di Alberto Caccaro
30 Giugno 2025
Per gentile concessione di
http://www.vinonuovo.it

C’è un gesto che dovrebbe essere collocato all’inizio e alla fine di tutto. All’inizio e alla fine dei nostri impegni quotidiani, la mattina prima di radersi e uscire di casa e poi la sera dopo essere rientrati, aver cenato e sbrigato il bucato. O all’inizio e alla fine delle nostre giornate di lavoro ma anche delle nostre vacanze, quando diciamo “quest’anno ho fatto la Tanzania e l’anno scorso la Thailandia”. All’inizio e alla fine dei nostri amori, quelli di sempre e quelli con l’ultimo/a collega. All’inizio e alla fine dei nostri sogni. E poi ancora, all’inizio e alla fine dei nostri progetti educativi e delle nostre tavole rotonde sulla crisi dei giovani che non mettono al mondo figli e di figli che, messi al mondo, finiscono con l’uccidere le proprie madri, intrappolati nel loro godimento e incapaci – per quanto già adulti – di mollare la poppata.

Il gesto a cui alludo, da compiersi all’inizio e alla fine di tutto, è semplice: inginocchiarsi. Non comunque e dovunque, ma solo di fronte a chi si è rivelato affidabile nella vita e nella morte, perché le ha patite entrambe e perciò ne ha esaltato il valore e il sapore. Mi inginocchio dunque di fronte a mia madre e a mio padre perché nella penuria del loro analfabetismo emotivo – ora tanto demonizzato e che crea non pochi sensi di colpa – mi hanno piuttosto insegnato l’ABC dell’amore fedele e casto. C’è oggi una stucchevole retorica attorno agli affetti, agli alfabeti e alle grammatiche emotive, tra tavole rotonde e festival d’ogni tipo, occasioni tutte buone per le nostre vite intricate. Eppure, le guerre dilagano dentro e fuori di noi e la notizia dei bambini che muoiono a Gaza scorre tra le altre, presi come siamo dalle nostre paure e solitudini, ludopatie e liposuzioni e dalle smorfie di Trump che tanto piacciano all’industria bellica statunitense. In cuor mio invece spero sempre che da qualche parte, tra cortili e clausure, nelle pieghe e nelle piaghe della storia, vi sia ancora una donna – o un uomo – che continua a vivere quel gesto. Inginocchiarsi.

Mi sono imbattuto nella semplicità e nella solennità di una donna così, che sa ancora inginocchiarsi. Non davanti a un gratta e (magari) vinci o a una slot. Non davanti a una squadra di calcio o a un qualsiasi gadget a punti, ma davanti al Mistero e al Destino. Qualche giorno fa ho visitato una famiglia: la moglie, Khoeun, il marito e il loro figlio di sei anni, nei loro 15 metri quadrati di casa. Si sono sposati tardi e poi sono approdati a Phnom Penh in cerca di condizioni migliori. In città lui si ammala, cancro all’intestino. Operato per tre volte di fila a tempo ravvicinato, dopo l’ultimo intervento chirurgico, i medici fanno sapere alla moglie che difficilmente suo marito potrà superare lo shock della terza anestesia. «Padre Alberto, mi sono trovata in ospedale da sola, accanto a mio marito sedato. Proprio in quell’istante, dopo l’infausta parola dei medici, mi sono inginocchiata come mai avevo fatto prima, e ho pregato, impetrato la grazia del suo risveglio e così è stato». «Devono avermi visto, i medici, io inginocchiata quando prima mai avrei potuto fare qualcosa di simile, tanto meno in un luogo pubblico». «Eppure – mi racconta citando senza saperlo e quasi per intero Etty Hillesum – “m’è venuto spontaneo d’inginocchiarmi […] e le lacrime mi scorrevano sul volto”[1], ma – padre Alberto – solo perché ho pregato così, in ginocchio, quella preghiera mi ha dato la forza per accogliere tutto il resto».

Da quel momento in avanti – siamo alla fine di novembre 2024 – è tornata ad inginocchiarsi altre volte, nel momento del bisogno. Il bilancio famigliare non basta a coprire le spese mediche. Il marito ora vive con quella che in gergo si chiama “deviazione”. L’intestino è compromesso, il tumore avanza e necessita di cure ad ogni istante. L’indomani della mia visita sarebbero tornati in ospedale perché da alcuni giorni qualcosa alla gola impedisce al marito di deglutire. «Non importa padre Alberto, se ho delle difficoltà m’inginocchio, ormai mi viene spontaneo e chiedo a Dio che cosa fare». In diverse occasioni – racconta – «quando ci mancava il denaro, è bastato pregare con fede, ma sempre in ginocchio, e qualcuno, poco dopo, è arrivato con il necessario». «Mi è successo così spesso che ora non dubito più dell’aiuto di Dio anche se so che per quella malattia non c’è guarigione». «Quello che mi resta allora è inginocchiarmi davanti a Dio e a mio marito malato perché è ciò che ora voglio e che devo fare, il resto verrà».

Da parte mia, in ascolto di sì tanta spontanea e semplice fede, la sera sono tornato alle pagine di Etty in cui racconta di aver re-imparato a inginocchiarsi dopo anni di presunzione e autosufficienza. Spesso, nel Diario, si definisce come «la ragazza che non sapeva inginocchiarsi». Ho quindi tradotto in cambogiano alcune espressioni prese dal Diario perché anche Khoeun le leggesse e sentisse la sua vicenda simile a quella di un’altra donna, d’un’altra epoca, spinta dallo stesso anelito. Scrive Etty che «l’unico atto degno […] di questi tempi è quello d’inginocchiarci davanti a Dio».[2] Sono sicuro, questo gesto ci risparmierebbe molte guerre e salverebbe molte vite. Incalza ancora Etty: «Adesso so di nuovo che posizione prendere. Se solo si potesse far capire alla gente che si può ‘lavorare’ alla propria pace interiore, e continuare a essere produttivi e fiduciosi dentro di noi malgrado le paure e le voci che circolano. Che possiamo costringerci a inginocchiarci nell’angolo più remoto e tranquillo del nostro essere, e rimanerci fintanto che su di noi non si stenda nient’altro che un purissimo cielo».[3]

È quello che ho trovato al capezzale di quell’uomo: sua moglie, come un cielo purissimo.

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[1] E. HILLESUM, Diario 1941-1943, Milano 1996, p. 179.
[2] Ibid., p. 182.
[3] Ibid., pp. 221-222.