Un prete si toglie la vita. E’ successo a don Matteo, prete di Novara. Ma è successo anche a Bergamo. Queste tragedie rivelano che la vita del prete, giovane e non, ha le sue spesso drammatiche difficoltà. Che andrebbero affrontate partendo dai legami dentro la Chiesa: il “padre spirituale”, gli amici preti, gli amici laici, uomini e donne

ALberto Varinelli
Data: 30 Luglio 2025
http://www.labarcaeilmare.it
Don Matteo, prete. Suicida
La morte di don Matteo Balzano, presbitero della Diocesi di Novara, qualche settimana fa, ha destato molto scalpore. Un prete giovane, bravo, impegnato in oratorio anche la sera prima del tragico rinvenimento del suo corpo. Don Matteo si è tolto la vita.
In tanti, soprattutto preti, ma anche psicologi e sociologi hanno dato rilievo a questa tragedia, sottolineando in particolare le fatiche che caratterizzano la vita del prete oggi. Sono passati diversi giorni e, come è normale nel nostro mondo che corre, non se ne parla più. Fa parte del passato.
Non bastano due pedate… e via
Io vorrei, in modo generale, provare a offrire qualche riflessione non tanto sul soffrire del prete, ma sui luoghi dove queste sofferenze possono essere accolte e gestite.
In primo luogo, sto diventando sempre più insofferente verso le banalizzazioni. Per educazione non rispondo mai male, preferisco fingere di non capire, restare in silenzio o cambiare discorso, ma non sopporto più frasi come “i preti in crisi hanno buon tempo, …dovrebbero provare ad avere famiglia o andare a lavorare… due pedate nel sedere e vedi come gli passa la crisi!”.
Sono affermazioni vergognose, che non solo dicono di un’umanità problematica, ma anche di non poca ignoranza: pensare di ridurre la complessità umana a voglia/non voglia di fare, a lavorare/non lavorare è imperdonabile. Peraltro, pensieri siffatti lasciano trasparire anche una conclusione che fa rabbrividire, quella secondo la quale una persona i problemi, le crisi, le difficoltà se le andrebbe a cercare.
La vita è complessa anche per il prete
Da prete, amico di preti e confratello, so bene che non è così: chi ha avuto difficoltà in parrocchia non è (sempre) stato perché non gli andava bene il parroco (magari accade il contrario… non sempre il più anziano è il più saggio…), chi non si trovava bene come curato di oratorio non è andato in difficoltà perché non voleva lavorare, ma forse perché era portato per fare altro, chi ha avuto difficoltà affettive non è stato perché voleva provare un’avventura con una donna o perché ha giocato con l’affettività, ma perché l’innamoramento fa parte dell’esperienza umana autenticamente vissuta.
Quindi, con buona pace del semplicismo dei vari “i problemi li abbiamo tutti” e “se un prete prega non può avere crisi”, occorre fermarsi e domandarsi quali siano i luoghi nei quali i preti in fatica possano portare la loro esistenza per essere aiutati a riprendere in mano le redini della loro libertà in modo competente ed efficace. Io offro la mia risposta, che ciascuno potrà rigettare, integrare, rilanciare.
Il “padre spirituale” e gli amici preti
Aanzitutto, le fatiche del prete devono essere consegnate in ambito ecclesiale. La vita del prete la conosce innanzitutto chi è prete. Da qui, due strade fondamentali. La prima è quella del padre spirituale, necessario alla vita del presbitero, per monitorare la vocazione e il suo realizzarsi nell’esistenza pratica e nell’ufficio che la Chiesa ha assegnato. In sede di colloquio, emergono le questioni più delicate, quelle relative alla preghiera, alle relazioni, alla gestione dell’affettività, al ministero e alle gioie e sofferenze che lo costituiscono. Spetta al padre spirituale aiutare il presbitero che segue a discernere, accompagnandolo anche in quelle scelte difficili che si rendessero necessarie, quali un trasferimento di parrocchia, un periodo di studio e ritorno in formazione, fino alla scelta di lasciare il ministero (piaccia o no, il padre spirituale ha il compito delicato non solo di aiutare a rimanere, ma anche a uscire bene dal ministero, qualora la situazione lo richiedesse per il bene della persona).
Insieme al padre spirituale, sono importanti le amicizie con altri sacerdoti. Avere confratelli che condividono la stessa esperienza di vita e ai quali si è legati da affetto e amicizia è importante, soprattutto quando il cuore è pesante e parlare di ciò che si sta vivendo diventa decisivo per la vita e per la vocazione.
Gli altri amici, uomini e donne
A questi aggiungo le amicizie buone, maschili e femminili. Anche femminili? Sì, anche. Avere persone di fiducia, magari di parrocchie nelle quali si è prestato servizio, con le quali potersi confrontare, poter dire che si sta affrontando un tempo di fatica o di discernimento è dono grande.
E se sono amicizie giovani? Io credo anche questa sia una grazia, perché le questioni del prete giovane le comprende più facilmente il giovane rispetto a chi, per età, ha altra formazione, altri modi di vedere la vita, altre esperienze (senza nulla togliere, con questo, alla saggezza e ai consigli di chi ha qualche anno in più, ovviamente).
Poi ci sono i “superiori”
Da qui, ma sarebbe da trattare in un altro articolo che non avrei le competenze per scrivere, ci sarebbe la questione del rapporto che intercorre tra chi si prende cura della vita dei preti e i superiori. Che incidenza ha la segnalazione ai superiori di un prete che ne vede un altro in fatica? Cosa ne è del frutto del discernimento spirituale fatto con il padre spirituale (quindi nella Chiesa!) quando la storia di quel prete, accompagnata da alcune richieste inerenti il ministero da vivere, giunge sul tavolo di chi ha il potere di decidere? Conta qualcosa come sta quel prete o viene prima il fatto che serve un prete nella x, y, z parrocchia (problema certamente serio, nessuno nega questo!) e quindi non si prende in considerazione altro?
La mia speranza è che le vicende non soltanto dei preti che sono giunti a togliersi la vita, ma anche (e soprattutto!) dei sacerdoti che vivono momenti di difficoltà, possano trovare spazio nella riflessione di tutto il presbiterio, non con l’intento di violare privacy, cercando soddisfazione a curiosità inutili sulla vita dei confratelli, ma con l’intento di vivere davvero la fraternità presbiterale, che trova nelle fatiche umane di noi preti uno snodo decisivo, che dice l’autenticità con la quale noi per primi viviamo il Vangelo.