di Gilberto  Borghi
Per gentile concessione di
http://www.vinonuovo.it

La classica espressione “portare pazienza” descrive, nel linguaggio quotidiano, la condizione di chi si trova a dover “sperimentare” qualcosa o qualcuno che gli produce insoddisfazione, fatica, dolore, e trattiene la propria reazione istintiva di difesa (quasi sempre la rabbia), non esprimendola, in nome di un bene più grande, nella speranza che in futuro questa condizione si risolverà.

Nella spiritualità cristiana, parliamo di “santa pazienza”, in cui quattro poli essenziali della pazienza cristiana prendono una coloritura ben chiara e soprattutto un limite ben preciso, rendendola una virtù buona e importantissima.

Primo: la sofferenza che si sperimenta viene percepita come una condizione che sottrare vita e amore e che quindi va, in qualche modo, superata. Secondo: la rabbia difensiva viene trattenuta solo ed esclusivamente se davvero siamo attirati dal bene più grande da rispettare. Terzo: il bene più grande da rispettare è sempre e solo la bellezza di Gesù Cristo e del suo modo di vivere. Quarto: la speranza futura di una soluzione è che già ora si intravvede un modo di diverso di fronteggiare quella sofferenza, potendola attraversare con minore peso.

Difficilmente, però, si incontrano credenti che sono in grado di vivere questi quattro poli della pazienza in questo modo chiaro.

In un estremo, fortunatamente sempre meno diffuso, ma ancora presente, trovo credenti che ritengono che quella sofferenza sia di per sé buona e che non debba essere superata, ma mantenuta, perché portatrice di salvezza. Ho già mostrato qui, parlando della sofferenza, come questo sia una specie di masochismo cristiano che davvero rende molto difficile lo sviluppo umano, portando verso una durezza del cuore e una “acidità” delle relazioni, ma anche impedendo una fede sana e umana, come il vangelo vuole (Gv 10,10).

Più diffuso è invece la condizione di quei credenti che non esprimono la loro rabbia non perché vogliono rispettare la bellezza di Cristo, ma perché pensano che la rabbia sia di per sé anticristiana, finendo per buttare addosso a sé stessi quella stessa energia rabbiosa, con pessime conseguenze a vari livelli. Sappiamo bene, invece, come Cristo stesso si desse il permesso di esprimerla e viverla, anche in forme socialmente poco accettabili, quando doveva essere rispettato un bene più grande (Gv 2,15).

Ancora più diffuso, forse, è l’atteggiamento di credenti che non hanno mai percepito a sufficienza la bellezza di Cristo e della sua vita piena e armonica, e individuano il bene superiore con cui giustificare la propria pazienza nel mantenimento di dinamiche di relazione “disumane”, da cui non riescono ad uscire: la moglie picchiata dal marito, il mobbing sul lavoro, il bullismo nel gruppo dei pari… accettando così di subire violenza e di sfigurare il vangelo. L’amore per i nemici (Mt 5,44) non si giustifica in questo modo, ma avendo fatto davvero propria la dinamica descritta da Paolo: “Nessun debito con nessuno, se non quello di un amore gratuito e reciproco” (Rm 13,8), che produce la liberazione da tutte le relazioni tossiche.

Infine, sulla speranza futura di una soluzione, moltissimi credenti oggi fanno estrema fatica a intravvederla in termini possibili già qui, perché per fronteggiare diversamente la sofferenza bisogna davvero compiere un percorso di crescita spirituale che richiede tempo e soprattutto l’esperienza di essersi lasciati afferrare dall’amore di Cristo. Così accade che la maggioranza mette in moto strategie compensatorie o di distrazione di quel dolore, che sono una uscita di lato dalla pazienza, e spesso anche dalla fede, oppure rimanda all’aldilà del Regno di Dio l’unica soluzione possibile di quella sofferenza. Due modi che spingono verso l’indurimento del cuore e l’impossibilità di percepire il richiamo autentico del vangelo (Mt 13,4).

Vivere la pazienza in modo evangelico non è facile, ma ciò si costruisce mettendo al centro della nostra vita spirituale la relazione di amore con Cristo vivo e risorto. Il resto è conseguenza.