di Gilberto  Borghi
19 Luglio 2025
Per gentile concessione di
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La quarta indicazione operativa per la realizzazione del giubileo è il pellegrinaggio.

Camminare verso una meta per motivi religiosi ha radici già nella Mesopotamia, nell’antica Grecia, ed in Egitto. Nella nostra tradizione, a partire già dall’Antico Testamento, non è mai stato inteso solo come un viaggio verso un luogo sacro, ma prima di tutto ha sempre avuto il carattere di “un’esperienza di fede”: un cammino esteriore per camminare dentro di sé, dando spazio al nostro desiderio di incontrare Dio. Poi, dopo Cristo, fin dalla fine delle persecuzioni romane, il pellegrinaggio nasce dal desiderio di recarsi nei luoghi della vita di Gesù, della vita dei santi, ma sempre per sperimentare il suo amore.

Da Abramo (Gen 12, 1-4), a Mosè (Es 3,1-12), fino a Gesù stesso (Lc 9,51), e dopo di lui i suoi discepoli (Mt 28, 18-20); tutti gli attori della storia della salvezza si sono sempre messi in viaggio. Per noi oggi, questo significa accettare che ci sia una “frattura” nella nostra esistenza, un prima e un dopo l’irruzione di Cristo nella nostra vita, che si manifesta proprio nell’accettazione di essere dei pellegrini nel mondo, non dei turisti, né dei conquistatori. Il pellegrino si “mescola” e vive davvero l’alterità che incontra, e in questo scopre la sua identità e la testimonia; il turista sfiora soltanto l’alterità e non si lascia toccare da essa, perché sa che tornerà a casa; il conquistatore impone la sua visione e tende a sottomettere l’altro che incontra.

Questo ci ricorda che mettersi in cammino significa anche riconoscere il bisogno di convertirci, che nell’incontro con l’altro (e con l’Altro) è sempre possibile. Il pellegrino è colui che si lascia interpellare dalla fatica del viaggio, accettando le difficoltà come occasioni di crescita e offerta. È un tempo propizio per il silenzio, per la riflessione, per riscoprire la bellezza della preghiera e della vicinanza di Dio.

Ogni pellegrino porta con sé una domanda, una ricerca, un’attesa: un incontro autentico con il Signore. E spesso, tornando dal pellegrinaggio, si scopre che la meta vera non era un luogo, ma il cambiamento del cuore. Mentre si cammina, nel silenzio, la mente si svuota più facilmente, il cuore ha spazio per mostrarsi e anche senza fare troppe introspezioni, camminando camminando, qualcosa  dentro si mette a posto e sentiamo che Dio ci ha lavorato dentro. I luoghi verso cui ci si dirige, quindi, non sono solo mete geografiche, ma punti di incontro con il mistero: Lourdes, Assisi, Santiago, Gerusalemme… sono segni della presenza di Dio nella storia, testimoni di fede vissuta, sorgenti di speranza.

Spesso questo cambiamento si avverte proprio nella dimensione fraterna del cammino. Si cammina insieme, ci si sostiene, si condivide la fatica e la gioia e ci si conferma e confronta, mentre si cerca di dare una risposta alle domande che sempre il Signore non ci fa mancare: “Adamo, dove sei?” (Gen 3,9); “Chi cercate?” (Gv 18,4); “Volete andarvene anche voi?” (Gv 6,67); “Sentinella, quanto resta della (tua) notte?” (Is, 21.11); “Dov’è Abele, tuo fratello?” (Gen 4,9); “Che cosa ti ho fatto popolo mio” (Mic 6,3).

Ma forse anche tutte quelle che noi, nel cammino possiamo urlare a Dio: “Fino a quando, Signore?” (Sl 13,2); “Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Sl 22,2); “Perché mi hai tratto dal seno materno?” (Gb 10,18) “Perché la via dei malvagi prospera?” (Ger 12,1); “Che cosa vuoi che io faccia?” (At, 22.10); “Chi è il mio prossimo?” (Lc 10.29).

In un mondo spesso individualista, il pellegrinaggio ricorda che la fede è sempre personale, ma mai solitaria. Siamo tutti pellegrini, bisognosi gli uni degli altri, capaci di riconoscere in ogni volto incontrato un fratello o una sorella da amare.