Si è deboli. La prima forma di saggezza è accogliere la propria debolezza, incerti in un tempo incerto. La compassione genera fraternità e rispetto verso l’altro. Ma ci vuole tempo e pazienza

Ivo Lizzola
23 Luglio 2025
http://www.labarcaeilmare.it
Nel tempo segnato dall’indifferenza bisogna imparare a custodire. Perché l’indifferenza può nascere dalla fatica che si avverte quando ci si sente scomodi, quando non si sa subito come procedere. È più semplice delegare, rimandare, scacciare il pensiero. L’indifferenza è una risposta superficiale, ma pur sempre naturale e istintiva, in un mondo fatto d’incertezza. E il nostro è un tempo incerto.
Saper accogliere l’incertezza
Bisogna invece riscoprirsi capaci di sostare in quella scomodità (lo si è davvero!), e quindi imparare a custodire, perché trascurare questa piccola forza rischia di provocare l’inaridimento dell’anima. L’indifferenza verso l’altro presto diventa indifferenza verso la parte più profonda di sé. Com’è facile perdersi…
Serve allora andare oltre al superficiale, andare nel profondo. Senza illudersi che questo significhi cancellare l’incertezza. Significa piuttosto accettarla, perché si comprende che anche in essa si può comunque fare un poco d’ordine e chiarezza, e che talvolta è bello che ci sia l’incerto, che può essere apertura al nuovo, all’inedito, al futuro.
Andare nel profondo è un atto che comincia da sé stessi: come non essere indifferenti? Anzitutto, facendo spazio in noi a quella scomodità.
Occorre sapersi fare vuoti per poter fare spazio all’altro e al mondo, per riceverlo e accoglierlo così com’è, con la sua capacità di fiorire e con le sue ferite.
Questo è un primo aspetto di cosa significa nel profondo custodire: accogliere.
Accogliere le sventure e le ferite del mondo non è certo facile: custodire significa tenere in sé anche la sofferenza, la propria sofferenza. Riconoscerla come necessaria, non rifuggirla. Guardarsi nel profondo e farsi vuoti, accettare il vuoto e l’incertezza. Ci vuole tempo.
La fraternità germoglia nella compassione
Custodire significa allora accogliere la propria vulnerabilità. Significa proteggere, vegliare, tenere in sé contemporaneamente esponendosi.
È infatti la percezione della nostra vulnerabilità a guidarci e orientarci alla cura reciproca: “la fraternità germoglia facilmente nella compassione per una sventura”[1].
È quindi sottinteso che essere vulnerabili e fragili è condizione necessaria per poter essere anche realmente custodi. Difatti, il filosofo Emmanuel Lévinas affermava che “solo un io vulnerabile può avere cura del prossimo”. E l’aver cura passa necessariamente attraverso l’accogliere.
Tutti chiamati a riconoscerci dipendenti
Per custodire serve accogliere, porre attenzione, rispettare, farsi vuoti, sapersi vulnerabili. Ma chi è chiamato a custodire?
Ognuno! È proprio perché la vita dell’altro dipende da ciò che decido di fare o meno che sono suo custode. Viceversa, l’altro lo è di me. Custodire significa riconoscere una reciproca dipendenza, alimentata da un prezioso sentimento di debito che fin dall’infanzia cresce in ognuna e ognuno.
Quindi, imparare a custodire significa anche imparare a riconoscere e riconoscersi: custodire è un atto che ha origine nel riconoscere che si è anzitutto vita comune[2].
Il sentimento che ci porta verso l’altro non fa allora riferimento alla generosità che giunge dall’abbondanza, è un atto che viene fatto in quanto considerato normale, conseguenza ovvia del riconoscersi. E viene fatto anche perché nel riconoscersi vulnerabili si comprende che tutelare la fragilità altrui è a beneficio della propria stessa tutela, che solo così è possibile non interrompere la veglia verso la parte più profonda di sé.
Responsabili verso tutti
Avvertire nel profondo che la propria vita è strettamente legata e intrecciata a quella degli altri genera una spontanea responsabilità verso l’altro e il mondo. La comune esposizione alla sventura provoca riconoscimento e corresponsabilità.
Ed ecco che custodire significa anche essere responsabili, custodire chiama anche ad un certo fare: non si augura semplicemente all’altro ciò che si augura a sé stessi, si cerca anche di fare in modo che questo accada.
Una responsabilità che è anche verso sé stessi, che ci porta a porci attenzione, ospitare in noi l’altro senza sostituirci a lui. Custodire è vegliare e vegliarsi, è un moto verso l’altro che non si sostituisce a lui, che lo riconosce come protagonista. Che sa che seppur affidata la sua vita è sempre in mano sua.
Presenti nella ferita dell’altro
Custodire è presenza nella ferita dell’altro, è testimonianza della possibilità di attraversarla e di farsi attraversare da essa, nella speranza di aiutare l’altro a rialzarsi dopo essere inciampato, così da poter camminare in direzione di sé stesso. È un cammino di cui si spera di non far più parte in futuro, o almeno in modalità differenti.
Per custodire ci vuole tempo, ma ci vuole anche spazio. Sia quello ospitale in ognuno, sia la distanza di chi ha trovato rinnovato coraggio nel compiere le proprie, sempre incerte, scelte. Essere custodi significa essere stati appoggio per qualcuno, che ora sente di poter osare di nuovo.
Accogliere l’altro e il mondo per ciò che è significa anche lasciarlo essere.
Talvolta la veglia si fa da lontano.
[1] S. Weil, La prima radice, SE, Milano 1990, p.159
[2] I. Lizzola, In tempo d’esodo. Una pedagogia in cammino verso nuovi incontri intergenerazionali, Città Nuova, Roma 2023, p.37