Un gesto che segnala più di altri che il credente si è consegnato a Dio, ha rimesso la propria vita nelle sue mani

di Gilberto Borghi
12 Luglio 2025
Per gentile concessione di
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Elemosina
Dopo la preghiera e il digiuno, la terza indicazione operativa classica, data ai fedeli per realizzare il giubileo è l’elemosina: non rifiutare un aiuto materiale (spesso in denaro) a chi si trova nel bisogno e ha il coraggio o la disperazione per chiederlo.
Questa parola è tipica del linguaggio cristiano, ha origine già nella bibbia, ma diventa centrale come opera di misericordia tra il IV e l’VIII secolo, arrivando fino a noi come traduzione dell’attenzione dovuta ai poveri all’interno di una società improntata ai valori di fede. Quando, però, negli ultimi 40 anni la società si trasforma e perde il riferimento al cristianesimo, questo significato decade e anche l’uso ecclesiale della parola tende a perdersi.
In realtà, se guardiamo al Nuovo Testamento, l’elemosina è una di quelle azioni concrete che maggiormente dimostrano la qualità della fede del credente. In Lc 11 Gesù chiarisce che fare l’elemosina significa letteralmente “dare l’anima” (v. 41). Che richiama l’episodio di Mc 12, in cui, osservando il modo con cui venivano fatte le offerte al tempio, Gesù indica che la povera vedova ha dato più di tutti gli altri, “poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere” (v. 44).
Per Gesù il gesto di fare l’elemosina, perciò, segnala più di tanti altri gesti, che il credente si è consegnato a Dio, ha rimesso la propria vita nelle sue mani. Non è allora, appena un gesto di giustizia sociale, in cui il “di più” che si ha per vivere deve essere dato per ridurre lo scarto tra ricchi e poveri. Non è nemmeno un gesto attraverso cui speriamo di ottenere lode e riconoscimento, fosse anche sentendoci buoni davanti a Dio.
Fare l’elemosina, invece, nasce dalla convinzione interiore che noi dipendiamo da Dio, che la nostra vita, anche quella materiale, il nostro stesso io, tutto ciò che siamo e che abbiamo è suo dono, che ci è stato regalato per essere amministrato a favore della venuta del Regno di Dio. Perciò siamo spinti dall’amore verso un confine in cui non abbiamo nulla più da difendere, nulla più da trattenere e più la nostra fede cresce e più il limite si sposta.
Allora, facciamo o no l’elemosina a chi, fuori dalla messa, ci tende la mano?
Si trovano tante posizioni diverse. Dalle più chiuse: “andate a lavorare piuttosto”, oppure: “ma proprio qui devono venire a disturbarci”; o ancora “non è giusto favorire l’accattonaggio”. A quelle più moderate: “ma questi sono dentro ad organizzazioni che gli fregano i soldi, poveretti loro”; o anche: “va beh dai, giusto gli spiccioli”; oppure: “sì, però non tutte le domeniche”. A quelle più disponibili: “guarda, lì alla Caritas possono darti quello di cui hai bisogno”; oppure: “Tieni, ecco. Ma ti vedo sempre qui, non vuoi provare a smettere questa condizione?”. Ma ho trovato anche chi: “Oggi sei nostro ospite, se vuoi…”. Che svela la reale intenzione di chi abbiamo di fronte quando la sua risposta è: “No, meglio se mi dai qualcosa per comprarmi un panino”.
La vera questione è: da cosa è mosso il nostro cuore? Certo, la consegna totale a Dio spaventa e solo pochi mostrano davvero di viverla, ma ciascuno cammina con la propria battaglia interiore. Un passo in più nel giubileo, forse ci sta!