di Gilberto  Borghi
5 Luglio 2025
Per gentile concessione di
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Nell’accezione popolare cattolica questa parola si lega al venerdì, inteso come giorno della morte di Cristo, e alla quaresima. Nel primo caso ha un carattere penitenziale, in cui il peccatore deve un po’ sentirsi responsabile della morte di Cristo: rinunciando al piacere del cibo traduce in termini fisici il suo sentirsi colpevole e il desiderio di conversione. Nel secondo caso è una forma attraverso cui il credente si sforza di “purificarsi” per essere meno indegno di vivere la pasqua di Cristo.

Questi significati del digiuno richiedono una visione del rapporto con Dio di tipo espiatorio, in cui la percezione e l’esperienza di essere amati gratuitamente da Dio finisce quasi per scomparire, a fronte della percezione del danno e del male del proprio peccato. Ci si concentra di più sul proprio peccato che sull’amore di Dio. In realtà il contesto del Nuovo testamento in cui Cristo da senso al digiuno è molto diverso. Delle circa 70 volte in cui la bibbia parla del digiuno solo 9 sono nel nuovo testamento. E sono tutte connesse a tre situazioni ben precise.

La prima è quella di sperimentare fisicamente la propria non autosufficienza (nel sentire la fame) stimolando il riconoscimento dell’essere vivi per la cura e l’amore gratuiti che Dio ha per noi e non per i nostri sforzi (Mt 4,2; 6,16-18; Lc 4,1-2). Perciò, poi, riconoscere  questo amore ci permette di vincere le tentazioni, cioè quelle scelte in cui noi cerchiamo proprio di affermare la nostra autosufficienza.

La seconda. Digiunare permette di ascoltare meglio la propria interiorità, per poter imparare a distinguere quale sia la scelta di amore da fare (At 13, 2-3; 14, 23; 1 Cor 7,5). La fame ci permette di sviluppare una maggiore presenza mentale a noi stessi, di ascoltare meglio il proprio corpo e i propri pensieri e di osservare più chiaramente le emozioni e i desideri. Perché è lì che Dio ci parla concretamente e ci offre ispirazioni e intuizioni più autentiche, che vanno però riconosciute.

La terza. Digiunare ci ricorda che, anche se siamo nel benessere, la pienezza della vita non è su questa terra (Mt 9, 14-15; Mc 2, 18-20; Lc 5, 33-35) e che fino a che siamo qui dobbiamo ricordarci che ci sono persone che non hanno cibo a sufficienza, proprio perché qualcuno continua a pensare sé stesso pienamente autosufficiente. Condividere volontariamente la fame con chi la deve subire involontariamente ci permette di aprire di più il nostro cuore e fare ciò che ci è possibile perché tutti vivano dignitosamente.

Visto così il digiuno ha una valenza spirituale molto potente, ma anche molto lontana dall’idea espiatoria o purificatoria di chi pensa di “ottenere” grazie da Dio attraverso il digiuno. La Cei ha recepito la versione originaria di Mt 17,21 e Mc 9, 29 in cui la parola digiuno non è presente nei manoscritti più antichi. Testi, in cui il digiuno poteva apparire come strumento attraverso cui ottenere da Dio una grazia, ma che sono aggiunte non originali.

Se prendiamo sul serio questi significati, allora dobbiamo ammettere che il digiuno sensato che un cristiano oggi può vivere, non è appena l’astensione di qualche cibo (tutti gli alimenti sono puri: Mc 7,19) o di un pasto. Ma è un digiuno tale da permetterci di tornare a percepire davvero la fame. Nei nostri paesi “avanzati”, nonostante tutto l’esperienza vera della fame oggi è pochissimo presente. Tornare a permettersi di percepirla apre possibilità spirituali di non poco valore.

Ma la stessa dinamica vale anche per altri tipi di digiuno. Sappiamo bene che gli eccessi di sostanze, di emozioni, di legami, di esperienze “seppelliscono” le nostre veri fami: riconoscimento, sicurezza, condivisione, senso della vita. Digiunare da queste compensazioni ci permetterebbe di fare i conti con le nostre paure più “innominate” e di cominciare ad attraversarle.