GENESI 12-50

CORSO BIBLICO SU GENESI 12-50
Ileana Mortari

XII – XIII – XIV settimane del Tempo Ordinario (Anno dispari)
Commento e indicazioni per la Lectio

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1° – ABRAMO

  • Le “tradizioni” di Genesi 12-50
  • Epoca storica dei Patriarchi
  • Vocazione di Abramo
  • L’alleanza tra Dio e Abramo
  • La fede di Abramo

2° – ABRAMO E LOT

  • Origini storiche di Israele
  • Genesi 13: separazione tra Abramo e Lot
  • Genesi 14 e la figura di Melchisedek
  • La vicenda di Sodoma e Gomorra

3° – ABRAMO E ISACCO

  • Genesi 18: annuncio della nascita di Isacco
  • Genesi 22: il sacrificio di Isacco; lettura ebraica e lettura cristiana
  • Morte di Abramo

4° – GIACOBBE ED ESAU’

  • Infanzia e giovinezza di Giacobbe ed Esaù
  • Significato della “benedizione” presso i Patriarchi
  • Genesi 28: il sogno di Giacobbe

5° -GIACOBBE E LE TRIBU’ DI ISRAELE

  • Matrimonio e discendenza di Giacobbe
  • Origine storica delle 12 tribù di Israele
  • Genesi 32: la lotta tra Giacobbe e l’angelo

6- GIACOBBE E BETEL

  • Genesi 35,1-15: da Sichem a Betel
  • Excursus sulla religione dei Patriarchi
  • Genesi 35,16-29: morte di Rachele e e di Isacco e nascita di Beniamino
  • Nota sulla longevità dei Patriarchi

7- GIUSEPPE IN EGITTO

  • Storia di Giuseppe in Israele e in Egitto
  • Giuseppe: personaggio storico?
  • Origine del racconto di Giuseppe
  • Giuseppe, esempio di uomo sapiente
  • I sogni di Giuseppe

8° – GIUSEPPE E LA SUA FAMIGLIA

  • Giuseppe e i suoi fratelli
  • La teologia della storia di Giuseppe
  • Morte di Giacobbe
  • Conclusione

4. °GIACOBBE ED ESAU’

Genesi 25,19-34: infanzia e giovinezza di Giacobbe ed Esaù

Isacco supplica il Signore per sua moglie Rebecca che era sterile, così come Abramo per Sara. Nascono due gemelli: il primo rosso e peloso, Esaù, i cui discendenti saranno chiamati Edomiti, da Edom (rosso); il secondo Giacobbe nasce tenendo in mano il calcagno del fratello; uno amava la caccia, era piuttosto selvatico e viveva nella steppa, l’altro era tranquillo, pascolava il gregge e conduceva una vita piuttosto sedentaria.

I due fratelli rappresentano due modi di vivere, due popolazioni, gli Edomiti e gli Israeliti, fra i quali c’erano molte difficoltà di intesa. Nel brano viene evidenziata la parzialità dei genitori: Isacco prediligeva Esaù e Rebecca preferiva Giacobbe.

Il diritto di primogenitura era molto importante a quei tempi: il primogenito diventava il capo della famiglia o della tribù, aveva una parte di eredità doppia rispetto a quella dei fratelli e i suoi fratelli dovevano sottomettersi a lui.

Giacobbe approfitta della debolezza di Esaù un giorno in cui questo moriva di fame, per acquistare il suo diritto di primogenito in cambio di un piatto di lenticchie. Esaù non si rende conto della gravità di questo fatto e giura di cedere la sua primogenitura. Pur avvenendo in modo poco corretto, si avvera la profezia “il maggiore servirà il più piccolo”.

Capitolo 27 – Significato della “benedizione” presso i Patriarchi

Giacobbe mette in pratica ciò che ha carpito al fratello con giuramento. La benedizione è legata al diritto di primogenitura. La madre lo aiuta a ingannare il padre che era diventato cieco. Ricevendo la benedizione, Giacobbe diventa il capo di suo fratello. Essere benedetti significava assicurarsi il successo. La benedizione del padre in punto di morte influiva sul destino e sul carattere di chi la riceveva ed era un mezzo per designare il successore in modo irrevocabile: la benedizione data era definitiva e non poteva essere revocata. Così le promesse di Dio (terra, discendenza, alleanza) passano da Isacco a Giacobbe. I limiti e gli sbagli degli uomini non ostacolano la realizzazione del piano di Dio. Nonostante questi modi poco onorevoli e scorretti, di frode e di inganno, si realizza ugualmente il piano di Dio e si compiono le promesse preannunciate a Rebecca.

È come se l’autore biblico avesse voluto mettere da parte il comportamento ambiguo e discutibile di Giacobbe per concentrarsi sul risultato: la benedizione di Giacobbe, il secondo figlio, il più debole, il più fragile. Anche tra Caino e Abele, Dio ha scelto il secondo, il più debole e il più umile…e spesso nella Bibbia si manifesta questa scelta di Dio: Davide che è l’ultimo dei suoi fratelli diventerà un grande re d’Israele e Maria di Nazareth, così umile e povera viene scelta per diventare la madre del figlio di Dio.

Tornando all’episodio di Giacobbe ed Esaù, notiamo come colui che lo descrive dimostri una grande arte di drammaturgo. Giacobbe in ebraico significa anche “ingannatore” e infatti inganna il fratello. La profezia di Isacco riguarda la sorte degli Edomiti, il popolo discendente da Esaù che verrà distrutto dagli Assiri. Gli Assiri poi deporteranno anche gli Israeliti.

La figura di Giacobbe viene ripresa varie volte sia nella Bibbia che negli scritti rabbinici per sottolineare che, nonostante gli errori umani, il piano di Dio si compie: è la volontà di Dio, non l’iniziativa umana che porta avanti il discorso della salvezza dell’alleanza e della realizzazione delle sue promesse; la scelta appartiene che non segue gli stessi criteri dell’uomo; noi non affideremmo mai dei compiti ad una persona che ha difetti e compie errori, ma Dio lo può fare perché è sempre lui che guida la storia e sa trasformare elementi negativi in senso positivo.

Anche Paolo nella sua lettera ai Romani (cap.9) sottolinea la somma libertà di scelta di Dio, proprio nei confronti dei due fratelli, Giacobbe ed Esaù: Giacobbe aveva delle colpe, ma Dio lo ha scelto. Ci sono altri due motivi a favore di Giacobbe: il fratello ha ceduto i suoi diritti di primogenitura e lui se li è presi perché l’altro non li ha voluti; Esaù non ha rispettato le leggi del clan, di prendersi una moglie all’interno del clan, mentre Giacobbe ha rispettato questa legge.

Giacobbe sembra un egoista, ma si è trovato davanti una vita piena di difficoltà (esilio, persecuzione da parte del fratello, privazioni, angustie, rifiuti…) e quindi si è reso conto di quanto abbia fatto soffrire il padre e il fratello.

Rebecca esorta Isacco a mandare Giacobbe da Labano, il fratello di lei, perché gli trovi una moglie e non faccia come Esaù che ha preso moglie tra gli Ittiti. Isacco acconsente e concede la sua benedizione a Giacobbe, prendendo atto che la volontà di Dio passa attraverso questo suo figlio.

Genesi 28: il sogno di Giacobbe

Giacobbe va a Bersabea e, fermandosi per la notte fa un sogno: una scala che poggia in terra e sale in cielo.

In questo brano ci sono due incongruenze: il Signore viene chiamato sia Elohim che Jahvè; inoltre: la pietra su cui ha dormito Giacobbe viene scelta come base del santuario di Dio: che viene eretto o che sarà eretto? L’autore ha redatto un testo che comprende due tradizioni, sia quella elohista che quella jahvista e questa redazione finale sembra essere stata composta nel periodo esilico, perché parla di un Giacobbe che è costretto a fuggire, che diventa esule per salvarsi, che lascia la sua patria.

Bersabea si trova a 20 chilometri a nord di Gerusalemme, ma Giacobbe va a Kazan che si trova a 1800 chilometri da Bersabea, la stessa distanza che c’è da Milano a Copenaghen o da Roma a Berlino. Pensiamo a questo viaggio fatto da Giacobbe, coi pericoli che c’erano allora e con la fatica di camminare perché allora si viaggiava a piedi. Raccontando come Dio intervenga nella vita di Giacobbe, esule ramingo fuggiasco, il popolo ebreo in esilio prendeva coraggio.

Riprendendo il brano del sogno di Giacobbe, dobbiamo subito toglierci subito dalla mente l’immagine di una scala a pioli, come la rappresentano spesso i pittori. Si tratta invece di una ziggurat, una costruzione a gradoni tipica dei popoli babilonesi, sulla cui sommità c’era il santuario dove si diceva che Dio scendesse nelle grandi feste: era un edificio con sette gradoni che fungeva da collegamento tra terra e cielo. Alla base c’era il recinto sacro del tempio e i sacerdoti salivano fino alla sommità, ricevevano la benedizione divina e la riportavano alla base al popolo: la visione di angeli che salgono e scendono corrisponde alla salita e alla discesa dei sacerdoti dalla ziggurat. Gli angeli preannunciano la venuta di Dio. Dio non abbandona mai l’uomo. Proprio quando si trova in situazioni difficili, Dio fa sentire la sua presenza e la sua protezione. (leggi “Il sogno di Giacobbe” libro scritto dal cardinal Martini)

Giacobbe ha perso tutte le sue sicurezze e le sue coordinate, ma Dio non lo abbandona e lo rimette in sesto. Chi capisce che la vita è molto più importante e più grande di tutti i nostri smarrimenti, che percepisce la provvidenza di Dio e sa riconoscere un fatto positivo in mezzo a tante situazioni negative è un essere religioso. La scala è un simbolo che evoca il rapporto religioso, la percezione della presenza di Dio nella vita degli uomini.

Dio conferma a Giacobbe le promesse già fatte a Isacco e ad Abramo. È una conferma inattesa, perché Giacobbe sembra non averla meritata col suo comportamento piuttosto negativo; nonostante questo, Dio manifesta a Giacobbe la sua volontà, anzi a lui promette una discendenza numerosa non quanto “le stelle del cielo”, ma quanto “la polvere della terra”. C’è qualcosa in più rispetto alle promesse fatte agli altri due patriarchi: questo conferma come Dio sappia cambiare la vita di un uomo e sappia trarre il positivo dal negativo, il bene dal male.

Innalzando la pietra a mo’ di stele e versandoci sopra dell’olio, viene dato a questo luogo il nome di Betel (casa di Dio) per ricordare quest’esperienza, questo incontro significativo tra Dio e Giacobbe. Nella storia di Israele, Betel è stato uno dei luoghi di culto più importanti per il popolo ebreo; dopo la divisione della Palestina, il santuario di Betel è stato il più importante del regno del nord, come il tempio di Gerusalemme lo è stato per il regno del sud. Il racconto tramandato dal clan di Giacobbe è servito a tenere alto il prestigio del santuario di Betel. Il voto che Giacobbe fa impegna più se stesso che Dio: serve a rafforzare la sua volontà di essere fedele e nello stesso tempo serve a chiedere dei segni che rinvigoriscano la sua fede ancora fragile. Il simbolo della “scala di Giacobbe” viene ripreso nel Nuovo Testamento quando si parla di Natanaele e Gesù è considerato il vero mediatore tra Dio e gli uomini, la vera scala su cui noi saliamo a Dio e Dio scende a noi.

5° GIACOBBE E LE TRIBU’ DI ISRAELE

Genesi 29: matrimonio e discendenza di Giacobbe

Dopo il sogno Giacobbe riprende il cammino e arriva presso un pozzo dove ci sono tre greggi di bestiame. Egli non si rende conto, ma è arrivato nel territorio di zio Labano, il fratello di sua madre Rebecca. Questa era la terra dove suo padre Isacco aveva preso in moglie Rebecca e dove anche Giacobbe è stato mandato per cercare moglie. Sta arrivando Rachele, la secondogenita di Labano, che sta pascolando le pecore, mentre la primogenita Lia si occupava delle faccende domestiche. Il suo stesso nome è pastorale perché Rachele significa “capretta”. Qui avviene un bellissimo romantico incontro tra Giacobbe e Rachele, che contrasta con le usanze del tempo dei matrimoni combinati. Essendo Rachele molto bella, Giacobbe se ne innamora. Si passa da un racconto di altissimo valore mistico, quello del sogno di Giacobbe che rappresenta l’incontro fra l’umano e il divino, ad un racconto molto “terrestre”, di persone imparentate fra loro in una commovente scena familiare.

Giacobbe dichiara a Labano che resterà a lavorare presso di lui sette anni in cambio della mano di Rachele. Era usanza del tempo che il padre desse la figlia in matrimonio in cambio di un servizio dal futuro sposo. Passati sette anni al servizio di Labano, questo con l’inganno fece sposare a Giacobbe la figlia Lia, e poi dopo sette giorni gli permise di sposare anche Rachele, in cambio di altri sette anni servizio. Giacobbe accettò e amò Rachele più di Lia. Giacobbe subì un inganno come a sua volta aveva fatto per i diritti di primogenitura. Si attua così una nemesi storica: chi ha una colpa prima o poi la deve scontare.

Poiché Lia veniva trascurata, il Signore la dette la possibilità di avere quattro figli: Ruben, Simeone, Levi, Giuda. Rachele, che era sterile, diventa gelosa della sorella e chiede a Giacobbe che pur di avere un figlio poteva unirsi alla sua serva Bila. Ognuna delle figlie aveva una schiava a sua disposizione e già Abramo si era unito ad Agar, schiava della moglie Sara ed aveva avuto un figlio. La padrona avrebbe adottato il figlio nato dalla schiava che diventava così suo figlio. Bila ebbe due figli: Dan e Neftali. Lia fa la stessa cosa con la sua schiava Zilpa che ebbe due figli: Gad e Aser. La stessa Lia poi, concepisce e partorisce altri due figli, Issacar e Zabulon, e una figlia, Dina. Poi anche Rachele partorì e chiamò il figlio Giuseppe.

Nel Vecchio Testamento si trova spesso il tema della sterilità: Sara, Rebecca, e ora Rachele, proprio per far vedere che è sempre Dio all’origine di ogni generazione. I popoli nati da queste matriarche hanno dato origine al popolo eletto che per questo si considera voluto da Dio. E anche la discendenza è da considerarsi un dono di Dio, e anche se fisicamente e realmente è attuata dall’uomo. Questa situazione si ripresenta varie volte nel Vecchio Testamento come nel caso della madre di Sansone, fino ad arrivare al Nuovo Testamento con Elisabetta madre di Giovanni Battista e ancor di più con Maria Santissima che avrà un figlio nella condizione più umanamente impossibile, cioè rimanendo vergine. Tutto questo rientra in un disegno di Dio che pone la discendenza come un suo dono.

Genesi 30-31: origine storica delle 12 tribù di Israele

Nel cap.30, dove si parla dei dodici figli di Giacobbe, si evidenzia il significato del nome dato a un figlio adattato ad ogni situazione. In questo capitolo si parla della nascita di undici figli più una figlia, mentre l’ultimo figlio Beniamino nasce da Rachele che muore di parto.

A livello storico nel 1220 appare per la prima volta il nome Israele nell’iscrizione di pietra che celebra la vittoria del faraone Mernephta in Canaan. Dopo questo fatto la potenza egizia ebbe un rapido crollo. L’altra grande potenza che fronteggiava l’Egitto era quella degli Ittiti che si erano spartiti con l’Egitto il dominio di Siria e Giordania. Ma anche gli Ittiti conoscono vari rovesci e il loro impero viene travolto. In questo periodo Siria e Palestina si trovano in un vuoto di potere, in balia di se stessi. Nel 1200 a.C. nella pianura della Palestina si stabiliscono i Filistei e i popoli detti “del mare”, perché venivano appunto dal mare e precisamente dalle coste dell’Asia Minore, da Creta e dalle Isole dell’Egeo. Dalla Transgiordania, la zona a est del Giordano, arrivano le tribù aramaiche degli Edomiti (discendenti di Esaù), dei Moabiti e degli Ammoniti (discendenti di Lot). Le dodici tribù israelitiche a poco a poco presero il sopravvento sugli altri popoli finchè Davide riunì tutti in uno stesso regno.

Le tribù di Israele sono dodici, numero simbolico che significa la perfezione, la completezza e anche l’elezione, cioè la scelta da parte di Dio. In origine Israele era composto da solo quattro tribù, chiamate con i nomi delle quattro donne di Giacobbe, Lia, Rachele, Bila e Zilpa, le due mogli e le due schiave. A poco a poco i gruppi familiari più potenti si resero autonomi e diedero origine a nuove tribù.

A livello storico non solo Abramo e Giacobbe si trasferirono in Egitto ma nel corso dei secoli ci furono altre migrazioni per svariate cause, di tipo commerciale o per cercare nuovi pascoli per le greggi; molti arrivarono come prigionieri di guerra. Col passare degli anni furono tantissimi gli Aramei che si stabilirono in Egitto, presso il delta del Nilo. Da lì rientrarono a poco a poco in Palestina: famoso è l’esodo guidato da Mosè. In realtà furono almeno due gli esodi degli Aramei: il primo del 1550 chiamato esodo di espulsione e l’altro del 1250 esodo di fuga guidato da Mosè. Quando rientrarono dovettero lottare contro popolazioni locali che si erano stabilite al sud; i primi fondarono le prime quattro tribù: Ruben, Simeone, Levi e Giuda (i Leviti però si sparsero su tutto il territorio perché erano una tribù sacerdotale). Giuda diventerà la tribù più importante, quella da cui discenderà il re Davide.

Dopo il secondo esodo non più divisi in tribù occuparono la Palestina centrale e le montagne di Efraim (Efraim e Manasse erano i due figli di Giuseppe). La tribù di Beniamino si stabilì a nord per sfuggire ai Filistei insieme alla tribù di Manasse. Soltanto queste tre tribù, Beniamino Efraim e Manasse, vissero l’esperienza di esodo con Mosè, e conquistarono la terra promessa con Giosuè.

Quando Giosuè sentì che stava per morire convocò le tre tribù in una memorabile assemblea a Sichem, che si trova proprio al centro della terra promessa. Insieme a queste invitò anche tre tribù che si erano stabilite da secoli a nord della Palestina: erano quelle di Zabulon, Issacar (due figli di Lia) e Neftali (figlio di Bila). Queste tribù si riconobbero tutte credenti in Jahvè e pronunciarono solennemente la promessa di servire sempre il Signore che li aveva liberati dai nemici. (vedi cap.24 del libro di Giosuè) Queste sei tribù unite vinsero i popoli cananei del nord e questo convinse altre quattro tribù vicine a unirsi ad esse. Le quattro tribù erano quelle di Dan, Gad, Aser e Ruben.

Nel 1030 le tribù scelsero come loro re Saul, che era della tribù di Beniamino. Ad un certo punto Davide, della tribù di Giuda, prevale su Saul e prende a regnare sulle sei tribù aramee che erano arrivate nel 1500 a.C. Alla morte di Saul le altre sei tribù della lega chiesero a Davide di regnare anche su di loro e per la prima volta si ebbe il popolo di Israele tutto unito. Proprio sotto la monarchia di Davide e Salomone gli scribi di palazzo cominciarono a mettere insieme le varie tradizioni, e attribuirono ad un illustre antenato di nome Giacobbe la paternità delle dodici tribù. Così nacque la storia dei dodici figli di Giacobbe. Il numero dodici torna spesso, sia quando parla delle tribù partecipano all’esodo guidato da Mosè, sia quando si dividono il territorio riconquistato.

Tornando al racconto biblico, Giacobbe decide di scindere il contratto col suocero Labano, ma questi cerca di convincerlo in tutti i modi a restare, perché Giacobbe aveva contribuito notevolmente ad ampliare i suoi possedimenti. Segue una lunga trattativa tra i due finchè Giacobbe riesce con la sua solita astuzia a ottenere i capi di bestiame più robusti, cammelli, schiavi e schiave, e asini; così ripartì dopo vent’anni di permanenza dallo zio Labano notevolmente arricchito. Queste ricchezze ottenute da Labano provocarono l’inimicizia dei figli di questo. Dio lo esorta a tornare nel suo Paese promettendogli protezione e assistenza: “Io sarò sempre con te”.

Giacobbe, d’accordo con le due mogli, decide di partire per ritornare da Isacco suo padre, mentre Labano era andato a tosare il gregge. Rachele rubò i terafim, gli idoli che appartenevano al padre, che si usavano per ottenere responsi, cioè risposte divine a decisioni che si dovevano prendere. Questi terafim corrispondevano ai penati, gli idoli domestici dei romani: ciò fa capire che il passaggio dall’idolatria al monoteismo avvenne gradualmente. Labano insegue Giacobbe e quando lo raggiunge a Galaad giungono a un patto pacificamente. Questo patto allude a una pacificazione tra due popoli, gli Aramei e gli Israeliti.

Genesi 32: la lotta tra Giacobbe e l’angelo

Finalmente Giacobbe può tornare alla terra dei padri, ma non è affatto tranquillo, perché si era allontanato per sfuggire alla collera del fratello che lo voleva uccidere, avendogli carpito con l’inganno il diritto di primogenitura. Giacobbe prega Dio di aiutarlo: Genesi 32, 10-13.

Giacobbe invia doni ad Esaù per placare la sua ira. Poi Giacobbe lotta tutta la notte con un essere misterioso. Questo è uno dei racconti più oscuri della Genesi; è frutto di una quantità di materiali arcaici diversi molto suggestivi; il simbolismo di questo episodio ha suscitato interesse in molti artisti sia ebraici che cristiani; il quadro più famoso è quello di Chagall.

Dalla letteratura si sa che i Cananei erano soliti consacrare i fiumi a divinità. Il nostro redattore può avere utilizzato una leggenda antica connessa al fiume Iabbok, un fiume pericoloso perché in soli 60 chilometri ha un dislivello di 1000 metri: l’acqua precipitava in dirupi e in cascate, per cui si credeva che uno spirito volesse impedirne il passaggio. Tante saghe raccontano di spiriti che lottano con uomini, agendo però solo nelle ore notturne perché all’alba il loro potere scompare. Questo particolare dell’antico racconto viene lasciato, anche se non si può attribuire a Dio un potere limitato alle ore notturne. Il Talmud spiega che l’Angelo lottatore smette all’aurora perché deve tornare in cielo a cantare le lodi al Signore (viene identificato come l’arcangelo Michele). La lotta è continua e non si capisce chi vince e chi perde. Ad un certo punto Giacobbe coglie qualcosa di divino in questo lottatore e gli chiede una benedizione. L’essere gli domanda come si chiama; per gli antichi il nome era parte della persona e dire il nome era manifestare il proprio essere, rivelare la propria identità, mettersi nelle mani di colui a cui si rivela il nome. Giacobbe significa ingannatore e lo rivela nella sua personalità. L’essere misterioso gli cambia il nome in Israele. Cambiare il nome indica un nuovo modo di essere, una nuova missione, una nuova strada da seguire. Israele significa: “hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto”. Il nome Israele viene poi esteso a tutto il popolo e ancora oggi lo Stato si chiama così.

Giacobbe vorrebbe conoscere il nome dell’essere misterioso; questi non svela nulla, ma gli dà la sua benedizione. Giacobbe allora capisce di essere alla presenza di Dio e chiama il luogo Penuel che significa “essere faccia a faccia con Dio”.

In questo brano si motiva anche l’usanza degli Ebrei di non mangiare il nervo sciatico perché Giacobbe fu colpito al nervo sciatico durante la sua lotta con Dio.

Il redattore ha collocato questo episodio durante il viaggio di ritorno di Giacobbe nella sua terra; quando era terrorizzato dal pericolo di incontrare suo fratello, Dio gli appare sotto forma di Angelo lottatore e gli infonde fiducia. Un altro significato di questo episodio è l’importanza data alla preghiera come incontro con Dio, come lotta, come luogo di trasformazione personale; nella preghiera c’è sempre un senso di mistero e una componente di lotta e di perseveranza per ottenere qualcosa. Confrontarsi con Dio non è mai pacifico: c’è tensione, c’è lotta, c’è un cammino continuo per giungere alla benedizione di Dio. Spesso ci si trova in disaccordo con ciò che Dio vuole da noi; Dio non vuole mai la morte dell’uomo, ma se c’è lotta è per farlo arrivare a qualcosa di nuovo, a qualcosa che l’uomo non immaginava prima. Nella preghiera si chiede spesso a Dio di liberarci dall’angoscia e dalla paura, proprio come fa Giacobbe terrorizzato dall’incontro con Esaù. Ci accorgiamo che avviene questa liberazione quando riconosciamo la nostra fragilità e la potenza di Dio. Possiamo chiederci: “Il fine giustifica i mezzi?”. In linea di principio no, ma abbiamo visto più volte che la via di Dio passa anche attraverso gli errori degli uomini. 

Giacobbe incontra il tanto temuto fratello Esaù, ma questi si rivela molto accogliente. Giacobbe arrivato nella città di Sichem acquista un pezzo di terra dove costruisce capanne per gli uomini e per gli animali. (Genesi 33)

6° GIACOBBE  E  BETEL

Sichem figlio di Camor si invaghisce dell’unica figlia di Giacobbe, Dina, partorita da Lia, e le fa violenza. Poiché Sichem era innamorato di questa ragazza, manda il padre da Giacobbe a chiedergliela in moglie. Simeone e Levi, fratelli maggiori di Dina, vendicano la violenza fatta alla sorella uccidendo tutti i figli maschi nella regione di Sichem (Genesi 34). Ben presto Giacobbe deve allontanarsi da lì perché teme la vendetta. 

Genesi 35, 1-15: da Sichem a Betel

Giacobbe organizza due cerimonie: una a Sichem, durante la quale si fa consegnare tutti gli idoli stranieri dal suo popolo e li sotterra sotto una quercia; l’altra a Betel dove c’era una stele che aveva eretto quando in fuga dal fratello Esaù si era fermato a dormire ed aveva avuto in sogno la visione di una “scala”.

Da Sichem a Betel viene fatto un vero e proprio pellegrinaggio e, prima di fare questo atto di culto, Giacobbe aveva proposto la rinuncia di tutto quello che dispiace a Dio e che riguardava il culto degli dei stranieri; agli orecchini si attribuiva una particolare potenza magica di protezione e per questo si dice di rinunciare ai pendenti che avevano agli orecchi. C’erano poi i talismani che allontanavano gli influssi malefici e che erano molto in uso nei popoli pagani. Sebbene il culto di Jahvè fosse diffuso in tutto il popolo di Israele, nella vita pratica molti Ebrei si abbandonavano a queste pratiche magiche illecite, vietate dalla Legge.

Questo episodio richiama un fatto più conosciuto riportato nel capitolo 24 del libro di Giosuè: la grande assemblea di Sichem. Prima di morire all’ingresso della terra promessa, Giosuè raduna tutte le tribù di Israele e li richiama a lasciar perdere tutte le divinità straniere e ad essere fedeli all’unico vero Dio.

Tornando all’episodio di Betel, Giacobbe invita a purificarsi e a cambiarsi gli abiti: l’abito nuovo era simbolo di una nuova vita. La santità nell’Antico Testamento non è tanto una particolarità propria dell’uomo, ma è piuttosto lo stato di appartenenza a Dio. “Santo” in ebraico vuol dire essere messo da parte per Dio, cioè qualcosa che Dio si è scelto. Santi sono coloro che si mettono a disposizione di Dio, rispondere alla sua chiamata, rinunciando a tutto ciò che non è santo cioè non è proprio di Dio.

Giacobbe seppellì gli idoli sotto una quercia a Sichem e intraprese un pellegrinaggio cultuale verso Betel: con ogni probabilità venivano eseguiti lungo il cammino dei canti cultuali. A Betel Giacobbe erige un altare a Dio, a quel Dio che lo aveva protetto anche se immeritatamente. Questo episodio serve a sottolineare la grande importanza del santuario di Sichem, dove per un certo periodo stette l’arca dell’alleanza. Questo racconto rievoca un vero pellegrinaggio avvenuto nel periodo dei Giudici per trasportare l’arca da Sichem a Betel.

Dopo aver parlato della quercia di Sichem sotto cui furono sepolti gli idoli stranieri, ora si parla di una quercia a Betel ai piedi della quale venne sepolta Debora, la nutrice di Rebecca. E per questo fu chiamata “Quercia del Pianto”. La quercia era molto diffusa in Palestina tanto che in ebraico si traduce con cinque termini. Siccome era una pianta che cresceva alta e isolata, si prestava molto a rappresentare un luogo di incontro o a individuare un luogo sacro.

Dio appare a Giacobbe in Betel. Questi versetti sono stati stesi dai sacerdoti quando il popolo ebreo era schiavo in Babilonia. Le promesse fatte ad Abramo erano nei capitoli 12 e 17. Come Dio aveva cambiato il nome ad Abramo, ora lo cambia anche a Giacobbe e le promesse fatte ad Abramo vengono rinnovate a Giacobbe. A seguito di questo incontro Giacobbe erige un altare come luogo di culto.

Excursus sulla religione dei Patriarchi

In ebraico Dio assume vari nomi che troviamo nella Bibbia: Jahvè, El, Shaddai. Perché tanti nomi allo stesso Dio? Jahvè significa: “io sono colui che è”, ma in realtà è molto più profondo il significato: esiste da sempre, è qui presente, accompagna sempre il suo popolo, lo libera dalla schiavitù. Gli Ebrei non pronunciano questo nome perché lo può fare solo il sommo sacerdote una volta all’anno, per cui si rivolgono col termine Adonai.

Abramo era un seminomade, senza dimora fissa e credeva che anche Dio fosse come lui, un viandante che lo proteggeva lungo il cammino. Abramo lo invoca come Dio di suo padre, come Isacco lo invocherà come Dio di Abramo, e Giacobbe come Dio di Isacco. Un tempo si trasmetteva la religione dei padri. Il loro culto consisteva nel compiere un sacrificio all’inizio della transumanza e dopo ogni spostamento offrendo come vittima un animale (pecora capra o agnello).

Quando giunse nella terra di Canaan, vide che i Canaanei avevano un luogo fisso per il culto e le loro cerimonie erano molto belle e attraenti. Essi adoravano un Dio potente creatore del cielo e della terra ma inavvicinabile, mentre il Dio di Abramo era vicino a lui e ai suoi problemi quotidiani.

In ogni località Dio assumeva un nome diverso: Dio dell’alleanza, Dio della casa di Dio, il Dio altissimo perché superiore a tutti gli altri dei, il Dio dell’eternità, il Dio della visione, il Dio onnipotente (El Shaddai). Spesso nella Bibbia troviamo il nome Eloim, definito come padre di tutti gli dei, usato per indicare il creatore del mondo e il padre del popolo ebraico.

Quando i patriarchi diventarono sedentari, cominciarono a costruire santuari. Il Dio dei padri si arricchì dell’esperienza dei popoli con cui gli Ebrei vennero a contatto e assunse nomi diversi: da un lato continuava a essere il Dio che proteggeva e accompagnava il clan nella sua esperienza terrena ma dall’altro fu anche visto come il Dio potente, trascendente, creatore del mondo e dominatore della natura. Secoli più tardi, i discendenti dei patriarchi scesero in Egitto per motivi diversi (prigionia, carestia, schiavitù) e lì furono mal visti dagli Egiziani perché il loro Dio era molto diverso dagli dei che adoravano gli Egiziani. Gli Ebrei adoravano sempre lo stesso Dio, anche se assumeva nomi diversi, non troppo in avanti come i popoli politeisti che adoravano tanti dei.

Come i patriarchi a Canaan non trovarono sconveniente identificare l’El canaaneo con il Dio dei padri, così al tempo di Mosè gli Israeliti non ebbero difficoltà a identificare Jahvè che si era rivelato sul monte Sinai col Dio dei padri; di conseguenza l’idea di Dio progredì enormemente, perché ora la divinità non era più solo un Dio vicino e protettore e presente nella vita quotidiana, non era solo un Dio trascendente onnipotente, potentissimo, ma anche un Dio che presentava una terza prerogativa: un Dio che governava la storia del suo popolo e la portava verso una meta, stipulando un’alleanza col suo popolo sul monte Sinai.

La Bibbia è stata scritta dopo che è stato fatto tutto questo cammino di conoscenza di Dio, per cui viene nominato già col suo nome fin dall’inizio quando si parla di Abramo, anche se il suo nome verrà rivelato molto più tardi a Mosè. Il termine Jahvè viene usato già nel libro della Genesi, nonostante questo nome venga rivelato più tardi a Mosè: Jahvè era stato sempre lo stesso Dio che si era rivelato ad Abramo, Isacco e Giacobbe.

Gli Ebrei adoravano un solo Dio, ma sapevano che gli altri popoli adoravano altri dei; per questo non siamo ancora al monoteismo ma alla monolatria, cioè il culto di un solo Dio ma non l’affermazione dell’esistenza di un solo Dio.

Genesi 35,16-29: morte di Rachele e di Isacco e nascita di Beniamino

Ci sono due fatti negativi che seguono il rinnovo delle promesse a Giacobbe da parte di Dio. Il primo fatto è la morte di Rachele, avvenuta dopo aver partorito il dodicesimo figlio di Giacobbe; la madre lo chiama “figlio del mio dolore”, ma il padre gli cambia il nome in “figlio della mia mano destra” (la destra era ritenuta dagli antichi un segno di buon auspicio). In tutta la Bibbia, solo Rachele e la sconosciuta nuora di Eli muoiono di parto. Le parole dell’allevatrice: “Non temere…” assumono qui un significato importante: Rachele muore, ma non deve aver paura perché dona la vita; il dono della vita anche a prezzo della propria parte già all’inizio della Bibbia per arrivare a Gesù che si dona per noi morendo in croce.

La morte di Rachele viene ricordata in altre parti della Bibbia: il profeta Geremia, parlando agli esiliati in Babilonia definisce Rachele madre di tutto il popolo ebreo; si parla di lei anche nel Vangelo di Matteo, raccontando l’episodio della strage degli innocenti. “Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata”.

Il secondo episodio negativo è l’incesto di Ruben; questo figlio di Giacobbe si unisce alla concubina del padre Bila; questo è molto grave perché è la violazione di un diritto ben accettato nell’A.V.O. (antico vicino oriente o mezzaluna fertile) come tutela dell’harem nell’ambito della poligamia; è anche un grave peccato di incesto perché se uno ha rapporti con la matrigna tutti e due vengono puniti con la morte. A causa dell’incesto di Ruben e del gesto di vendetta di Simeone e Levi, la benedizione di Giacobbe passa al quartogenito Giuda. Sarà proprio nella tribù di Giuda che sorgerà il re Davide nella cui discendenza nascerà Gesù.

Nota sulla longevità dei Patriarchi

Isacco morì a 180 anni e fu sepolto da Giacobbe ed Esaù. Come mai nella Bibbia si dice che i patriarchi vissero un numero di anni così inverosimile?

La paleontologia ha dimostrato che gli uomini primitivi hanno avuto una vita lunga circa vent’anni. Poi col passare dei secoli la durata media è aumentata. Al tempo di Gesù la durata della vita era di cinquant’anni, nel 1800 di cinquantacinque, nel 1900 di sessanta e di oggi la speranza di vita per gli uomini e di settantacinque anni.

Come va interpretato il numero degli anni decrescente e molto alto che troviamo nella Bibbia che è in contrasto con quanto asserisce la scienza? I numeri nella Bibbia non hanno un valore reale, ma simbolico. Il 1000 indica il valore pieno, la benedizione totale perché si più vicini a Dio: per questo chi era vissuto prima del diluvio si dice che avesse raggiunto i mille anni di età; dopo il diluvio la durata della vita diminuisce da seicento a duecento e al tempo dei patriarchi si stabilizza tra i cento e i duecento. Un fatto curioso è l’età dei primi patriarchi: Abramo aveva 175 anni, Isacco 180 e Giacobbe 147. Scomponendo i numeri in fattori primi si nota che i primi fattori sono decrescenti e quelli ripetuti sono crescenti; inoltre la somma di ogni gruppo di fattori è 17 in tutti e tre i casi. 17 è l’età di Giuseppe quando viene venduto dai fratelli.

175= 7 x (5 x 5) -> 7 + 5 + 5 = 17

180= 5 x (6 x 6) -> 5 + 6 + 6 = 17

147= 3 x (7 x 7) -> 3 + 7 + 7 = 17

Nell’A.T. (almeno fino al libro della Sapienza, del 1° sec. a. Cr.) non c’era ancora il concetto dell’aldilà e, per dire che Dio premiava una persona per la sua bontà, le si attribuivano tanti anni di età. Il peccatore moriva prematuramente. I molti anni erano la benedizione di Dio per il giusto. Sarà Cristo a portare la grande novità della vita eterna: l’uomo continua a vivere dopo questa vita e allora non c’è più bisogno di allungare la vita alle persone per dire che Dio le ricompensa; si dirà semplicemente che dopo la morte godranno del premio eterno. Da Cristo in poi ciò che conta non è quanto si vive, ma come si vive. Non esistono più vite lunghe o corte, ma vite significative o insignificanti.

7° GIUSEPPE  IN  EGITTO

Genesi 37: storia di Giuseppe in Israele e in Egitto

Giacobbe amava Giuseppe più di tutti gli altri, perché era il figlio che aveva avuto in vecchiaia dalla sua seconda moglie Rachele. Giuseppe pascolava il gregge insieme ai suoi fratelli, ma era odiato da loro, perché, oltre che essere preferito dal padre, raccontava dei sogni in cui egli appariva superiore agli altri. L’odio dei fratelli divenne così forte che essi pensarono di eliminarlo, ma Giuda propose ai suoi fratelli di venderlo a dei mercanti che andavano in Egitto; così fecero, e poi portarono al padre la sua veste macchiata di sangue, raccontando che era stato sbranato da una bestia feroce. (Si noti che Giacobbe, l’ingannatore, ancora una volta viene ingannato e con gravi conseguenze.).

. In Egitto, Giuseppe viene venduto a Potifar, il comandante delle guardie, che lo apprezza a tal punto da nominarlo suo servitore personale. Poi però, a causa di un inganno della moglie di Potifar, finisce in prigione, dove si dimostra grande interprete di sogni, prima di due detenuti e poi del faraone stesso che lo apprezza molto. Così da prigioniero diventa maggiordomo del faraone, l’uomo più importante dell’Egitto dopo il re. Giuseppe a trenta anni sposa la figlia di un sacerdote e ha due figli, Manasse ed Efraim.

Le sue profezie si avverano. Durante il periodo di carestia da lui predetto, i suoi fratelli arrivano in Egitto per comprare il grano e qui avviene l’incontro prima con loro e poi col padre. In un clima di grande commozione, avviene la riconciliazione dei fratelli con lui. Questi vengono invitati a risiedere in Egitto, nella parte più fertile del Paese. Giuseppe dimostra di essere un saggio governatore.

Giuseppe: personaggio storico?

Quella di Giuseppe è una storia avventurosa e affascinante e le sue vicende sono paragonate a quelle di Ulisse e di Enea. Si può considerare un classico della letteratura mondiale. È la storia di un uomo messo a dura prova che emerge dalla sventura grazie alle sue qualità morali. La storia di Giuseppe è una vera e propria opera letteraria, rispetto alle altre storie della Bibbia. Mentre le vicende dei patriarchi sono contrassegnate da un Dio che parla e che interviene, nelle vicende di Giuseppe Dio è un silenzioso osservatore che interviene solo in alcuni momenti cruciali della sua storia per benedirlo. Non si parla di interventi diretti di Dio, ma si dà molto spazio ai sentimenti umani: l’invidia e l’odio dei fratelli, l’amore del padre Giacobbe, la generosità e l’onestà di Giuseppe…

In questa vicenda romanzesca, c’è un nucleo storico. Parlando delle dodici tribù, nel gruppo di Makir esisteva un soldato mercenario che aveva compiuto imprese eroiche. Nel canto di Deborah (1100 a.C.) il gruppo di Makir era molto forte, ma la tribù di Manasse ebbe il sopravvento e Manasse divenne il padre di Makir. Giuseppe adottò i figli di Makir e così si ebbe la discendenza: Giuseppe => Manasse => Makir. Nel 1000 a.C. nella famosa assemblea di Sichem, Giosuè chiede la fedeltà di tutte le tribù a Jahvè ed Efraim (che aveva vissuto l’esodo dall’Egitto con Mosè insieme a Beniamino) assume un ruolo guida nella confederazione delle tribù, fa propria la tradizione di Giuseppe e addirittura prende il nome di “casa di Giuseppe”.

Proprio a Sichem si cominciò a celebrare il ricordo di Giuseppe come un eroe antenato delle tribù. Infine, al tempo di Salomone (970-930) quando la tribù di Giuda assunse il ruolo-leader di tutte le tribù di Israele, la storia di Giuseppe ebbe la sua definitiva sistemazione letteraria e il lungo racconto a lui relativo appartenne a tutto il popolo di Israele. La vicenda di Giuseppe è un capolavoro letterario ripreso anche dalla pittura e dalla musica.

Origine del racconto di Giuseppe

Questo testo non può essere analizzato come gli altri racconti della Genesi, tuttavia anche qui si notano parti della tradizione elohista e parti della tradizione sacerdotale. Secondo una teoria ritenuta valida fino agli anni ’70 del secolo scorso, fu Salomone a dar ordine ai suoi scribi di mettere per iscritto tutto il patrimonio storico-religioso del popolo di Israele e quindi anche la storia di Giuseppe; favorì lettere ed arti per dar lustro alla sua regalità e manifestò interesse per tutte le opere sapienziali, sia ebraiche che non ebraiche.

Questi testi erano molto diffusi nell’antico Oriente e si preoccupavano di approfondire il senso della vita, il destino degli uomini, un modo di vivere in armonia con se stessi e con gli altri: una filosofia che cercava di dare una risposta agli interrogativi di tutti i tempi (il perché del bene e del male, il destino del giusto e dell’empio, il dolore…).Salomone, che aveva sposato la figlia del faraone e ci teneva a mostrare che anche i suoi antenati avevano avuto rapporti importanti, ordinò a un sapiente della sua corte di costruire la vicenda di Giuseppe, che era stato vicerè d’Egitto, descrivendo usanze e costumi, con tocchi pittoreschi ma facendo anche intravedere la misteriosa provvidenza divina.

Il racconto di Giuseppe, un capolavoro letterario, fu ritoccato per sottolineare il valore della discendenza e il nesso fra la storia dei patriarchi e l’esodo dall’Egitto. Ci sono due capitoli (38 sulla vicenda di Giuda e Yamar, e 49 sul testamento di Giacobbe) che furono innestati nel racconto di Giuseppe per dimostrare il primato della tribù di Giuda. La vicenda di Giuseppe si colloca nel periodo precedente l’esodo (1350 a.C).

Giuseppe, esempio di uomo sapiente

Nella vicenda di Giuseppe si possono individuare quattro grandi tematiche: il tema della sapienza, dei sogni, della fraternità, della presenza di Dio nella storia.

Il sapiente nella Bibbia è l’uomo che acquisisce la saggezza superando positivamente le opere che gli capitano nella vita. Il modo con cui Dio è presente nella vicenda di Giuseppe è molto vicino all’attualità.

Nella frase iniziale e in quella finale del capitolo 39 si sottolinea esplicitamente la presenza del Signore che aiuta a superare le prove.

Giuseppe subisce più volte la tentazione della seduzione della moglie di Potifar, ma supera questa prova perché non vuole tradire il padrone e disubbidire a Dio. Poi Giuseppe deve affrontare la prova della prigione, ma, dimostrandosi saggio e paziente, si accorge di ricevere da Dio il dono di interpretare i sogni, e questo sarà la sua salvezza. Non impreca e non protesta per l’ingiustizia subita, ma agisce in modo positivo.

Il romanzo di Giuseppe diventa una sorta di manuale di educazione per i giovani Israeliti: imparare ad essere retti in tutte le circostanze della vita e coltivare la triplice conoscenza: quella dei precetti di Dio, quella del proprio popolo e la capacità di affrontare le problematiche dell’esistenza. La sapienza di Giuseppe non è legata solo alle proprie capacità umane, ma soprattutto al lasciarsi guidare da Dio: il supremo valore per l’uomo è lasciare a Dio l’iniziativa di guidare la propria vita.

I sogni di Giuseppe

Il sogno è collegato al sonno, che spesso nella Bibbia è identificato col torpore, che prelude ad una rivelazione divina. Di conseguenza, nella Bibbia il sogno è una via della comunicazione divina, inferiore però a quella diretta come avvenne per Mosè. Spesso il sogno si accompagna ad una visione dalla quale è difficile distinguerlo. Grande importanza si dà all’interprete dei sogni, perché un sogno senza interprete è come una lettera chiusa. Il sogno biblico non si riferisce mai al passato, ma al futuro: è predizione di ciò che deve avvenire, è profezia, è guida, è rivelazione. Ci sono anche sogni falsi, illusori, ingannatori. Come Mosè si rivelò superiore ai maghi egiziani e Daniele agli indovini babilonesi, così Giuseppe si mostra superiore agli Egiziani: egli rivela la potenza di Dio perché si fa guidare da Dio. Dio si serve degli uomini per guidare la storia.

L’esaltazione di Giuseppe nei due sogni giovanili, quando – diciassettenne – racconta che i fratelli s’inchinavano davanti a lui, non è per un prestigio personale ma per un servizio, e lo si capirà alla fine della storia: Giuseppe è stato scelto da Dio per salvare i suoi fratelli e tutto il popolo d’ Israele.

L’interpretazione dei sogni era molto diffusa in Egitto. Per Giuseppe, l’arte d’interpretare i sogni era un dono di Dio, anzi l’illuminazione per annunciare una verità. Dio manifesta i suoi piani, ma poi bisogna provvedere a realizzarli. La volontà di Dio non esclude l’iniziativa, la responsabilità e la libertà dell’uomo. Fare la volontà di Dio non significa restare passivi o agire come robot, ma impegnarsi con tutta la propria creatività e il proprio impegno. 

8° GIUSEPPE  E  LA  SUA  FAMIGLIA

Genesi 37.-39-45: Giuseppe e i suoi fratelli

Quella di Giuseppe è anche la storia della famiglia di Giacobbe. All’inizio, la famiglia è unita, serena e tranquilla. Poi si accendono motivi di tensione, a causa di reciproche denigrazioni, di gelosie e di invidie. A causa di Giuseppe avvengono le prime divisioni; la preferenza del padre nei suoi confronti e i sogni che racconta lo rendono ancora più odioso agli occhi dei fratelli. Tutti volevano ucciderlo, ma Ruben riesce a convincerli a non fare una cosa così drastica, ma a venderlo a dei mercanti che vanno in Egitto.

Dopo varie vicende, in Egitto Giuseppe diventa visir e presiede alla distribuzione del grano. Quando i suoi fratelli, a causa della carestia, vengono inviati dal padre in Egitto per acquistare il grano che a loro mancava, Giuseppe li riconosce (ma da loro non è riconosciuto) e vede realizzati i sogni che aveva fatto da giovane: i suoi fratelli si prostrano davanti a lui che è il vicerè dell’Egitto. Ma volutamente non si fa riconoscere da loro: è generoso e non vuole umiliarli, è prudente e non vuole procedere ad una frettolosa riconciliazione; allora li mette alla prova, accusandoli di essere spie venute a scoprire i punti deboli del Paese.

Essi cercano di difendersi spiegando che sono una sola grande famiglia. Egli li mette in difficoltà per far sì che prendano coscienza del male che hanno commesso e si ravvedano. Li rimanda a casa perché ritornino con l’ultimo fratello Beniamino, ma trattiene in prigione uno di loro: lo strazio che provano fa loro ricordare la gravità del gesto che a loro volta avevano compiuto nei confronti di Giuseppe, si sentono colpevoli nei confronti del fratello e capiscono che devono pagare per il male compiuto.

Quando tornano con Beniamino, vengono accusati ingiustamente di furto, ma Giuda è pronto a pagare per il fratello più piccolo, trovato in possesso di una coppa preziosa scomparsa, e questo dimostra che hanno superato la prova comportandosi da veri fratelli. Giuseppe allora rivela la sua identità e offre il suo perdono.

È importante che si arrivi al perdono dopo la presa di coscienza e il pentimento di colui al quale si perdona. Infatti Giuseppe, prima di dare il perdono, si è preoccupato che i fratelli fossero cambiati, avessero preso coscienza del male che avevano fatto e avessero purificato il cuore dall’invidia e dalla malvagità.

Quando Giuseppe si fa riconoscere, i suoi fratelli sono atterriti perché temono la sua vendetta o la sua punizione. Invece Giuseppe è soddisfatto per aver fatto recuperare ai fratelli un vero senso di fraternità e di solidarietà e offre il suo perdono. La potenza di Dio si rivela in questo far scaturire il bene anche dal male. Possiamo davvero dire che qui ci troviamo davanti alla provvidenza divina, reggitrice degli eventi, benché nascosta, che realizza il proprio piano attraverso la complessa interazione di eventi umani.

Genesi 46,1-5: collegare la storia di Giuseppe ai Patriarchi e all’Esodo

Visione notturna, oracolo, epifania di Dio che ribadisce il tema della promessa sono tutte caratteristiche che non si trovavano nella storia di Giuseppe ma sono state aggiunte per collegare la storia di Giuseppe a quella dei patriarchi e all’Esodo.

Conclusione: la verità del testo della Genesi

1º livello di verità: ciò che è realmente accaduto e documentato.

2º livello di verità: ciò che emerge dal rapporto con la realtà (realtà ontologica) e diventa per il credente verità teologica.

Nel complesso nei racconti patriarcali c’è una base storica, ma il loro scopo non è di raccontare dei fatti, ma di interpretarli evidenziandone il senso profondo riconosciuto dalla fede. All’autore biblico interessa soprattutto trovare la verità teologica della vicenda narrata, cioè la verità di fede. Così collega le varie testimonianze della tradizione per arrivare ad essa, andando ben oltre alla verità storica.

La vicenda dei patriarchi può risultare storicamente non sempre esatta, ma trasmette una verità che va ben oltre gli avvenimenti storici, perché comunica il senso autentico degli avvenimenti di cui fa memoria: il mistero di Dio reso accessibile all’uomo.

Corso di Ileana Mortari
Castronno 2007 – 2008
(cfr. il sito www.chiediloallateologa.it