di Gilberto  Borghi
28 Giugno 2025
Per gentile concessione di
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Questa parola costituisce, assieme a digiuno, elemosina e pellegrinaggio, il compito operativo più predicato per il giubileo, il “cosa si deve fare”.

Preghiera è una parola imparentata con “precarietà”. In origine, infatti, indicava la condizione di chi avverte il rischio che qualcosa di essenziale nella propria vita non sia garantito e perciò si rivolge a Dio per essere aiutato.

Questo significato finisce per sostenere l’idea che nella preghiera noi cerchiamo di piegare la volontà di Dio ai nostri bisogni, desideri (a volte anche capricci). Un modo di pensare, questo, che è spesso presente nella vita di tanti fedeli cristiani, i quali finiscono per confermare o meno la propria fede a seconda che Dio si lasci “piegare” o no alle proprie richieste.

In realtà il modo cristiano di pregare, che ci deriva direttamente dal vangelo, è un altro. “Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate” (Mt 6,7-8). La preghiera cristiana non serve a “strappare” a Dio un’attenzione benevola verso di noi, perché Lui già sa ciò che ci serve davvero e ce lo sta già offrendo. Non è distratto, non va “convinto” ad un atto di clemenza.

La preghiera cristiana non serve a cambiare il cuore di Dio verso di noi, ma a cambiare il nostro cuore verso di lui: “non angustiatevi di nulla, ma in ogni cosa fate conoscere le vostre richieste a Dio (…). E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù” (Fil 4,6-7). Per il semplice fatto di metterci in contatto con Lui, la sua pace ci “custodisce”, cioè cambia il nostro modo di vedere il motivo per cui preghiamo.

Questo perché la preghiera cristiana è il respiro della relazione con Dio, la comunicazione attiva e costante con lui, derivata dal fatto che il nostro cuore è stato afferrato da Lui. Perciò è una dinamica contraria a chi pensa che Dio debba farsi afferrare dai nostri bisogni. Infatti, la preghiera cristiana primaria non è la richiesta, ma il semplice stare alla sua presenza, avvertendone l’amore, senza dire nulla e senza fare nulla.

Dentro a questo atteggiamento di fondo prendono senso le cinque forme della preghiera cristiana: la lode, il ringraziamento, la domanda, l’intercessione, il pentimento.

Se abbiamo fatto esperienza effettiva dello stare alla sua presenza, percependo il suo amore, la lode sorge spontanea come quando siamo innamorati di una persona e siamo spinti a mostragli quanto amore sentiamo da lui/lei e così ringraziarla diventa la sua naturale conseguenza.

Se abbiamo fatto esperienza effettiva dello stare alla sua presenza, percependo il suo amore la domanda, per sé o per altri (intercessione), diventa anch’essa spontanea, ma senza avvertire la necessità di una risposta positiva, pena la rottura della relazione.

Se abbiamo fatto esperienza effettiva dello stare alla sua presenza, percependo il suo amore, il pentimento diventa un irrefrenabile bisogno di chiedere scusa per non essere stati all’altezza del suo infinito amore, ma con la certezza nel cuore di essere perdonati.

Se questa esperienza non c’è stata, invece, la preghiera diventa davvero un tentativo di “rabbonire” Dio. E così i riti, anche comunitari, della preghiera rischiano di essere vissuti come “i pagani” del vangelo, che “credono di venire ascoltati a forza di parole”. Di per sé dire cinque rosari, invece di uno solo, o tre Ave Maria, invece di un semplice saluto a Lei, non cambia per nulla né il nostro cuore, né quello di Dio.

Perché dire le preghiere non è un atto magico, ma un atto di fede: ha un’efficacia per noi se crediamo che Dio ci ama davvero, avendolo sperimentato. Non serve, quindi, aumentare il numero delle preghiere, ma fare contatto dentro di noi con la percezione del suo amore. E ciò non necessariamente passa dalla recita delle formule di preghiera.