di Gilberto  Borghi
7 Giugno 2025
Per gentile concessione di
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Di per sé indica che il cuore, cioè la coscienza di una persona, viene colpita e non resta indifferente davanti al dolore, alla sofferenza, al disagio, alla povertà, alla disperazione di qualcuno. Ciò significa che questa reazione interiore non è avvertita solo sul piano razionale, ma che si dà soprattutto in termini emotivi: il nostro stato interiore ordinario viene modificato dalla percezione del dolore altrui e noi, in qualche modo finiamo per avvertire, anche se in modo parziale e riflesso, lo stesso dolore dell’altro.

Ma questa è solo la prima parte del movimento della misericordia, tanto che oggi preferiamo chiamarla “empatia”. Ed in effetti si tratta di una condizione naturale che tutti possono attivare, perché fa parte di quelle reazioni generate dai cosiddetti neuroni specchio. Perciò, fino qui, parliamo di una percezione istintiva.

La misericordia vera e propria inizia quando questa percezione viene “vista” sufficientemente dalla nostra coscienza, tanto da farci attivare per andare in soccorso dell’altro bisognoso. E questo invece non è un dato istintivo, perché, in realtà sappiamo che possono esserci mille altre considerazioni interiori che ci fanno “occultare” quel dolore e non ci fanno muovere. Ovviamente, se questo tipo di occultamento diventa abituale dentro di noi, la “percezione” istintiva del dolore altrui si affievolisce e si genera quello che nella spiritualità cattolica si chiama “cuore indurito”, dove non avvertiamo nemmeno più l’empatia istintiva.

Cosa rende possibile che quella percezione istintiva diventi, invece, decisione libera e consapevole di soccorso a chi è nel dolore? Una corretta analisi della spiritualità ci indica che la misericordia si genera quando la nostra personale esperienza di essere stati nel dolore è stata “vista” e soccorsa da qualcun altro, o Altro, che si è piegato su di noi e ci fatto percepire che il nostro valore umano non veniva messo in discussione da quella esperienza di dolore. E questo sentirsi amati ci ha permesso di attraversare quel dolore e di sviluppare, a nostra volta, la possibilità di essere noi misericordiosi.

Bisogna ammettere che questa esperienza non è di tutti, anzi, l’impressione è che, purtroppo, non siano tante le persone che si sono sentite amate in quella condizione. E forse questo spiega come mai abbiamo l’impressione che la misericordia sia cosa rara oggi.

Nei credenti in Cristo però sono cresciute due strane reazioni interiori, entrambe nate quando la loro esperienza umana e di fede non è stata in grado di farli sentire amati nel dolore.

La prima è di coloro che hanno imparato che il cristiano “deve” essere misericordioso e si sforzano di avere atteggiamenti e comportamenti misericordiosi, quando il loro cuore, in realtà, non lo è. E questo genera il “buonismo” cattolico, che è la controfigura peggiore della misericordia e forse contribuisce al discredito sociale della vera misericordia, generando un diffuso senso di “cattivismo”, spesso sdoganato come cosa buona.

La seconda appartiene a chi, invece, si muove preda dello spontaneismo emozionale, appreso come unica strategia esistenziale per far fronte alla carenza di amore, che genera in loro una misericordia istintiva che non ha mai stabilità, nè limiti, diventando uno  strumento di compensazione per sè, più che un vero atteggiamento di amore per l’altro, lasciando credere che l’amore cristiano nasca e cresca da solo, senza coltivazione consapevole da parte dell’uomo.

Solo un’esperienza sana e profonda del percepirsi amati da Dio, anche attraverso l’amore di qualcuno, può permettere il recupero di una misericordia vera, sana e attiva, che moltissime persone hanno visto all’opera in papa Francesco, e che lo ha reso attraente anche fuori dalle “mura” cattoliche. Il giubileo può essere davvero un’occasione formidabile per provare a recuperare questa esperienza fondante dell’amore misericordioso di Dio e spingerci a percepire la bellezza di una misericordia autentica e non “dovuta” e non “istintiva”.