Non parliamo di una accoglienza fatta per assolvere un dovere o per scaricarci la coscienza

di Gilberto Borghi
21 Giugno 2025
Per gentile concessione di
http://www.vinonuovo.it
Accoglienza
La composizione originale di questa parola è: ad-cum-ligere. “Ad” indica l’atteggiamento della persona che è “disponibile” all’azione espressa dal resto della parola. “Cum” è l’italiano “con”, cioè stare assieme, unità. “Ligere” indica l’azione di stringere in un fascio, raccogliere qualcosa che si trova diffuso o disperso e riunirlo in modo ordinato. Alla lettera, perciò, accogliere indica la disponibilità a ricongiungere assieme in modo ordinato ciò che ci arriva dalla realtà, che ci viene incontro, in una unità con noi stessi tale da produrre il senso di quella realtà dentro di noi.
Nel giubileo, questa parola assume due significati importanti. Il primo è legato al nostro rapporto con Dio. In questo tempo possiamo ricordarci che l’amore infinito e perdonante di Dio ci arriva, ci viene incontro come un regalo non cercato, un regalo che ci precede. Di fronte a questo noi possiamo essere aperti (“ad”) a ricongiungere assieme (“cum”) noi e quell’amore regalato, in modo da ritrovare un senso alla nostra vita (“ligare”), intesa come regalo di Dio.
Possiamo smettere di vivere Dio come uno dei tanti appoggi esistenziali per stare in piedi e lasciarci innamorare di lui, tanto da renderlo la nostra “casa”, il luogo in cui abitiamo esistenzialmente. Perciò il primo atteggiamento del giubileo non è fare qualcosa noi per acquisire più valore, anche agli occhi di Dio, ma disporsi ad accogliere la vita e l’amore da Lui come un regalo inatteso, riconoscendo che siamo già amati, perché siamo vivi, perché abbiamo fede, perché cerchiamo di amare: “Come il Padre ha amato me, anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore” (Gv 15,9).
Il secondo significato consiste nel tradurre questo amore accolto in amore accogliente. Già per gli Ebrei il giubileo si realizzava, ancora prima che nella penitenza, digiuno e preghiera, nell’accoglienza del povero e del forestiero: “Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: […] dividere il tuo pane con l’affamato, introdurre in casa i miseri, senza tetto, vestire uno che vedi nudo senza trascurare i tuoi parenti?” (Is 58, 6-7).
Per chi crede in Cristo questo vale a maggior ragione: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). Ma anche qui, non parliamo di una accoglienza fatta per assolvere un dovere o per scaricarci la coscienza. Accoglienza non è sinonimo di sopportazione e sacrificio; è, invece, disponibilità (“ad”) a riunire assieme a noi (“cum”) le persone e le realtà che ci incontrano, cercando di ritrovare un senso della nostra vita con loro (“ligare”), tanto da poter costruire “casa” assieme. “Misericordia voglio e non sacrificio” (Mt 9, 13)