In Ciad, dal 15 aprile del 2023, quando è scoppiato il conflitto sudanese, sono entrati almeno un milione di profughi (un numero simile è presente in Sud Sudan). Solo tra maggio e giugno, a causa delle stragi compiute nella zona settentrionale del Darfur, hanno varcato il confine ciadiano tra le 80 e le 100mila persone. Le fughe dalla zona di El Fasher si moltiplicano perché da quello che appare, è in atto una pulizia etnica: le milizie ribelli delle Rsf e i loro alleati stanno prendendo di mira i civili sulla base della loro etnia. «Arrivano qui nuclei composti in gran parte da donne e bambini [l’88% secondo l’Unhcr] e vedi la disperazione nei loro occhi – spiega Fabio Mussi, missionario laico del Pime (Pontificio istituto Missioni estere), in Ciad dal 2021, che visita regolarmente assieme a una trentina di volontari della Caritas diocesana di Mongo i campi profughi di Métché e Farchana – Gli uomini sono morti o sono a combattere. I nuovi arrivati si aggiungono ai ai circa 410mila sudanesi già rifugiati in Ciad prima dell’aprile 2023 e devono affrontare scarsa disponibilità di cibo, accesso limitato alle risorse naturali, ai servizi di base e alle opportunità socio-economiche [solo a Métché vivono 80mila persone]. Inoltre, il persistere dei conflitti intercomunitari e dell’insicurezza civile interna ha limitato lo svolgimento delle attività economiche e l’accesso ai servizi sociali di base. Ma al di là di tutto, possiamo affermare con certezza che il Cnnar (l’organismo governativo preposto ad assistere i profughi) lavora bene, cura l’organizzazione e la gestione ordinaria della comunità dei profughi».
Nessuno, ovviamente, vuole negare i problemi interni del Ciad, la persistente violazione dei diritti umani perseguita dal generale Mahamat Idriss Déby (che prese il potere subito dopo l’uccisione del padre dichiarandosi capo del Consiglio militare di transizione nel 2021) denunciata da varie organizzazioni, le tornate elettorali inficiate da accuse di irregolarità e violenze e una gestione non esattamente trasparente del potere. Al tempo stesso, però, è importante sottolineare come tra mille contraddizioni e difficoltà a cui deve fare fronte, il Ciad continui a tenere aperte le frontiere e ad accogliere, fornendo a chiunque la possibilità di restare e una carta di identità di rifugiato che vale come documento a tutti gli effetti.
«Un fattore che in qualche modo aiuta – aggiunge Sabrina Atturo, cooperante internazionale della Fondazione Magis (gesuiti) in Africa – è senz’altro il fatto che i profughi che arrivano qui sono per la maggior parte delle stesse etnie dei ciadiani. Ma bisogna anche sottolineare la forte volontà politica di integrarli stabilmente nel tessuto ciadiano». È interessante notare che il grande Paese dell’Africa Centro-settentrionale stia vivendo una fase di ripresa. «Il Ciad – sostiene Atturo – sta vivendo un momento di stabilità politica e di relativa crescita economica nonostante la gran parte della popolazione viva sempre con meno di un euro al giorno. Tra i successi da registrare ci sono la riduzione della prevalenza dell’infezione da Hiv che è ora al 3%, o una diminuzione della diffusione dell’epatite b. Resta ancora la sfida della malnutrizione a causa dei periodi di forte siccità e di inondazione che limitano drasticamente i raccolti e fanno lievitare i prezzi dei cereali. Certo, va anche detto che a fronte della relativa stabilità politica si nota una riduzione della libertà in particolar modo un pugno di ferro contro l’opposizione: l’ultima manifestazione dell’ottobre 2023 è stata repressa con violenza».
INVESTIMENTI PER IL FUTURO
Negli ultimi mesi il governo sta investendo sul fronte delle infrastrutture per migliorare le comunicazioni soprattutto con il Camerun da cui provengono la maggior parte dei beni [Il Ciad non ha accesso al mare e i fiumi non sono navigabili] e il livello dell’istruzione sta aumentando. È serio, invece, il tasso di disoccupazione giovanile. «Ma i giovani – conclude Atturo – nonostante le fragilità socio-economiche, amano il loro Paese e non hanno voglia di migrare». Il Magis, per sostenere la popolazione,– gestisce in Ciad da molti anni progetti sanitari, progetti di formazione professionale per i giovani più vulnerabili e progetti agricoli e di ecologia per il rafforzamento socio- economico delle donne.
«Da un anno – di nuovo Fabio Mussi – siamo passati dalla fase di assistenza per l’emergenza nei campi, alla creazione di condizioni per rafforzare la lotta contro l’insicurezza alimentare e nutrizionale e il ripristino dei terreni agricoli, e ci occupiamo di prevenzione dei conflitti comunitari. La Caritas sta puntando sulla resilienza e la stabilizzazione delle comunità. Stiamo realizzando cooperative di donne che lavorano in orti comunitari, sono oltre 500 e sono riuscite a rendersi indipendenti. Il lavoro principale è restituire dignità a queste persone che arrivano qui senza nulla, ma conservano la capacità di aiutarsi, di essere positive e solidali».
Ph Campi profughi in Ciad © Fabio Mussi