Ritiro di Firenze, 16 luglio 1961
Quarta meditazione

Noi abbiamo cercato di meditare in questo giorno alcuni versetti della Lettera ai romani, abbiamo riconosciuto che questa Epistola dice la nostra vocazione, abbiamo capito che la nostra vocazione è in fondo la vita dei figli: Ut sitis filii Patris vestri. Vivere la vita dei figli in una docilità umile, pronta, allo Spirito di Dio, vivere la vita dei figli per vivere nella lode del Padre, per essere anzi la lode del Padre.

Diverse cose ci sembra di avere, se non capito, intravisto: insegnamenti di ordine spirituale, di ordine metafisico. Dall’Epistola si potrebbe rilevare quello che è la creatura come tale nell’ordine voluto da Dio; di ordine anche teologico. Di fatto, il mistero della vita divina, il mistero trinitario, non si rivela all’uomo che nella economia della comunicazione divina, nella economia cioè di un Dio che si dona al mondo. Il mistero trinitario non si rivela come mistero inaccessibile e trascendente a noi uomini, come rivelazione pura di una verità che non ci tocca, che è estranea alla nostra intima vita: in tanto ci si rivela il mistero della Trinità, in quanto noi stessi siamo introdotti in questo mistero, in quanto questo stesso mistero diviene il mistero della stessa nostra vita interiore. Per lo Spirito Santo, di fatto, noi siamo uniti al Figlio, siamo fatti figli e nello spirito filiale onde siamo animati noi ci ordiniamo al Padre, viviamo la proclamazione della sua santità, siamo la sua lode: Laus gloriae, come dice San Paolo nella Lettera agli Efesini. È il termine che esprime la vocazione di Suor Elisabetta della Trinità: lode alla gloria del Padre, lode degna del Padre.

Vogliamo ora vedere quello che ci dicono i testi della Messa in riferimento alla dottrina di Paolo? Stamani si accennava al rapporto che può esservi tra l’Epistola e il Vangelo, così strano in questa Messa. Si parla di un amministratore, mentre nell’Epistola non si parla affatto né di amministratori né di servi: si parla di figli. Giustamente il servo deve render conto della propria amministrazione; ma proprio questo ci assicura Paolo: che non siamo servi e perciò che non dobbiamo render conto di una amministrazione.

Ma più del rapporto dell’Epistola col Vangelo mi piace considerare un poco il rapporto che vi può essere fra l’Epistola e l’Introito nella Messa di oggi. L’Introito, che la liturgia trae dalla festa della Purificazione di Maria, dice: “O Dio, noi abbiamo ricevuto la tua misericordia in mezzo al tuo tempio. Come è grande il tuo nome, così la tua lode fino all’estremità della terra. Di giustizia è ripiena la tua destra”. Nella festa della Purificazione di Maria, è l’umanità che riceve il Figlio di Dio. La misericordia di Dio che è il Figlio, che è il Cristo, la Madre lo depone nella braccia di Simeone. In Simeone è Israele che accoglie Gesù. Primo incontro di Gesù col suo popolo: incontro che è anche il dono che il Padre fa del Figlio suo a Israele. La Madre deve riscattarlo perché ogni primogenito appartiene al Signore, dice l’Epistola della festa della Purificazione. Deve riscattarlo la Madre, ma il primogenito che apparteneva a Dio ora riappartiene alla Madre, riappartiene al popolo d’Israele.

Il dono viene fatto in mezzo al tempio di Gerusalemme. Come è grande il dono di Dio, così è grande la sua lode ora fino all’estremità della terra, perché il mondo ha in Cristo da offrire al Padre una lode degna di Lui, degna del suo nome, una lode che è tale da rispondere all’esigenza della divina santità. Ma quello che nella festa della Purificazione si dice di Gesù, qui indubbiamente si dice di noi. Non è più celebrata la festa della Purificazione: nelle domeniche dopo la Pentecoste vien celebrato invece il mistero dell’azione dello Spirito Santo nella Chiesa di Dio. Il mistero del Cristo diviene il mistero di ogni anima. Quello che prima si è compiuto nel Cristo, ora si compie in ciascuno di noi. Per il medesimo Spirito che un giorno operò la concezione del Figlio di Dio nel seno della Vergine, ora si compie lo stesso mistero nel seno della Chiesa, nel seno di ciascuno di noi. La festa di questo incontro di Dio con l’uomo, di questo dono di Gesù all’umanità, che è la festa del 2 febbraio, diviene la festa del dono che Dio fa di Se stesso a ognuno di noi. E ognuno di noi riceve questo dono in mezzo al suo tempio.

Dove c’è lo Spirito, là c’è la Chiesa

Ecco: prima di tutto mi sembra che sia importante notare quello che l’Introito dice con le prime parole. Nell’Epistola si parla di questa vita trinitaria che trabocca nel cuore dell’uomo per il dono dello Spirito onde per questo dono noi siamo uniti al Figlio di Dio. Questo dono che Dio ci fa di Se stesso l’uomo come lo riceve? Come ciascuno di noi lo riceve? Dove lo riceve? È importante vedere sia il dove che il come, è importante notare come possa avvenire l’incontro di Dio con l’uomo. L’incontro suppone un luogo dove i due si incontrano; e il luogo è il “mezzo del tempio”. Dio scende nel tempio di Gerusalemme dove è Simeone. Sei tu che nella Chiesa accogli lo Spirito: non vi è possibilità di ricever lo Spirito se non dalla Chiesa. E giustamente, chiunque lo riceve, se anche visibilmente non fa parte di lei, invisibilmente è dentro di lei, è legato invisibilmente alla Chiesa visibile. Là dove è lo Spirito ivi è la Chiesa, ci dice Sant’Ireneo; perché è lo Spirito stesso che crea la Chiesa, fa di tutti noi il Mistico Corpo del Cristo. La Chiesa si rappresenta, si esprime esteriormente attraverso le strutture che sono proprie di questa Chiesa visibile, ma è l’espressione visibile di un mistero che è compiuto unicamente dallo Spirito. La Chiesa come Mistico Corpo del Cristo è la creazione dello Spirito di Dio. Perciò là dove è lo Spirito ivi è la Chiesa, perciò là dove è la Chiesa ivi è lo Spirito.

Tu non ricevi lo Spirito che vivendo nella Chiesa. Tu accogli lo Spirito soltanto nella misura che vivi nella Chiesa. In medio templi tui. La vita dell’anima cristiana, quanto più quest’anima vive di Dio tanto più è radicata nel seno della Chiesa, tanto più è nel cuore di lei. Sono indubbiamente necessari alla sua espressione visibile gli organi della gerarchia; ma le anime vivono tanto più intensamente nella Chiesa quanto più veramente ricevono lo Spirito di Dio. Possono essere insostituibili della Chiesa visibile il Papa e i Vescovi, ma più anche del Papa e dei Vescovi sono radicati nel seno della Chiesa i santi. L’anima che accoglie lo Spirito, che riceve lo Spirito per esser fatta figlia di Dio, per vivere il mistero di una sua filiazione, per vivere il mistero di un suo rapporto filiale col Padre, quest’anima vive nel seno della Chiesa, è il cuore della Chiesa.

Il contemplativo, ce lo ricorda Santa Teresa del Bambino Gesù, è il cuore della Chiesa. È il cuore che è nascosto, ma per il quale l’organismo medesimo vive. Il capo è visibile, ma non vive che per il cuore. Pensate quello che è il cuore in tutta la teologia veterotestamentaria: non ci dobbiamo rappresentare quello che è cuore e quello che è capo secondo i criteri di una fisiologia moderna, ma secondo quello che è il pensiero dell’ebraismo antico. Il cuore è tutto: è la sede del pensiero, oltre che degli affetti, è la sede della vita. In medio templi tui. Non si riceve lo Spirito che nella misura che siamo in questo centro, che siamo in questo cuore. E per il fatto stesso che ricevemmo lo Spirito, siamo in questo “mezzo” e in questo cuore. Da una parte non si riceve che essendo nel centro; dall’altra parte, ricevendolo, già questo medesimo fatto ci dice che siamo posti nel centro. Il contemplativo è dunque il cuore della Chiesa. Ecco quello che c’insegna l’Introito in riferimento all’Epistola. Abbiamo ricevuto il tuo Spirito, abbiamo ricevuto il tuo dono, la tua misericordia, abbiamo ricevuto Te stesso: nel seno di Dio, in questo cuore; lì avviene l’incontro, lì si consuma l’unione, lì si realizza il mistero per ognuno.

Adozione divina

Quello che segue, è ancora più grande: “Come grande è il tuo nome, così grande è la tua lode fino all’estremità della terra”. Si noti: la nostra vocazione non è quella di una nostra salvezza, di una nostra liberazione, di una nostra santità: Ita est laus tua in fines terrae: la nostra vocazione è quella di essere Dio, di far presente nella nostra natura umana tutta la infinita grandezza della divina santità. Certo, se è questa la nostra vocazione, non è detto che noi si esaurisca, che noi si possa pienamente realizzare. Ma questa esigenza divina insiste nell’uomo fintanto che non è realizzata; insiste sempre, fino alla morte. Fino alla morte noi non possiamo dire di averla adempiuta perché secundum nomen tuum ita est laus tua. La Iaus gloriaeche è propria di ognuno di noi, deve essere tale da rispondere all’infinita grandezza divina. Perché giustamente quello che è il Padre tu lo conosci dal Figlio; è il Figlio, dice Sant’Ireneo, la misura del Padre. Se il Figlio fosse inferiore al Padre, il Padre stesso non sarebbe. Quello che è il Padre è il Figlio. Non cercarlo al di fuori. E tu sei figlio e tu devi essere figlio.

Che grande verità è mai questa! Non un’altra santità che la santità stessa di Dio; non devi essere santo secondo una tua misura, ma secondo la misura di Dio. Perché se tu sei figlio, sei tu che proclami il Padre, sei tu che lo riveli, sei tu che lo fai presente. È in te che Egli vive, non fuori di te: fuori di te Egli non è. Se Egli è Padre, vive soltanto nel Figlio; non vive al di fuori del Figlio. Se è Padre vive soltanto per il Figlio, non vive al di fuori del Figlio. E tu sei il Figlio, devi essere il Figlio, indubbiamente. E non puoi esserlo che per lo Spirito Santo. Ma precisamente questa è la tua vocazione: di rispondere in qualche modo all’esigenza di una infinita santità, di adeguare la tua santità alla santità stessa di Dio. Come il Padre, così il Figlio. Però il Figlio è la lode infinita ed eterna, la lode adeguata alla santità del Padre, alla vita del Padre, in quanto è trascendente come il Padre, in quanto vive nella unità di una stessa natura col Padre. Ed è invece questo il mistero della vita soprannaturale: che noi dobbiamo esserlo; non lo siamo per natura, ma dobbiamo esserlo per grazia. E di fatto questo mistero avviene nel Cristo; di fatto questo mistero deve realizzarsi in ciascuno di noi, nella misura che ognuno di noi è chiamato ad essere figlio di Dio. Per adozione, certo; chiamato ad essere cioè a divenire; realmente però, perché questa adozione realmente ci fa anche figli.

Dicevo dianzi, la proclamazione del nome. Si parlava della mistica islamica: tutta la vita religiosa consiste nel dire: Allah è e Maometto è il suo profeta. Parole immense che vogliono dire che Dio solo è Dio. Dio è Dio e il resto non è nulla. Tanto che i mistici hanno detto che la seconda parte della proclamazione è una bestemmia; non deve esser detta perché implica l’eresia dell’associazione, come comporterebbe l’eresia dell’associazione anche, secondo loro, il mistero della Trinità. Dio è Dio. Dio solo: Dio l’Assoluto. Ma perché allora tu lo proclami? Se esige una proclamazione, si esige per qualcuno. Ma una proclamazione della gloria divina avviene già nel mistero della Trinità fra il Padre e il Figlio. È il Figlio infatti che è la proclamazione della gloria del Padre: Egli dice: Padre! E il Padre dice: Figlio! Questa è la loro vita, questo è il loro essere.

Tutta la creazione è per dire Dio

La nostra vocazione chiama, associa in qualche modo tutta la creazione al Figlio stesso di Dio per proclamare la santità divina. Cioè la creazione, è chiamata a far presente Dio. Tutta la vocazione della creazione è quella di far presente Dio, di far posto a Dio. Come il Figlio nel dire “Padre” in qualche modo si eclissa, nel glorificare il Padre in qualche modo scompare, come Egli non è che per dire “Padre”, non è che in quanto afferma il Padre, che in quanto glorifica il Padre, che in quanto è la gloria del Padre e fa presente il Padre, così tutta quanta la creazione non è che per far presente Dio. Sant’Antonio, Cassiano, quando ci parlano di una preghiera pura in cui l’uomo in qualche modo non ha più nemmeno coscienza di sé, quando ci parlano di questa mistica, di questa esperienza, ci parlano forse di una distruzione antologica della creatura come tale? No, ci dicono invece quella che è la funzione specifica della creazione, quella che è la vocazione suprema della creazione: quella di far posto a Dio. lo sono per dire Lui; io sono come un vuoto che deve essere da Lui riempito, come capacità che Egli deve colmare. lo sono perché Dio sia. Le parole dell’Eckhart, che non sono state condannate da Giovanni XXII: “che Dio sia Dio io ne san causa”, certo sono un po’ troppo forti se le prendete alla lettera, eppure sono vere. Per te Dio è nella misura che gli fai posto; per te Dio realmente è soltanto nella misura che tu non sei, che tu ti eclissi per far posto a Lui.

Il vivere è esser figlio. E tu non sei figlio che morendo a te stesso, che venendo meno a te stesso nella povertà, nell’umiltà, nella purezza, in quelle beatitudini che sono precisamente il venir meno della creatura a se stessa per far posto al Signore, perché si faccia presente nella creatura la pura luce, l’infinita luce di Dio, il Regno del Padre.

Suscepimus, Deus, misericordiam tuam in medio templi tui. Viver nella Chiesa, dunque esser nella Chiesa, radicati nel seno della Chiesa, nel più intimo della Chiesa, sentirci veramente cuore della Chiesa. Non vivere ai margini, non vivere all’esterno: sentirci veramente ed entrare nel più intimo di lei perché lì riceveremo lo Spirito e ricevendo lo Spirito noi saremo la lode. È il Figlio la lode di Dio. E la lode di Dio in noi veramente riempirà tutti gli abissi della creazione, come la lode del Figlio di Dio riempie tutta l’infinita vastità della Divinità. La nostra lode è piccina, in verità, però colma veramente tutti gli abissi della creazione; deve colmarli!

Ricordarci che Dio è presente, che Dio è qui. Non son cose che possiamo rimandare a domani. Dio è l’eterna presenza. In ogni tuo atto tu devi vivere questa comunione di amore, questo atto nuziale, onde tu consenti allo Spirito perché lo Spirito t’investa, onde ti abbandoni allo Spirito perché lo Spirito ti possegga, onde ti affidi allo Spirito perché lo Spirito ti fecondi di Sé, perché in te si faccia presente Gesù, perché in te sia concepito Gesù, nasca Gesù e Gesù sia la lode del Padre. E tutta la tua vita non sia più che la proclamazione di Dio Padre, nello spirito dell’adozione a figlio, onde noi chiamiamo “Abbà, Padre”.

L’unione nuziale totale

Ecco tutta la vita. Ma per questo, dicevo, in ogni tuo atto devi vivere l’unione nuziale con Dio. Non come vivono l’uomo e la donna: sono marito e moglie, ma quando vivono l’unione nuziale? In alcuni istanti. E anche in quegli istanti lì il dono non è mai pieno; perché proprio in quell’atto vengono sospese le funzioni spirituali, onde di fatto è impossibile il dono: perché quale dono è il tuo se non puoi donare lo spirito? L’atto supremo dell’amore nel piano creato è un atto di umiliazione senza fine. Mentre tu devi vivere ogni tuo atto come atto di unione con Dio, consenso a un’azione divina che entra in te e ti possiede, a un’azione divina che vuole investirti e fecondarti di sé; consenso a un’azione divina che ti feconda perché in te in ogni istante si faccia presente Gesù, il frutto di questa unione e perché nella presenza del Cristo tu sia la lode di Dio, tu possa proclamare non la unicità di Dio soltanto ma la sua santità. E non la santità di un Dio astratto, impersonale, che non ha rapporto con te, ma del Padre perché tu realmente sei figlio in quest’atto.

Come vivere dunque tutto questo? Il consenso è l’amore, è il dono di te allo Spirito. Tu devi vivere in ogni istante il dono totale di te a Dio che anche a sua volta a te si dona, a te si comunica tutto. Di questo dono reciproco e reale il frutto è Cristo: Cristo che vive in te, Cristo al quale tu ti identifichi, Cristo che in Sé ti assume come figlio nel Figlio per farti vivere, per farti essere quello che Egli è, il Figlio stesso di Dio. E allora, per tutto questo che cosa fare? Vivere questo amore in concreto con semplicità, ma senza nulla sottrarre. E soprattutto non dico sottrarre qualche cosa della nostra volontà, ma non sottrarre nulla della nostra fede. Perché quello che sottraiamo a Dio massimamente è la nostra fede. Crediamo, ma fino a un certo punto; crediamo, ma sempre con molte riserve; crediamo, ma con una fede assai languida.

Pensiamo di vivere ora questo immenso mistero che è tutto il mistero della vita soprannaturale! Perché in ogni atto, veramente, è tutto il mistero di Dio. La Chiesa, la Pentecoste, la Morte di Croce, tutta la storia della Chiesa, tutta la storia d’Israele, tutto in ogni mio atto lo vivo, tutto in ogni mio atto si fa presente, tutto in ogni mio atto è realmente presente e vissuto da me. Vivo io tutto questo? Vivendo io il dono dello Spirito vivo il termine di tutto questo disegno divino, ne vivo il compimento. Ma nel compimento sono già incluse tutte le preparazioni, tutte le disposizioni, tutte le condizioni a questo mistero. In ogni atto vivo tutta l’immensa grandezza del mistero divino così come si è svolto nel tempo.

Abbiamo noi fede? Il dono reale di noi stessi a Dio suppone che io mi doni a Dio senza riserve, ma la riserva maggiore che noi facciamo è quella della nostra fede. Crediamo sì, non ci rifiutiamo totalmente alla grazia, ma non ci doniamo interamente a Dio; non ci rifiutiamo totalmente perché, sì, crediamo fino a un certo punto, pensiamo che realmente qualche cosa di grazia agisce in noi, che Dio qualche cosa fa nell’intimo nostro, che non siamo totalmente estranei a questa benevolenza gratuita di Dio. Ma crediamo invece di essere il termine di questa gratuità immensa? Crediamo davvero in ogni istante che tutto Dio si piega verso di noi e a noi si dona? Tutto Dio in ogni tuo istante, in ogni tuo atto! Questo atto tu non lo vivi in preparazione dell’atto onde Egli si donerà a te: ora e qui Egli a te si dona. Semper et ubique. Deve esser pura, grande, immensa la tua lode, perché semper et ubique Egli si dona a te. Vivere questo vuol dire trasformare ogni luogo nell’immensità divina, ogni istante nella pura eternità; vuol dire vivere in ogni tuo atto la vita incommutabile e pura di Dio. Tutto è segno di uno stesso mistero che è la plenitudine infinita di Dio, che è l’immensità pura del suo amore.

Ma ecco, vorrei dirvi questo: che la grandezza di questi misteri non ci abbagli! Non rifiutiamo fede al mistero divino, ma non è necessario averne una consapevolezza piena, che è anche impossibile, in ogni atto, per vivere realmente il mistero. Quello che si impone a noi è vivere nell’umiltà della fede e non voler escludere, non voler mai, noi, misurare il dono divino. Vivere nell’umiltà, nella pace. Vivere nel silenzio interiore, vivere nell’abbandono alla grazia.

Umiltà, raccoglimento, pace: sono queste le disposizioni di un cuore che accoglie Dio, vive in Lui e lo possiede. Vi saranno indubbiamente nella vostra vita dei momenti in cui certi veli si apriranno e voi vedrete, e voi anche esperimenterete la grandezza del dono, almeno in una certa misura ma normalmente, non è dato viverlo sempre con la stessa intensità.