Le contraddizioni attorno al principio del bene comune restano molteplici, soprattutto se pensato in relazione a Dio, agli altri e al creato…

di Sara Giorgini
14 Luglio 2025
Per gentile concessione di
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Il cristianesimo pone al centro di ogni sua riflessione la centralità della persona, l’intrinseca sacralità della vita e la sua inviolabile dignità.
Subito dopo aver delucidato questa premessa antropologica, la dottrina sociale della Chiesa ricorda uno dei principi cardini che la costituiscono: il bene comune. La costituzione Gaudium et Spes lo definisce con la seguente espressione: «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente» [§16].
Le contraddizioni attorno a questo principio tuttavia sono molteplici. Come valutare fattualmente il bene comune? Quali gli interessi in gioco e come armonizzarli affinché ogni essere umano lo possa conseguire? E ancora: il bene comune si declina in base al sacro, o in base alla vocazione del singolo essere umano e al suo progetto di vita davanti a Dio e agli altri?
Lo stesso concetto tiene assieme i tre assi fondamentali in cui si snodano le principali relazioni dell’essere umano: quello verticale (con Dio), orizzontale (con gli esseri umani) e circolare (col creato). La sua stessa categorizzazione ci fa capire come non esiste una preminenza di interessi da parte di alcune persone su altre, ma ognuna deve essere rispettata e valorizzata nel raggiungimento del suo progetto creaturale, che essendo indirizzato al Bene, si presume retto.
Tuttavia, molto spesso, la sua applicazione nella compagine ecclesiale subisce delle storture, forse a causa di un retaggio storico che ne offusca il senso, dove la categoria del sacro e del religioso oscura la varietà e la ricchezza della spiritualità laicale.
Così non è raro vedere persone adulte pienamente assorbite negli impegni ecclesiali che non saltuariamente trascurano quelli familiari e professionali; ragazzi e ragazze non più tali che anziché impegnarsi per portare a compimento la propria opzione vitale si fermano a forme di infantilismo, sono onnipresenti in parrocchia e fanno tutto ciò che dice il prete, trascurando così il proprio impegno nel mondo professionale, accademico e affettivo e credendo che questo sia sinonimo di santità (ma a volte questo modus operandi non è una “separazione dal mondo per il Regno”, quanto una fuga perché non si riesce a trovare il proprio spazio nel mondo). Più comuni purtroppo sono le forme di assenteismo laicale, in cui si accusa la Chiesa istituzione, senza pensare che la Chiesa è la comunità di tutti i battezzati, e che dunque ognuno è chiamato a fare la sua parte. Ancora, si vedono laici stravolti da forme di protagonismo, che anziché abitare spazi di servizio ricercano locus di potere. Altre volte si nota il rovescio della medaglia, con ministri del culto dediti al sociale tanto da sfumare la distinzione tra filantropia e sacramentalità. Sacerdoti e religiosi che inseriscono i laici nei compiti ecclesiali in un riassestamento dei ruoli dove tutto sembra in fermento di cambiamento (fortunatamente), ma quali sono i limiti di questa nuova scacchiera di ruoli sociali, e quali sono gli equilibri da rispettare?
L’appello è la ricerca di un equilibrio che dovrebbe dare a ciascuno “il suo”, facendo fiorire la propria singolarità e non “ostacolarla”. Il teologo James Keenan sostiene che l’impegno morale di una persona andrebbe diversificato in base alle varie relazioni che la strutturano, in quanto il perseguimento dei valori e il conseguimento delle virtù segue distinti piani: uno generale caratterizzato dalla prudenza dell’agire, uno specifico caratterizzato dalla fedeltà verso le persone con cui si hanno delle specifiche responsabilità (rapporti genitoriali, filiali, fraterni, sororali, amicali e professionali) e un piano personale di rispetto verso sé stessi.
La logica del corpo mistico e delle diverse membra ricorda che non ci sono parti preminenti ad altre, ma tutto è funzionale al corpo. La bellezza del corpo ecclesiale è scoprire l’armonia di questo funzionamento, affinché nella complessità e nella molteplicità degli ingranaggi emerga il motore che li fa muovere, senza perdere la bellezza e la singolarità di ciascuno.