Liturgia
– Anno C


Santissimo corpo e Sangue di Cristo – Anno C
Luca 9,11-17

In quel tempo (…) il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta». Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così (…). Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.
(Letture: Genesi 14,18-20; Salmo 109; 1 Corinzi 11, 23-26; Luca 9,11-17).

Il segno dell’alleanza tra Dio e il suo popolo
Don Joseph Ndoum

La festa del S.S. Corpo e Sangue di Cristo o la festa del Corpus Domini celebra il modo straordinario escogitato da Gesù per rimanere con noi. Infatti ogni uomo sente il bisogno di incontrare Dio, e il Signore ha voluto rendersi per sempre presente a noi nell’Eucaristia.

La prima lettura ci presenta un personaggio misterioso, vissuto al tempo di Abramo: Melkisedeck, re e sacerdote, che precede i sacerdoti della tribù di Levi e della famiglia di Aronne. A lui Abramo portò in offerta per un sacrificio il pane e il vino, e ne ebbe in ricambio la benedizione. La menzione di questo misterioso personaggio, re e sacerdote, si trova anche in un antico salmo (109) in cui si celebra l’intronizzazione regale del re davidico a Gerusalemme, sul Sion. Alla fine del Salmo si porta l’oracolo profetico che legittima il nuovo re: “il Signore ha giurato e non si pente: Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melkisedeck”. Il sacerdote Melkisedek era considerato dal popolo ebraico come figura dell’atteso Messia, e quindi è stato considerato dai primi cristiani come figura del Signore Gesù. Egli, in quanto discendente della tribù di Giuda, non poteva essere sacerdote secondo l’ordine di Aronne. Ma, in quanto Messia re, è quel sacerdote che rimane per sempre in forza del giuramento di Dio. In questa prospettiva, l’offerta del pane e del vino da parte di Melkisedek può prefigurare il gesto di Gesù che nella cena di addio benedice il pane e il vino, identificandoli con il suo corpo donato e il suo sangue versato.

La seconda lettura ci presenta il primo racconto scritto sull’istituzione dell’Eucaristia, verso la metà degli anni 50. In questa tradizione, c’è un invito ripetuto due volte: “Fate questo in memoria di me”. Fare qualcosa “in memoria” non è semplicemente ripetere e neppure ricordare qualche cosa o qualcuno, ma vuol dire soprattutto rendere presente l’evento salvifico per prendervi parte.

Il brano evangelico di Luca racconta la moltiplicazione dei pani che ha un duplice legame con l’Eucaristia. Il primo è suggerito in modo discreto dall’accostamento che l’evangelista invita a fare tra la situazione di Gesù in mezzo alla folla mentre “il giorno ormai incominciava a reclinare” e quella dei discepoli di Emmaus che invitano il misterioso pellegrino a fermarsi “perché si fa sera e il giorno già volge al declino”. Il secondo richiamo eucaristico è il gesto finale di Gesù : “Allora egli prese i cinque pani e due pesci, e levati gli occhi al cielo, li benedisse, li spezzò e li diede ai discepoli perché li distribuissero alla folla”. Questi gesti anticipano quelli che Gesù compirà nella cena finale con i discepoli per celebrare la sua morte come donazione estrema a servizio permanente nella comunità. L’invito di Gesù “dategli voi stessi da mangiare“ impegna i discepoli a prolungare a sua accoglienza. Questo compito è suggerito anche dal fatto che alla fine raccolgono dodici ceste dei pezzi avanzati.

Tutta la Chiesa che si fonda sui Dodici è impegnata ad accogliere la folla bisognosa della Parola di Dio e di cure per poter spartire insieme il pane che rimane sempre un dono generoso di Dio.

La celebrazione permanente dell’ Eucaristia, facendo memoria di Cristo, dovrebbe ravvivare ed alimentare l’attenzione e la sollecitudine dei cristiani verso chi ha bisogno di accoglienza e cura. L’Eucaristia è quindi il centro che ci unifica.

Il miracolo del pane condiviso, amare significa dare
Ermes Ronchi

Festa della vita donata, del Corpo e del Sangue dati a noi: partecipare al Corpo e al Sangue di Cristo non tende ad altro che a trasformarci in quello che riceviamo (Leone Magno). Dio è in noi: il mio cuore lo assorbe, lui assorbe il mio cuore, e diventiamo una cosa sola. L’uomo è l’unica creatura che ha Dio nel sangue (Giovanni Vannucci), abbiamo in noi un cromosoma divino.
Gesù parlava alle folle del Regno e guariva quanti avevano bisogno di cure. Parlava del Regno, annunciava la buona notizia che Dio è vicino, con amore.
E guariva. Il Vangelo trabocca di miracoli. Gesù tocca la carne dei poveri, ed ecco che la carne guarita, occhi nuovi che si incantano di luce, un paralitico che danza nel sole con il suo lettuccio, diventano come il laboratorio del regno di Dio, il collaudo di un mondo nuovo, guarito, liberato, respirante.
E i cinquemila a loro volta si incantano davanti a questo sogno, e devono intervenire i Dodici: Mandali via, tra poco è buio, e siamo in un luogo deserto. Si preoccupano della gente, ma adottano la soluzione più meschina: Mandali via. Gesù non ha mai mandato via nessuno.
Il primo passo verso il miracolo, condivisione piuttosto che moltiplicazione, è una improvvisa inversione che Gesù imprime alla direzione del racconto: Date loro voi stessi da mangiare. Un verbo semplice, asciutto, pratico: date.
Nel Vangelo il verbo amare si traduce sempre con un altro verbo concreto, fattivo, di mani: dare (Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio (Gv 3,16), non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici (Gv 15,13).
Gli apostoli non possono, non sono in grado, hanno soltanto cinque pani, un pane per ogni mille persone: è poco, quasi niente. Ma la sorpresa di quella sera è che poco pane condiviso, che passa di mano in mano, diventa sufficiente; che la fine della fame non consiste nel mangiare da solo, voracemente, il proprio pane, ma nel condividerlo, spartendo il poco che hai: due pesci, il bicchiere d’acqua fresca, olio e vino sulle ferite, un po’ di tempo e un po’ di cuore. La vita vive di vita donata.
Tutti mangiarono a sazietà. Quel tutti è importante. Sono bambini, donne, uomini. Sono santi e peccatori, sinceri o bugiardi, nessuno escluso, donne di Samaria con cinque mariti e altrettanti divorzi. Nessuno escluso. Pura grazia.
È volontà di Dio che la Chiesa sia così: capace di insegnare, guarire, dare, saziare, accogliere senza escludere nessuno, capace come gli apostoli di accettare la sfida di mettere in comune quello che ha, di mettere in gioco i suoi beni.
Se facessimo così ci accorgeremmo che il miracolo è già accaduto, è
in una prodigiosa moltiplicazione: non del pane
ma del cuore.

La condivisione del pane 
Enzo Bianchi

Dopo la festa della Triunità di Dio, celebriamo oggi un’altra festa “dogmatica”, sorta a difesa della dottrina, per ricordare la verità dell’eucaristia voluta da Gesù come memoriale nella vita della chiesa fino alla sua venuta gloriosa. Ogni domenica celebriamo l’eucaristia, ma la chiesa ci chiede anche di confessare e adorare questo mistero inesauribile in un giorno particolare (il giovedì della II settimana dopo Pentecoste per la chiesa universale, la II domenica dopo Pentecoste in Italia). Facciamo dunque obbedienza e commentiamo mediante un’esegesi liturgica il brano evangelico proposto dal Messale italiano.

Il cosiddetto racconto della “moltiplicazione dei pani” è attestato per ben sei volte nei vangeli (due in Marco e in Matteo, una in Luca e in Giovanni), il che ci dice come quell’evento fosse ritenuto di particolare importanza nella vita di Gesù. Nel vangelo secondo Luca, Gesù invia i suoi discepoli ad annunciare la venuta del regno di Dio e a guarire i malati (cf. Lc 9,2), mostrando che la missione affidatagli da Dio con la discesa su di lui dello Spirito santo (cf. Lc 3,21-22), rivelata nella sinagoga di Nazaret (cf. Lc 4,18-19), era da lui estesa anche alla sua comunità. Compiuta questa missione, i discepoli fanno ritorno da Gesù e gli raccontano la loro esperienza, quanto cioè avevano fatto e detto in obbedienza al suo comando.

Gesù allora li prende con sé, portandoli in disparte per un ritiro, in un luogo vicino alla città di Betsaida (cf. Lc 9,10). Ma le folle, saputo dove Gesù si era ritirato, lo seguono ostinatamente (cf. Lc 9,11). Ed ecco che Gesù le accoglie: aveva cercato un luogo di silenzio, solitudine e riposo per i discepoli tornati dalla missione e per sé, ma di fronte a quella gente che lo cerca, che viene a lui e lo segue, Gesù con grande capacità di misericordia la accoglie. È lo stile di Gesù, stile ospitale, stile che non allontana né dichiara estraneo nessuno. Queste persone vogliono ascoltarlo, sentono che egli può dare loro fiducia e liberarle, guarirle dai loro mali e dai pesi che gravano sulle loro vite, e Gesù senza risparmiarsi annuncia loro il regno di Dio, le cura e le guarisce. Questa è la sua vita, la vita di un servo di Dio, di un annunciatore di una parola affidagli da Dio.

Giunge però la sera, il sole tramonta, la luce declina, e i Dodici discepoli entrano in ansia. Dicono dunque a Gesù: “Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta!”. La loro richiesta è all’insegna della saggezza umana, nasce da uno sguardo realistico, eppure Gesù non approva quella possibilità razionale, ma chiede loro: “Voi stessi date loro da mangiare”. Con questo comando li esorta a entrare nella dinamica della fede, che è avere fiducia, mettere in movimento quella fiducia che è presente in ogni cuore e che Gesù sa ravvivare. Ma i discepoli non comprendono e insistono nel porre di fronte a Gesù la loro povertà: hanno solo cinque pani e due pesci, un cibo sufficiente solo per loro!

Ecco allora che Gesù prende l’iniziativa: ordina di far sedere tutta quella gente ad aiuola, a gruppi di cinquanta, perché non si tratta solo di sfamarsi, ma di vivere un banchetto, una vera e propria cena, nell’ora in cui il sole tramonta. Poi davanti a tutti prende i pani e i pesci, alza gli occhi al cielo, come azione di preghiera al Padre, benedice Dio e spezza i pani, presentandoli ai discepoli perché li servano, come a tavola, a quella gente. È un banchetto, il cibo è abbondante e viene condiviso da tutti. Quelli che conoscono la profezia di Israele, si accorgono che è accaduto ciò che già il profeta Eliseo aveva fatto in tempo di carestia, nutrendo il popolo affamato a partire dalla condivisione di pochi pani d’orzo (cf. 2Re 4,42-44). Lo stesso compie Gesù, e dopo il suo gesto avanza una quantità di cibo ancora maggiore: dodici ceste. Nel cuore dei discepoli e di alcuni dei presenti sorge così la convinzione che Gesù è profeta ben più di Elia e di Eliseo, è profeta anche più di Mosè, che nel deserto aveva dato da mangiare manna al popolo uscito dall’Egitto (cf. Es 16).

Ma qui viene spontaneo chiedersi: cosa significa questo evento? Normalmente si parla di “moltiplicazione” dei pani, ma nel racconto non c’è questo termine. Dunque? Dovremmo dire che c’è stata condivisione del pane, c’è stato lo spezzare il pane, e questo gesto è fonte di cibo abbondante per tutti. In tal modo comprendiamo come ci sia qui una prefigurazione di ciò che Gesù farà a Gerusalemme la sera dell’ultima cena: “Prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: ‘Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me’” (Lc  22,19). Lo stesso gesto è ripetuto da Gesù risorto sulla strada verso Emmaus, di fronte ai due discepoli. Anche in quel caso, al declinare del giorno, invitato dai due a restare con loro (cf. Lc 24,29), “quando fu a tavola, prese il pane, pronunciò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro” (Lc  24,30). Tre episodi che recano lo stesso messaggio: le folle, la gente, il mondo ha fame del regno di Dio, e Gesù, che ne è il messaggero e lo incarna, sazia questa fame con la condivisione del cibo, con lo spezzare il suo corpo, la sua vita, offerta a tutti.

Ecco il mistero eucaristico nella sua essenza: non lasciamoci abbagliare da tante e varie dottrine eucaristiche, ma accogliamo il mistero nella sua semplicità. Cristo si dà a noi ed è cibo abbondante per tutti; una volta spezzato (sulla croce), può essere offerto dalla chiesa, da noi, a tutti coloro che lo cercano e tentano di seguirlo. Se è vero che la dinamica dello spezzare il pane e del condividerlo trova nella celebrazione della santa cena eucaristica un adempimento, essa però è anche paradigma di condivisione del nostro cibo materiale, il pane di ogni giorno. L’eucaristia non è solo banchetto del cielo, ma vuole essere esemplare per le nostre tavole quotidiane, dove il cibo è abbondante ma non è condiviso con quanti hanno fame e ne sono privi. Per questo, se alla nostra eucaristia non partecipano i poveri, se non c’è condivisione del cibo con chi non ne ha, allora anche la celebrazione eucaristica è vuota, perché le manca l’essenziale. Non è più la cena del Signore, bensì una scena rituale che soddisfa le anime dei devoti, ma in profondità è una grave menomazione del segno voluto da Gesù per la sua chiesa!

Con la condivisone dei pani e dei pesci insieme alle folle Gesù inaugura un nuovo spazio relazionale tra gli umani: quello della comunione nella differenza, perché le differenze non solo abolite ma affermate senza che, d’altra parte, ne patisca la relazione segnata da fraternità, solidarietà, condivisione. Sì, dobbiamo confessarlo: nella chiesa si è persa quest’intelligenza eucaristica propria dei primi cristiani e dei padri della chiesa, vi è stato un divorzio tra la messa e la condivisione del pane! E se se nel mondo esiste la fame, se i poveri sono accanto a noi e l’eucaristia non ha per loro conseguenze concrete, allora la nostra eucaristia è scena religiosa e – come direbbe Paolo – “il nostro non è più un mangiare la cena del Signore” (cf. 1Cor 11,20). Proprio davanti all’eucaristia cantiamo l’inno che afferma: “Et antiquum documentum novo cedat ritui” (“l’antico rito ceda il posto alla nuova liturgia”), ma in realtà restiamo ingabbiati nei riti e non riusciamo a fare dell’eucaristia la vita cristiana.

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Tutti noi attraversiamo zone deserte, sia nella nostra vita personale sia nel nostro cammino insieme. E mentre siamo nel deserto, quando abbiamo sperimentato la solitudine, lo smarrimento e la fame, arriva poi anche la sera. Si fa buio quando ancora non abbiamo trovato una strada. Siamo presi dall’angoscia, tutto sembra finito, tutto sembra morire, senza aver trovato una via d’uscita. Possiamo anche aver fatto l’esperienza di Dio, magari abbiamo anche ascoltato la sua Parola, forse ne siamo stati colpiti, possiamo persino aver fatto l’esperienza della guarigione, ma ciò non toglie che ci sentiamo persi quando Dio sembra assente. Sì, Dio è passato nella mia vita, ma adesso come farò ad uscire da questo deserto?

La vita è altrove

Il testo di Luca ci interpella in modo particolare sul compito della Chiesa davanti a questo smarrimento della folla. Non c’è dubbio che i Dodici manifestino una certa stanchezza. Stare dietro a Gesù è impegnativo. Vorrebbero probabilmente non solo riposarsi e mangiare, ma forse hanno anche il desiderio di vivere finalmente un tempo di intimità con il Maestro.

È comprensibile che pensino alla loro stanchezza, ma colpisce che non sentano la compassione per la stanchezza degli altri. Vedono la stanchezza della folla, ma non la sentono come un loro problema. Non ritengono che sia un loro compito. Comprendono che la gente ha bisogno di cercare da mangiare e per questo chiedono a Gesù di mettere le persone in condizione di andare a trovare altrove una risposta alla loro fame. In un certo senso chiedono di liberare le persone perché possano pensare alla loro vita. Non vedono una relazione tra l’insegnamento di Gesù e il problema concreto della fame della gente. Le parole di Gesù sono forse per loro solo consolatorie, un incoraggiamento, un sostegno, ma poi effettivamente la vita va vissuta altrove con i suoi problemi.

Dare o comprare?

I Dodici sono ancora all’interno di una logica mondana, quella del comprare. Forse non si accorgono del verbo differente usato da Gesù, il quale li invita a dare. I Dodici hanno tutto quello che serve, ma non se ne accorgono: cinque pani e due pesci, cioè sette elementi! La pienezza, eppure pensano che la gente debba andare a cercare altrove quello di cui ha bisogno. Non hanno compreso, o non credono ancora, che Gesù è la risposta alla fame della gente.

Un compito che continua

Giocando con la grammatica dei verbi, Luca mette in evidenza che c’è un’azione puntuale che Gesù ha compiuto: alzò gli occhi, recitò la benedizione, spezzò i pani. Luca cambia il tempo del verbo quando deve indicare invece l’azione mediante la quale Gesù dà i pani ai discepoli affinché li distribuiscano, lasciando intendere che quell’azione, iniziata in quel momento, continua nel tempo: da allora in poi Gesù continua a dare il pane ai discepoli affinché li distribuiscano.

Notiamo anche che i pani vengono dati non solo ai Dodici, protagonisti della prima parte del testo, ma ai discepoli, cioè a un gruppo più allargato, a cui è affidato questo compito. I pani e i pesci non sono moltiplicati (come di solito si usa dire), ma vengono distribuiti. È significativo infatti che tendiamo a leggere questo evento come un’occasione di efficace produzione aziendale, in realtà il miracolo vero sta nella condivisione.

Un popolo nuovo

Da questa condivisione, da questa logica nuova, nasce il nuovo popolo di Dio: avanzano dodici ceste, affinché ciascuno dei Dodici porti con sé il segno di quello che è accaduto. È un popolo nuovo rispetto a quello che ha attraversato il deserto con Mosè: c’è infatti un rimando a Es 18,25 in quella formazione di gruppi di cinquanta persone. Ed è un popolo nuovo perché non c’è più bisogno di mangiare in fretta e in piedi come nell’ultima cena in Egitto, ma si può mangiare sdraiati e con calma.

Oggi questo testo risuona come un appello alla Chiesa a interrogarsi su come stiamo distribuendo il pane che Gesù mette nelle nostre mani. È un appello forse anche a guardare al dono del sacerdozio. È un invito a ritrovare il valore del sacerdozio comune mediante il quale ogni battezzato è chiamato a partecipare a questa missione di condivisione. Un invito a riscoprire il senso del sacerdozio ordinato, che non può essere ridotto a un privilegio, ma neppure a una funzione o una professione nella quale si può essere più o meno bravi, si tratta piuttosto di un legame impegnativo tra il discepolo e Cristo. La festa di oggi è però un appello anche per ogni persona a interrogarsi sui luoghi in cui stiamo andando a cercare la risposta alla nostra fame, soprattutto quando attraversiamo i deserti della nostra vita.

Leggersi dentro

  • Quale spazio ha l’Eucaristia nella mia vita?
  • In che modo mi prendo cura della fame degli altri?

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Il mistero di Dio, nelle sue diverse manifestazioni (Trinità, Incarnazione, Pasqua, Eucaristia…), ci viene dato come dono da contemplare, amare, vivere, annunciare. La Chiesa accoglie questi doni, come lo dice bene San Paolo riguardo all’Eucaristia (II lettura): egli trasmette alla comunità di Corinto quello che a sua volta ha “ricevuto dal Signore”, circa il sacramento del pane e del vino, istituito dal “Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito” (v. 23). L’Eucaristia è oblazione totale di Cristo per la vita del mondo; è messaggio da annunziare “finché Egli venga” (v. 26); è presenza reale di Cristo sotto il segno del pane e del vino, prefigurato nell’offerta di Melchidesech (I lettura).

La Chiesa vive dell’Eucaristia”. L’Eucaristia fa la Chiesa e la Chiesa celebra l’Eucaristia. Fin dal giorno di Pentecoste, il Sacramento eucaristico continua a scandire le giornate della Chiesa, “riempiendole di fiduciosa speranza”, afferma Giovanni Paolo II nell’enciclica Ecclesia de Eucharistia (n. 1). La moltitudine seguiva Gesù in zone deserte (Vangelo); così oggi la gente ha un bisogno irrinunciabile di saziarsi del pane che alimenta il corpo, ma anche del pane della Parola di Dio e del Pane eucaristico. Nel progetto di Dio non si può separare una fame dall’altra: ognuno ha bisogno e diritto di saziarle ambedue. Da questa duplice necessità nasce l’imperativo di una missione globale, intesa come servizio all’uomo e come annuncio del Vangelo.

L’Eucaristia è il dono divino perché tutta la famiglia umana abbia vita in abbondanza; è il dono nuovo e definitivo che Cristo affida alla Chiesa pellegrina e missionaria nel deserto del mondo. L’Eucaristia è stimolo a vivere lacomunione fraterna, l’incontro ecumenico, l’attività missionaria in modo generoso e creativo, “perché una sola fede illumini e una sola carità riunisca l’umanità diffusa su tutta la terra” (Prefazio). La persona e la comunità che fanno l’esperienza di Cristo nell’Eucaristia si sentono motivate a condividere con altri il dono ricevuto: la missione nasce dall’Eucaristia e riporta ad essa.

Ricordo con emozione l’incontro di Giovanni Paolo II con un milione di poveri a Villa El Salvador, nella periferia di Lima (Perù) la mattina del 5 febbraio 1985. Nella sua omelia sul vangelo della moltiplicazione dei pani, il Papa aveva sottolineato con forza le parole di Gesù: “Voi stessi date loro da mangiare” (v. 13). Gesù non risolve da solo questo miracolo; lo apre alla corresponsabilità dei discepoli. Alla fine dell’incontro, parlando a braccio, il Papa fece una sintesi del messaggio cristiano e della missione della Chiesa: “Fame di Dio: Sì! – Fame di pane: No!” Il desiderio, la fame, la sete di Dio vanno sempre coltivati, al primo posto. Ma nel nome di questo stesso Dio, deve essere debellata la fame di pane che uccide le persone. Lo stesso vale per ogni altra fame: fame di istruzione, di salute, famiglia, lavoro, perdono, riconciliazione, amore, incluso l’amore coniugale. Questo è il progetto cristiano per la trasformazione del mondo. Unprogetto ‘rivoluzionario!’ Questo programma acquista nuovo vigore se lo contempliamo davanti al Cuore di Cristo, la cui festa celebreremo venerdì. Gesù compie il miracolo della moltiplicazione, ma fa intervenire i discepoli nella condivisione e distribuzione, che deve arrivare a tutti.

Le 12 ceste avanzate: non solo dice che tutti sono saziati. Dire ‘12’ significa dire tutti i popoli; pensare cioè ad un mondo dove nessuno rimane senza pane e senza dignità. Ma le 12 ceste avanzate mostrano anche uno sguardo sul futuro. Raccontano il senso di un progetto sul mondo. Non un mondo in balia delle emergenze, ma un mondo che prepara il futuro, prevede e crea le condizioni perché non ci siano disparità, disuguaglianze, ingiustizie programmate” (R. Vinco).

Il nostro villaggio globale non può che avere un banchetto globale, al quale tutti i popoli hanno uguale diritto di prendere parte; una mensa dalla quale nessuno deve essere escluso o discriminato. Da sempre, è questo il progetto del Padre comune di tutta la famiglia umana (cfr Is 25,6-9). È questo il sogno che Egli affida alla comunità dei credenti che hanno il “dovere-diritto” di celebrare l’Eucaristia, facendo memoria della morte e risurrezione del Cristo. È questo il banchetto al quale sono invitati tutti i popoli, animati dall’unico Spirito.

Tutti i membri della famiglia umana hanno diritto di mangiare a sazietà, con dignità, in fraternità. Significativamente, Gesù ordinò di farli “sedere a gruppi” (v. 14-15). Perché solo gli schiavi sono condannati a mangiare in piedi e in fretta. Farli sedere, invece, vuol dire trattarli tutti da persone; come figli in casa, con la dignità di gente libera. L’atto del mangiare acquista così il suo pieno valore come atto umano e umanizzante, perché sedere e mangiare in gruppo è segno di comunione.