Padre Nostro
A cura di Don Bruno Maggioni
Estratto da “Padre Nostro” Editrice Vita e Pensiero 1998


L’uomo è debitore per essenza.
La domanda del perdono
è perciò il modo giusto di stare davanti a Dio,
nella preghiera come nella vita quotidiana.

La domanda “rimetti a noi i nostri debiti” suppone che in noi sia vivo il senso della colpa. Qualora mancasse, la domanda del Padre Nostro perderebbe la sua verità: uno stereotipo, una parola rituale, non più una vera domanda. Purtroppo non si tratta di una consapevolezza scontata, perché il problema non è di riconoscere semplicemente i propri limiti o i propri sbagli, ma di avere la chiara percezione delle proprie colpe morali, responsabili, liberamente commessi: azioni che offendono Dio, non solo se stessi o gli altri. Questa percezione “teologica” delle proprie azioni è già dono di Dio. E difatti è quando sente i passi e la voce del Signore che Adamo prende coscienza della sua disobbedienza; è quando è raggiunto dalla parola dei profeta che Davide avverte la gravità del proprio peccato. La Scrittura è convinta che non si misura rettamente il proprio debito, se ci si confronta con se stessi o con gli altri: occorre confrontarsi con la Parola di Dio. Può succedere di essere ciechi al punto da non più vedere le proprie colpe, come già accadeva ad alcuni della comunità di Giovanni (1 Gv 1,8). E c’è persino chi vede le responsabilità degli altri e non le proprie.

Confrontandosi con la Parola di Dio si avverte che il debito – anzi i debiti, al plurale – non è soltanto questione di precise trasgressioni della legge, che pure ci sono: e le molte omissioni? Il padrone della parabola dei talenti esige più di quanto ha dato: condanna il servo perché pigro e dimissionario, non perché particolarmente cattivo: non ha sperperato, semplicemente non ha trafficato. E ad essere tagliato e bruciato è l’albero che non porta frutto (Le 13,6-9). Bastano queste poche annotazioni per dirci che la domanda del Padre Nostro mette in questione l’uomo nella sua interezza. In questione è lo slancio in avanti, verso Dio («con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze»), non soltanto il male che si fa.

La versione di Matteo non parla direttamente di peccati, ma di debiti, una metafora che ricorre con frequenza nel parlare di Gesù, anche se non sempre vi si trova la parola precisa: per esempio nella parabola del creditore senza pietà (Mt 18,23ss), dell’amministratore astuto (Le 16,1-8), dei talenti (Mt 25,14-30), dei due debitori (Le 7,41ss), dell’uomo trascinato in tribunale (Le 12,51ss) al quale conviene accordarsi lungo la strada per non essere gettato in prigione. Il fatto che l’immagine del debito ritorni con frequenza nel parlare di Gesù suggerisce che per Lui essa si prestava bene a ritrarre la situazione dell’uomo: davanti a Dio, ma anche di fronte agli altri. L’uomo è per essenza debitore: di fronte a Dio, dal quale ha tutto ricevuto, senza aver nulla in cambio da ridare. E di fronte agli altri: quante sono le cose ricevute (a incominciare dalla propria esistenza!), che non si possono restituire?

Il vocabolo opheilema dice l’obbligo che sorge di fronte a qualcosa che si è ricevuto. Penso che è su questo ricevuto che debba concentrarsi la nostra attenzione. Non immaginiamo un Dio che vuole di ritorno qualcosa per sé, bensì un Dio che vuole si capisca che ciò che si possiede è ricevuto, dono, e dunque qualcosa per cui ringraziare e, soprattutto, qualcosa da non trattenere egoisticamente per se stessi.

E’ per questo che il servo della parabola, che si è visto condonare un debito immenso, avrebbe dovuto, a sua volta, condonare un piccolo debito al suo compagno di lavoro (Mt 18).

A questo punto la metafora del debito – che sin qui si è rivelata molto utile – non basta più. E’ in gioco qualcosa di diverso dalla semplice cancellazione di un debito materiale. Se si esce dalla metafora – che è commerciale e giuridica – per coglierne il significato reale, si comprende che qui si tratta di un debito che è un’offesa. Non tocca i beni del creditore, ma la persona. Il “peccato” è il rifiuto di un dono, non semplicemente l’insolvenza di un debito.

Si diceva che l’uomo è debitore per essenza. La domanda del perdono è perciò il modo giusto di stare davanti a Dio, nella preghiera come nella vita. E’ l’atteggiamento assunto dal pubblicano: «O Dio, abbi pietà di me» (Le 18,13). Enumerare puntigliosamente le proprie opere, come ha fatto il fariseo, non serve: non si raggiungerà mai, in ogni caso, la parità fra il ricevere e il restituire, e il debito rimane. L’unica soluzione aperta all’uomo è la domanda del perdono. Se il mondo regge è perché Dio lo perdona sempre. Racconta un’antica storia ebraica che Dio, dopo aver creato il mondo, non riusciva a farlo stare in piedi: lo metteva dritto e cadeva, lo metteva dritto e cadeva. Allora Dio creò il perdono e glielo pose accanto, e il mondo stette in piedi. Anche la domanda del perdono è formulata alla prima persona plurale: rimetti a noi i nostri debiti. Perché al plurale? Probabilmente per più motivi. Il soggetto primario della preghiera è la comunità: il Padre Nostro è una preghiera corale. E’ anche vero, inoltre, che ci sono colpe comunitarie, collettive, non solo individuali. Tuttavia non è questa la direzione principale della domanda: in tal caso sarebbe stato preferibile dire il “nostro peccato”, anziché i “nostri peccati». Il peccato collettivo non relega in secondo piano la responsabilità personale, come a volte sembra di avvertire quando si parla dei peccati della società, colpa di tutti e di nessuno.

Nel Padre Nostro è anzitutto in questione la mia e la tua responsabilità. Si dice nostri perché si tratta, appunto, dei miei e dei tuoi peccati. Ma il motivo principale del plurale è un altro, comune a tutte le richieste del Padre Nostro: si chiede perdono per sé e per tutti.

Anche la domanda del perdono è missionaria. Neppure qui il cristiano si isola. Chiedere perdono per gli altri è la preghiera che lo stesso Gesù sulla Croce ha rivolto al Padre (Le 23,34). La preghiera del perdono è di per sé la più umile delle preghiere, ma è anche la preghiera che più delle altre rischia di diventare retorica. Non così nel Padre Nostro, dove la domanda è sobria, schietta, oserei dire piena di dignità. Nessuna traccia di aggettivi o avverbi che dicano la nostra umiliazione, né si suggerisce di fare un qualche gesto penitenziale, come battersi il petto e simili. Al Padre Nostro basta un semplice verbo all’imperativo: «rimetti». Ovviamente l’imperativo non dice qui la pretesa, certo però la confidenza, e soprattutto l’urgenza: quando il bisogno è impellente non c’è spazio per inutili parole, si domanda e basta. Sobrietà ammirevole e ricca, tanto ricca da farci capire – come dimenticarlo? – che siamo “figli” anche se peccatori, e che il perdono lo stiamo chiedendo a un Padre, non a un padrone.

Quale che sia il significato del “come”,
il perdono ai fratelli è di assoluta importanza
e si collega con quello di Dio
in senso stretto e necessario.

La quinta domanda del Padre Nostro non si limita a chiedere il perdono di Dio, ma allarga il discorso aggiungendo: «Come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Il perdono di Dio e il nostro perdono ai fratelli sono dunque legati da un “come”. Certamente questo “come” non significa che il nostro perdono costituisca la ragione, la misura e il modello del perdono di Dio. Sarebbe un modo capovolto di guardare Dio! Il suo perdono precede sempre il nostro, incondizionato, gratuito e senza misura.

Tuttavia il “come” pone fra i due perdoni un legame stretto e decisivo. Lo ribadiscono diversi testi evangelici. Per esempio Matteo in una sorta di breve commento allo stesso Padre Nostro. Fra tutte le frasi che poteva scegliere da commentare, ha scelto proprio la nostra: «se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (6,14-15).

Lo stesso concetto ritorna anche più avanti, sia pure con parole diverse: «Col giudizio col quale giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati» (7,2).

Lo stesso pensiero, infine, riappare in un’affermazione di Marco (11,25), che sembra un’eco del Padre Nostro: «Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, lo perdonate, perché il Padre vostro che è nei cieli perdona a voi i vostri peccati».

A questo punto si può già trarre una prima conclusione. Comunque si intenda il significato preciso di quel “come”, resta fermo che il perdono ai fratelli è di assoluta importanza. Il legame col perdono di Dio è stretto, addirittura in un certo senso necessario. Anche il perdono dato, e non solo il perdono ricevuto, è decisivo.

Ma che cosa significa rimettere i debiti? E quali debiti? La formulazione del Padre Nostro è negativa, ma il suo contenuto non può che essere positivo. E’ sempre il Vangelo che lo dimostra. In un passo in cui si parla del perdono, Matteo (5,44) dice di amare i nemici e di pregare per loro. Il verbo amare non può che avere il contenuto pieno dell’amore. E’ dunque partecipazione, solidarietà, preoccupazione, aiuto. E’ molto più del semplice perdonare.

E anche il verbo pregare suggerisce un atteggiamento positivo: pregare significa desiderare il bene del proprio nemico. Matteo non parla di nemici, ma di “persecutori”, termine che generalmente indica il nemico della comunità, dei cristiani come tali, non semplicemente il nemico personale. E il plurale (amate, pregate) sembra voler dire che l’intera comunità è invitata a perdonare, non soltanto i singoli. E si conclude, infine, sottolineando che il perdono è necessario, se si vuole essere figli di quel Dio che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi.

In un passo che si può dire parallelo, Luca (6,27.33-35) non parla solo di amare e pregare, ma aggiunge «far del bene» e «benedire». La positività del rimettere i debiti è qui ancora più chiara. E poi Luca non parla del nemico come persecutore, ma come colui che maledice, odia, maltratta. Si tratta dunque di una figura di nemico più generale, e anche più quotidiana.

Il Padre nostro non precisa di che si tratta: dice semplicemente «i nostri debitori». E nemmeno precisa quali debiti. Ma proprio questa non precisione dice l’ampiezza e l’universalità del perdono: si tratta di rimettere qualsiasi torto, qualsiasi danno ricevuto, chiunque l’abbia fatto. Abbiamo lasciato in sospeso il tentativo di precisare ulteriormente il significato di quel “come”, che pone un legame stretto tra il perdono di Dio e il nostro. Un passo evangelico, che sembra fatto apposta per aiutarci, è la parabola che si legge in Mt 18,21-35. E’ una narrazione a tre quadri.

Nel primo si racconta che un servo aveva un debito immenso, del tutto inverosimile tanto è grande. Avendo supplicato un rinvio del pagamento, il padrone gli condona l’intero debito. Il gesto del padrone va oltre la domanda del servo. La risposta di Dio è sempre oltre la misura della domanda, oltre le aspettative e le speranze, oltre il giusto. Nulla viene detto sulle qualità del servo, se buono e fedele, se abile nel lavoro, se ha reso grandi servizi. Si dice soltanto che ha «supplicato». A spingere il padrone a rimettere il debito, dunque, sono state la sua grandezza d’animo e la sua compassione, non i meriti del servo. Il secondo quadro ci riporta nel mondo degli uomini. La relazione non è più fra il servo e il padrone, tra l’uomo e Dio, ma fra uomo e uomo. Qui la scena è inaspettata: il servo perdonato incontra un collega che gli deve pochi denari, viene a sua volta supplicato, ma non si muove a compassione, esige il pagamento del debito fino all’ultimo. Come è possibile, dopo un tale condono ricevuto, non essere capace, a propria volta, di una piccolissima remissione? Chiunque si sarebbe aspettato che il servo -sopraffatto dalla gioia e dalla gratitudine – avesse ritenuto normale perdonare a sua volta un piccolo debito. Ma il servo non ha compreso la fortuna che gli è capitata. Il perdono ricevuto non lo ha rigenerato, né rincontro con la gratuità di Dio gli ha allargato lo spirito. Non ha capito che accettare di essere perdonati significa entrare in un circolo nuovo di rapporti, nel quale i criteri dello stretto dovuto diventano inadeguati.

Se ci si ricorda di essere stati perdonati, non si può più essere i difensori della rigida giustizia, al punto da volerla imporre anche a Dio. Chi si fa difensore della rigida giustizia, non è più un annunciatore del volto nuovo e sorprendente del Dio di Gesù, ma l’annunciatore ripetitivo di una figura ovvia di Dio, rigida, triste, troppo simile a come gli uomini se la immaginano per avere la forza di stupirli.

Nel terzo quadro tutto sembra capovolgersi. Il servo prima perdonato, ora non lo è più. Certo resta fermo che il perdono di Dio precede, del tutto gratuito e senza misura. Su questo la parabola è chiara: il perdono fraterno è la conseguenza del perdono di Dio, che ne costituisce la motivazione e la misura («come io ho avuto compassione di te»). Tuttavia il perdono generoso di Dio non può confondersi con l’indifferenza.

Che l’uomo estenda il perdono ricevuto o lo tenga per sé, agli occhi di Dio non può essere la stessa cosa. Il perdono fraterno va preso sul serio. Non è la ragione del perdono di Dio, però è il luogo della sua verità. Se non dai il perdono, significa che non hai compreso il perdono ricevuto. E’ come se il perdono di Dio dentro di te svanisse. Il perdono al fratello non è la condizione perché Dio, a sua volta, ci perdoni. E’ però la prova che il perdono di Dio l’abbiamo veramente ricevuto, accolto, e che veramente ci ha trasformato.