Liturgia
– Anno C

Solennità della Santissima Trinità (C)
Gv  16,12-15

12Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. 13Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. 14Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. 15Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà.

(Letture: Proverbi 8,22-31; Salmo 8; Romani 5,1-5; Giovanni 16, 12-15).


El Greco, Trinità (particolare), 1577 - 1579, olio su tela, Museo del Prado

Una comunione d’amore e di vita
Enzo Bianchi

È la festa cosiddetta della Trinità, fissata dalla chiesa la prima domenica dopo la Pentecoste: non è memoriale di un evento della vita di Cristo, ma piuttosto una confessione e una celebrazione dogmatica dovuta ai concili di Nicea (325) e di Costantinopoli (381). In verità nella Bibbia non si trova mai la parola Trinità, formula dogmatica, ma vi è piuttosto la rivelazione di Dio come Padre, della Parola fatta carne, Gesù il Figlio di Dio, e dello Spirito santo di Dio, la forza attraverso la quale il Padre e il Figlio operano nella storia. Soltanto noi cattolici, a differenza degli altri cristiani, in obbedienza all’intenzione della chiesa celebriamo questa festa ascoltando i testi biblici nei quali troviamo la parola di Dio, che ci rivela il grande mistero della Tri-unità di Dio.

Il brano evangelico è tratto dai “discorsi di addio” di Gesù, già più volte incontrati nel tempo di Pasqua, quelli da lui rivolti ai discepoli prima della sua gloriosa passione. Chi parla è il Gesù glorioso del quarto vangelo, Signore del mondo e della chiesa nel suo oggi; parla qui e ora alla chiesa, spiegandole che egli, ormai risorto, è vivente presso Dio e in Dio quale Dio. Ha già promesso di non lasciare orfani quanti credono in lui (cf. Gv 14,18) e perciò di mandare loro lo Spirito Paraclito, avvocato difensore (cf. Gv 14,15-17.26; 15,26-27; 16,7-11); ha invitato i credenti ad avere fede in lui e li ha messi in guardia rispetto al mondo nel quale ancora essi vivono, preannunciando loro ostilità e persecuzione (cf. Gv 14,27; 16,1-4.33), ma dichiarando anche che il Principe di questo mondo è stato da lui vinto per sempre (cf. Gv 12,31; 14,30; 16,11).

Gesù, che ha insegnato per anni ai suoi discepoli e che nel quarto vangelo si attarda a lasciare loro le sue ultime volontà, a un certo punto deve confessare: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso” (letteralmente: “portarle”). Anche Gesù ha fatto l’esperienza del desiderio di comunicare molte cose ma di rendersi conto che l’altro, gli altri non sono in grado di condividerle, di comprenderle, di portarle dentro di sé. In ogni relazione – lo sperimentiamo quotidianamente – l’assiduità provoca una crescita di conoscenza, l’ascolto e le parole scambiate permettono una maggior comunicazione con l’altro, ma a volte ci si trova di fronte a dei limiti che non si possono oltrepassare. L’altro non può comprendere, non può accogliere ciò che si dice, e addirittura comunicargli delle verità può diventare imprudente, a volte non opportuno. Si manifesta il limite, una barriera che può anche far soffrire ma che va accettata. Anzi, occorre non solo sottomettersi a essa, ma addirittura arrivare alla resa: non si può né si deve comunicare di più…

Non c’era difficoltà a esprimersi da parte di Gesù, bensì incapacità di ricezione da parte dei discepoli. Gesù però getta lo sguardo sul tempo dopo di sé, con fede-fiducia e con speranza: “Oggi non capite, ma domani capirete”. Perché? Perché egli sa che la vita e la storia sono anch’esse rivelatrici; che vivendo si arriva a capire ciò che abbiamo semplicemente ascoltato; che è con quelli con cui camminiamo che si comprendono più profondamente le parole affidateci. Si potrebbe dire – parafrasando un celebre detto di Gregorio Magno – che “la parola cresce con chi la ascolta”, con chi la scambia con altri, con chi la medita insieme ad altri, con chi sa ascoltare la vita, gli eventi, la storia. Il cammino della conoscenza non è mai finito, l’itinerario verso la verità non ha un termine qui sulla terra, perché solo nell’al di là della morte, nel faccia a faccia con Dio, conosceremo pienamente (cf. 1Cor 13,12).

Questa verità dà alla fede cristiana uno statuto che non sempre teniamo presente. Dovremmo cioè prestare più attenzione alle vicende di Gesù e dei suoi discepoli, leggendole non solo come fatti del passato ma anche come tracce sulle quali camminiamo ancora oggi. La nostra fede non è statica, non ci è data una volta per tutte come un tesoro da conservare gelosamente, ma è come un dono che cresce nelle nostre mani. Dicendo queste parole, Gesù certamente intravedeva anche tra i suoi discepoli il pericolo del voler conservare ciò che avevano conosciuto come uno scrigno chiuso, come un museo, invece di permettere alle sue parole di percorrere le strade del mondo e i secoli della storia crescendo, arricchendosi nell’incontro con altre parole, storie, culture. Sì, la verità che ci è stata consegnata progredisce in approfondimento e in estensione, e per molti aspetti la chiesa di oggi, come quella di ieri, conosce ciò che è essenziale alla salvezza; ma la chiesa di oggi conosce di più e comprende il Vangelo stesso in modo più approfondito. Non è il Vangelo che cambia ma siamo noi oggi a comprenderlo meglio di ieri – come diceva papa Giovanni –, meglio anche dei padri della chiesa.

Ma questa crescita della comprensione non avviene per energie che sono in noi, non è un’avventura dello spirito umano, ma è un cammino “guidato” dal dono del Risorto, lo Spirito santo: “Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità”. Abbiamo una guida nel tempo in cui Gesù non è più tra di noi allo stesso modo in cui camminava accanto ai suoi sulle strade della Palestina. Siamo sulle strade del mondo, tra le genti, in mezzo ai pagani, come “viandanti e pellegrini” (cf. Eb 11,13, 1Pt 2,11): non siamo soli, orfani, senza orientamento. Ecco il dono di Gesù risorto, lo Spirito santo, “suo compagno inseparabile” (Basilio di Cesarea), che ora è divenuto il nostro compagno inseparabile. Lo Spirito è luce, è forza, è consolazione, e ci guida: dolce luce quando è notte, brezza che rinfresca nella calura, forza che sostiene nella debolezza. Noi cercatori della verità mai posseduta percorriamo il nostro cammino, ma lo Spirito santo ci dà la possibilità di andare oltre la conoscenza della verità acquisita, attraverso inizi senza fine. E sia chiaro che questa comprensione non sta all’interno di una dimensione intellettuale, gnostica, ma è conoscenza esperita da tutta la nostra persona; e la verità che cerchiamo e inseguiamo non è una dottrina, non sono formule o idee, ma è una persona, è Gesù Cristo che ha detto: “Io sono la verità” (Gv 14,6).

Lo Spirito santo però non è una forza, un vento che viene da dove vuole e va dove vuole, ma è lo Spirito di Cristo, mai dissociato da Gesù. Quando lo Spirito è presente e ci parla di Gesù, è come se ci parlasse Gesù stesso, e in questo modo ci parla di Dio, perché dopo la resurrezione non si può più parlare di Dio senza guardare e conoscere Gesù suo Figlio che lo ha raccontato (cf. Gv 1,18) con parole d’uomo e con la sua vita umanissima. Le parole di Gesù sullo Spirito santo, dunque, in realtà ci indicano il Padre, Dio, perché il Padre e il Figlio hanno tutto in comune: il Figlio è la Parola emessa dal Padre e lo Spirito è il Soffio di Dio che consente di emettere la Parola. È in questo modo che Giovanni, attraverso le parole di Gesù, ci accompagna a intravedere il nostro Dio come Padre, Figlio e Spirito santo: un Dio che è intimamente comunione plurale, un Dio che è comunione d’amore, un Dio che nel Figlio si è unito alla nostra umanità e attraverso lo Spirito santo è costantemente creatore di questa comunione di vita.

Nel leggere o ridire questa pagina evangelica, stiamo però attenti a non trasformarla in un trattato di dottrina, in una sorta di enigma, in una formula matematica sconosciuta… Se questa è una verità, verifichiamola annunciandola ai “piccoli”, a quanti sono privi di strumenti intellettuali, ai poveri. Solo se essi, ascoltandola dalle nostre labbra, la capiscono, ciò significa che qualcosa abbiamo capito anche noi; altrimenti siamo nell’inganno di aristocratici gnostici che credono di vedere e invece sono ciechi (cf. Gv 9,40-41), credono di conoscere e invece restano ignoranti, credono di confessare la fede e invece sono legati alla dottrina. Il Vangelo è semplice, è per i piccoli, è una realtà nascosta agli intellettuali e agli eruditi (cf. Mt 11,25; Lc 10,21): non rendiamolo difficile o addirittura enigmatico, degno di stare su una stele di pietra e incapace di entrare nel cuore di ogni persona. Imprimendo su di noi il segno della croce, diciamo il nostro desiderio e impegno di credere con la mente, con il cuore e con le braccia, cioè con quanto operiamo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo

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La Trinità comunione d’amore, flusso di vita divina
Ermes Ronchi

Verrà lo Spirito e vi annuncerà le cose future. Lo Spirito permette ai miei occhi, chini sul presente, di vedere lontano, di anticipare la rosa che oggi è in boccio, di intuire
già colore e profumo là dove ora non c’è che un germoglio.
Lo Spirito è la vedetta sulla prua della mia nave. Annuncia terre che io ancora non vedo. Io gli do ascolto e punto verso di esse il timone, e posso agire certo che ciò che tarda verrà, comportarmi come se la rosa fosse già fiorita, come se il Regno fosse già venuto.
Lo Spirito prenderà del mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio. In questa scambio di doni cominciamo a intravedere il segreto della Trinità: non un circuito chiuso, ma un flusso aperto che riversa amore, verità, intelligenza oltre sé, effusione ardente di vita divina.
Nel dogma della Trinità c’è racchiuso il sogno per noi. Se Dio è Dio solo in questa comunione, allora anche l’uomo sarà uomo solo in una analoga relazione d’amore.
Quando in principio il Creatore dice: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gen 1,26), se guardiamo bene, vediamo che Adamo non è fatto a immagine del Dio che crea; non a immagine dello Spirito che si librava sulle acque degli abissi, non a immagine del Verbo che era da principio presso Dio.
Molto di più, Adamo ed Eva sono fatti a immagine della Trinità, a somiglianza quindi di quella comunione, del loro legame d’amore, della condivisione. Qui sta la nostra identità più profonda, il cromosoma divino in noi. In principio, è posta la relazione. In principio a tutto, il legame.
Al termine di una giornata puoi anche non aver mai pensato a Dio, mai pronunciato il suo nome. Ma se hai creato legami, se hai procurato gioia a qualcuno, se hai portato il tuo mattone di comunione, tu hai fatto la più bella professione di fede nella Trinità.
Il vero ateo è chi non lavora a creare legami, comunione, accoglienza. Chi diffonde gelo attorno a sé. Chi non entra nella danza delle relazioni non è ancora entrato in Dio, il Dio che è Trinità, che non è una complicata formula matematica in cui l’uno e il tre dovrebbero coincidere: «Se vedi l’amore, vedi la Trinità» (sant’Agostino).
Allora capisco perché la solitudine mi pesa tanto e mi fa paura: perché è contro la mia natura. Allora capisco perché quando sono con chi mi vuole bene, quando accolgo e sono accolto da qualcuno, sto così bene: perché realizzo la mia vocazione.
Tutto circola nell’universo: pianeti, astri, sangue, fiumi, vento e uccelli migratori… È la legge della vita, che si ammala se si ferma, che si spegne se non si dona. La legge della chiesa che, se si chiude, si ammala (papa Francesco)

Avvenire (2016)

Cose future di cui portare il peso
Clarisse di Sant’Agata

Riprendiamo l’itinerario del “tempo ordinario” dopo aver seguito il Figlio nel suo cammino verso la sua Pasqua fino a ricevere lo Spirito nella Pentecoste. Il primo passo nel tempo ordinario ci dona di riconoscere che la nostra vita ha in Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, il suo principio e il suo approdo ultimo: “in Lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (cf. At 17,28). Poiché Egli è “amore, verità e vita”, come afferma la colletta di oggi, noi non possiamo esistere se non in Lui, non possiamo vivere nella verità fuori di Lui, non possiamo amare se non impariamo il Suo modo di amare. La colletta quindi oggi ci invita a chiedere di “giungere alla piena conoscenza di Lui” per poter amare, essere nella verità e vivere, verbi sinonimi che indicano tutta l’esistenza umana.

La Parola di oggi tuttavia ci dice con forza che possiamo “giungere alla piena conoscenza di Lui” non per le nostre capacità di penetrare il mistero di Dio, ma perché è Dio stesso che si rivela a noi. Caratteristica specifica del nostro Dio è quella di essere relazione. Totalmente rivolto e donato nell’amore all’altro. Uno per l’altro. Dio è amore che si dona all’uomo e alla creazione perché è in Se stesso esperienza dell’amore donato e ricevuto, nel vincolo che unisce il Padre, il Figlio nello Spirito.

Di qui possiamo intuire l’itinerario delle letture di oggi che ci portano a riconoscere quell’amore del nostro Dio trinitario all’opera nella “creazione” (prima lettura), nella “redenzione” e nella “santificazione” dell’uomo (seconda lettura). Ma è nel Vangelo che scopriamo i tratti del volto di Dio così come il Figlio ce li ha rivelati e lo Spirito continua a plasmarli in noi (“prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà”).

Oggi, nel Vangelo, Gesù proclama: “molte cose ho ancora da dirvi”. Giunto alle soglie della sua donazione ultima nell’amore (“…li amò fino alla fine” Gv 13,1), sembra di cogliere nelle parole di Gesù il suo desiderio di “narrare” fino in fondo il Padre (cf. Gv 1,18). Come se la sua vita non fosse stata una “Parola” “sufficientemente” chiara per parlare loro del’amore del Padre… Rimane una Parola ultima che Gesù deve pronunciare: “la Parola della Croce”, come la definisce S. Paolo in 1Cor 1,18. Il Figlio è la Parola definitiva del Padre: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 1,1). E questa Parola che Egli ci ha “rivolto” “ha ancora molte cose da dirci” fino a quando non raggiungerà la nostra vita “Parola della Croce”, che è il Figlio Crocifisso.

Tuttavia Gesù afferma che “per il momento non siete capaci di portarne il peso”. La “Parola della croce” è una Parola “pesante”, incomprensibile, assurda, stolta, debole (cf. 1Cor 1,18-30) che non possiamo portare! Notiamo infatti che il verbo greco “portare il peso” è molto spesso utilizzato nel contesto della passione come ad indicare che “il peso” che non possiamo “portare” è quello dell’amore crocifisso, è la comprensione e la partecipazione al mistero pasquale di Gesù: l’amore che si rivela pienamente nello scandalo della morte:
“…Egli ha preso le nostre infermità e si è caricato (ha portato il peso) delle malattie” Mt 8,17; “Colui che non porta (il peso) la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo” Lc 14,27; “egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Gòlgota” Gv 19,17; cf. anche Mt 20,12; At 9,15; Rm 15,1; Gal 6,2.5; “io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo” Gal 6,17).
Con le nostre forze non possiamo portare il peso dell’amore di Dio che giunge a dare il proprio Figlio per amore dell’uomo: “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8).

Sì, la “parola della Croce” sfugge alla nostra comprensione se pensiamo con ragionamenti umani (come è possibile che l’onnipotenza dell’amore di Dio si manifesti nella debolezza del Figlio che si dona fino a morire?) perché non è una Parola “basata su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza” (cf. 1Cor 2,4). Solo lo Spirito di Dio ci farà capaci di “portare il peso” di questa Parola nella quale è nascosta la dichiarazione ultima dell’amore di Dio! Infatti “quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità”, cioè sarà la nostra guida, aprirà la strada perché possiamo entrare nella Verità che è l’amore di Dio nella forma in cui il Figlio ce lo ha rivelato.

La verità è Gesù stesso (“”Io sono la via, la verità e la vita” Gv 14,6), una verità che si manifesta pienamente nella sua Pasqua. Non dimentichiamo che Pilato davanti a Gesù durante il processo gli chiede cosa sia la verità (cf. Gv 18,38) e non riceve alcuna risposta, se non la persona di Gesù stesso: la verità è Gesù nell’ora in cui svuota se stesso e si consegna nell’amore. Lo Spirito quindi ci introdurrà nella verità che è il dono d’amore di Gesù sulla croce e renderà possibile la nostra sequela di Lui nella forma di quell’amore:
“Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo” Gv 13,7; “Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi” Gv 13,36 dice Gesù a Pietro prima della passione.  “Dopo” e “più tardi” sarà possibile seguire il Maestro nella sua stessa donazione d’amore, non prima!

Quel “dopo” e “più tardi” di cui Gesù parla a Pietro sono “le cose future” che lo Spirito “ci annuncerà”. “Le cose future” (letteralmente “le cose venienti”) non sono quindi eventi misteriosi che appartengono al futuro, ma fanno riferimento alla Pasqua di Gesù, all’Ora, secondo la teologia di Giovanni, in cui lo Spirito annuncerà “tutto ciò che avrà udito dal Padre”. La Pasqua di Gesù è il futuro e la verità ultima della vicenda umana. Cioè solo l’amore ostinato e perdente di Gesù costruisce la storia, rimane ed è la verità profonda dell’uomo e della storia. Quindi “le cose future” si sono “manifestate” nell’Ora della croce del Figlio. E da allora in poi costituiscono il senso profondo di tutte le cose che è già deposto nella realtà che stiamo vivendo.

Lo Spirito quindi ci condurrà a un nuovo modo di conoscere, a leggere la storia presente alla luce del futuro che è la Pasqua di Gesù, domani di Dio in noi. Le “cose venienti” sono perciò la Pasqua di Gesù in noi. Per questo Giovanni le chiama “cose future”, venienti in quanto deve avvenire la vita di Lui in noi. Lo Spirito ce le annuncerà: cioè ci donerà di camminare fino a che quel modo di amare che è in Dio Trinità e che il Figlio ci ha rivelato diventi la forma del nostro vivere. E sarà il cammino di tutta la nostra vita.

http://www.clarissesantagata.it (2016)

Oggi è come se bussassimo – nocche leggere – al mistero d Dio cui diamo nome di Trinità. Nome a volte scolorito. Lo teniamo nel cuore perché racconta una relazione. I nomi che ci sono più cari sono i nomi che raccontano una particolare relazione ed è per questo che ci si accende il nome di Dio: per ciò che intercorre tra noi e lui. Se non ci fosse intensità di relazione, scolorirebbe. E invece leggi: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”.

Il nome “trinità” allude a questo intreccio misterioso, a questo venire, a questo andarsene. ma anche a questo rimanere nel cuore. C’è una dimora per i nomi più cari. E in Dio non c’è pesantezza. La pesantezza c’è nei nostri discorsi su Dio: “Verremo, prenderemo dimora”. Non occupazione, dimora. Vorrei dire che sullo sfondo non c’è l’immobilità di una casa rocciosa, impenetrabile; c’è il sollevarsi per vento dei teli di una tenda. Suggestiva, in questo orizzonte, la riflessioni di Don Enrico sul foglio parrocchiale di questa domenica: “Una tenda e la Trinità”, parole che rincorrono la tenda di Abramo alle querce di Mamre.

Penso con emozione alla tenda quando incrocio persone fantasiose, aperte, sciolte, libere e liberanti, donne e uomini che amano sorprendersi, lontane dalla noia e dalla noiosità, dalla ripetizione, tenda e non cattura. Mi viene da sognare per loro:

E forse più che una casa,
spenta immagine della mia fissità,
ho sognato per il tuo amore una tenda,
caldo rifugio per una notte.
Ma subito è il miracolo dell’alba e tu,
instancabile,
la vai arrotolando
alla ricerca di nuovi orizzonti.
Sempre oltre
per ininterrotti sentieri
che solo l’amore inventerà.
Andare di terra in terra,
di amore in amore
perdutamente
e all’ultimo orizzonte
scoprire che Dio
non era
nelle stanche parole
nel gelo dei monumenti.
Era nel brivido

del tuo inquieto cammino.

Ritorno ad Abramo e alla sua tenda. Che, lasciatemi dire, conosce il brivido del vento. E’ la tenda della sorpresa, sorpresa che non si acquieta: erano tre gli sconosciuti? Erano tre e forse uno, commenta don Enrico. Che bello che rimanga la sorpresa e una interrogazione infinita su Dio. E che cosa favorì quel giorno l’incontro di Abramo con un Dio che passa in incognito, se non quello stare sulla soglia, gli occhi abbandonati oltre le querce, persino nell’ora più calda del giorno, quando caldo ed afa ti farebbero sognare il più profondo dei sonni? La vecchiaia non gli aveva rubato la curiosità degli occhi: stava alll’ingresso della tenda.

La vecchiaia, dobbiamo aggiungere, non gli aveva rubato nemmeno brezze di passione per l’ospitalità; uno che l’ospitare lo considera una grazia, grazia da farti inginocchiare: “Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: “Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo!””. Che siano questi i preliminari al riconoscimento di Dio: la curiosità degli occhi e un cuore appassionato di ospitalità? La trinità racconta la gioia dell’aprirsi e non un Dio monolitico, racconta la tavola sotto le querce di Mamre e non un trono da cui dominare né una torre da cui controllare.

E’ suggestivo pensarlo: è come se fossimo chiamati a dare un’immagine nuova alla parola “unità” e nuovo senso all’operare per l’unità. Buona notizia questa immagine dell’unità in Dio, l’unità a una tavola. Notizia da stringere, ancora più stretta, in giorni inveleniti per invasione dell’altro, per occupazioni e sopraffazioni. E – diciamocelo – invelenita è l’aria, non solo a livello globale, ma anche nel vivere quotidiano, invelenita da un “io” dispotico e arrogante, che sembra non avere più freni. Troni e torri. Per guardare dall’alto in basso, per creare dipendenze e sottomissioni. Ci rimangono purtroppo retaggi di dipendenze e sottomissioni, non ancora debellate come sarebbe auspicabile, dopo secoli. Torri e troni.

Mi verrebbe da dire che nemmeno la tenda alle querce di Mamnre ne era totalmente immune. Perdonate, non ho la competenza né la saggezza degli esegeti. Ma nel racconto di Abramo e dei tre sconosciuti mi ha sempre colpito un particolare: che a Sara – sarà per sudditanza a costumi del tempo – non sia concesso uscire dalla tenda: è invitata ad affrettarsi a preparare cibi e prepara; ascolta sì, ma da invisibile, i discorsi che vengono da fuori. E che bello – lasciatemi dire – che Dio la faccia sorridere alla promessa della nascita. Ha timore a dirlo, ma ha sorrso. Non so se anche voi, io sì: avvisto ombre di dipendenze, e non l’affaccio di tutti a una tavola di uguali. Mi ritorna al cuore um midrash della tradizione rabbinica che ha qualcosa da insegnare su Dio e su noi. Eccolo: “Quando ero un ragazzino il signor Maestro stava insegnandomi a leggere. Una volta mi mostrò nel libro di preghiere due minuscole lettere, simili a due puntini quadrati.

E mi disse: “Vedi, Uri, queste due lettere, una accanto all’altra? È il monogramma del nome di Dio; e, ovunque, nelle preghiere, scorgi insieme questi due puntini, devi pronunciare il nome di Dio, anche se non è scritto per intero”. Continuammo a leggere con il Maestro, finché non trovammo, alle fine di una frase, i due punti. Erano egualmente due puntini quadrati, solo non uno accanto all’altro, ma uno sotto l’altro. Pensai che si trattasse del monogramma di Dio, perciò pronunciai il suo nome. Il Maestro disse però; “No, no, Uri. Quel segno non indica il nome di Dio. Solo là dove i puntini sono a fianco l’uno dell’altro, dove uno vede nell’altro un compagno a lui uguale, solo la c’è il nome di Dio. Ma dove i puntini sono uno sotto e l’altro sopra il primo, la non c’è il nome di Dio””.

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La festa odierna è una provocazione aperta sulla realtà di Dio e la nostra percezione di Lui. C’è una domanda insistente nel cuore dei credenti di tutte le religioni: Com’è Dio dentro di sé stesso? Come vive, cosa fa Dio? Fino a che punto gli interessa l’uomo? Perché gli uomini si interessano di Dio?… E così tante altre domande. Le risposte sono spesso convergenti e a volte divergenti, a seconda delle capacità della mente umana e l’esperienza di ciascuno. Il mistero di Dio è una realtà oggettiva che parla da sé, e che il cuore umano non può eludere, nonostante alcune forme di ateismo. Il mistero divino acquista per noi una luce nuova e valori sorprendenti, quando Gesù – Dio stesso in carne umana – viene a rivelarci l’identità vera e totale del nostro Dio, che è comunione piena di Tre Persone.

Con una certa facilità i manuali di catechismo sintetizzano il mistero divino dicendo che “Dio è uno solo in tre Persone”. Con questo è già detto tutto, ma tutto resta ancora da capire, da accogliere con amore e adorare nella contemplazione. Il tema ha una importanza centrale anche sul fronte missionario. Con facilità si afferma pure che tutti i popoli – anche i non cristiani – sanno che Dio esiste, quindi anche i pagani credono in Dio. Questa verità condivisa – pur con differenze e riserve – è la base che rende possibile il dialogo fra le religioni, e in particolare il dialogo fra i cristiani e altri credenti. Sulla base di un Dio unico comune a tutti, è possibile tessere un’intesa fra i popoli in vista di azioni concordate a favore della pace, difesa dei diritti umani, progetti di sviluppo… Ma questa è soltanto una parte dell’azione evangelizzatrice della Chiesa, la quale offre al mondo un messaggio che ha contenuti di novità ed obiettivi di maggior portata.

Per un cristiano non è sufficiente fondarsi su un Dio unico, e tanto meno lo è per un missionario cosciente della straordinaria rivelazione ricevuta per mezzo di Gesù Cristo, rivelazione che abbraccia tutto il mistero di Dio, nella sua unità e trinità. Il Dio cristiano è uno ma non solitario. Il Vangelo che il missionario porta al mondo, oltre a rafforzare e perfezionare la comprensione del monoteismo, apre all’immenso, sorprendente mistero del Dio, che è comunione di Persone. La festa della Trinità è festa della comunione: la comunione di Dio dentro di sé, la comunione tra Dio e noi; la comunione che siamo chiamati a vivere, annunciare, costruire fra di noi.

Trinità non è un concetto da spiegare ma una esperienza da vivere. Dopo aver scritto pagine profonde sulla Trinità, Sant’Agostino diceva: “Se vedi l’amore, vedi la Trinità”. Si può farne esperienza senza poterlo spiegare. Questo non significa rinunciare a pensare. Tutt’altro: significa pensare a partire dalla vita. Come fa la Bibbia, che ci fornisce una chiave di comprensione della realtà divina presentandoci dei fatti: non ci dice chi è Dio ma ci racconta quello che Egli ha fatto per il suo popolo. La liberazione dall’Egitto (Esodo) non è un’astrazione, è un evento, un’esperienza, il passaggio dalla schiavitù alla libertà; dal fatto si sale alla comprensione della realtà divina. E Gesù ci parla dell’amore di Dio usando le immagini familiari di papà, mamma, figli, amici.

Le tre letture di questa festa ci parlano successivamente delle tre Persone della Trinità Santa. Il Padre è presentato nel ruolo di creatore dell’universo (I lettura): Dio non appare solitario, ma condivide con Qualcuno -una misteriosa Sapienza- il suo progetto di creazione. Tutto è creato con amore; tutto è bello, buono; Dio si rivela innamorato, geloso della sua creazione (v. 30-31). Fortunato l’uomo che sa riconoscere la bellezza dell’opera di Dio (salmo responsoriale). Abbiamo qui anche i fondamenti teologici ed antropologici dell’ecologia e della bioetica. Il Figlio (II lettura) è venuto a ristabilire la pace con Dio (v. 1); e lo Spirito Santo riversa nei nostri cuori l’amore di Dio (v. 5). Il Dio cristiano è vicino a ogni persona, abita in essa, agisce a suo favore. Stimola alla missione.

Per il cristiano la Trinità è presenza amica, compagnia silenziosa ma rassicurante, come diceva santa Teresa di Lisieux, missionaria nel suo monastero: “Ho trovato il mio cielo nella Santa Trinità che dimora nel cuore”. Il mistero di Dio è così ricco ed inesauribile che ci sorpassa sempre. Gli apostoli stessi (Vangelo) erano incapaci di “portarne il peso”, per cui Gesù ha affidato allo “Spirito di verità” il compito di guidarli “a tutta la verità” e di annunciare loro “le cose future” (v. 12-13). La parte più ‘pesante’ del mistero di Dio è certamente la croce: il dolore nel mondo, la morte, la sofferenza degli innocenti, la morte stessa del Figlio di Dio in croce… Eppure, grazie alla luce-amore-forza interiore dello Spirito promesso da Gesù, anche questo mistero acquista senso e valore. A tal punto che Paolo (II lettura) si vantava “anche nelle tribolazioni” (v. 3); Francesco d’Assisi trovava la “perfetta letizia” anche nelle situazioni negative e lodava Dio per “sorella morte”; Daniele Comboni arrivò a scrivere alla fine della sua vita: “Io sono felice nella croce, che portata volentieri per amore di Dio genera il trionfo e la vita eterna”. Solo Dio-Amore può illuminare anche l’assurda follia della croce!

È Dio-Amore che sostiene i martiri e i missionari del Vangelo. Perché la Chiesa missionaria trae la sua origine dall’amore del Padre, fonte dell’amore, per mezzo del Figlio, con la forza dello Spirito, come insegna il Concilio Vaticano II (AG 2). Di qui il binomio inscindibile di amore-missione.