Ritiro di Firenze, 16 luglio 1961
Terza meditazione

Ecco dunque il modo per vivere: quello di morire. Il cammino che porta alla vita è un cammino di morte: morire a noi stessi per vivere a Dio. Le parole dell’Apostolo Paolo ci richiamano quello che è il programma della Comunità: le Beatitudini. Noi saremo veramente testimoni di Dio, noi veramente dimostreremo che Dio è presente nel mondo, proprio in questo venir meno a noi stessi, in questo lasciar posto nella nostra anima a Lui. Ci sembra proprio che questa sia la formula esatta della vita spirituale: lasciar posto al Signore, divenire una capacità che lo accoglie, lasciarci assumere da Lui, lasciarci possedere da Lui nella pace e nell’umiltà, nella dolcezza, nella purezza, nella semplicità. Le Beatitudini: questa è la vita dello Spirito. La lampada brucia consumando l’olio: lo Spirito di Dio vive nel cuore umano vivendo di noi, alimentandosi di tutta la nostra natura. Umiltà e purezza.

Ma l’Apostolo prosegue e nel proseguire egli non soltanto ci dice che vivere per noi vuol dire abbandonarci allo Spirito. Non soltanto ci dice che l’atto, in fondo, che ci è richiesto, è soltanto un consentire alla sua forza, un lasciarci possedere da Lui, ma ci dice anche qual è l’opera dello Spirito. “Se noi vivremo…”. Che cosa vuol dire per noi vivere? Vuol dire divenire figli. L’opera dello Spirito è la concezione del Verbo Incarnato, come abbiamo cantato stamani nel Credo: de Spiritu Sancto ex Maria Vergine. Mossi dallo Spirito Santo noi diveniamo i figli, siamo i figli. Ecco l’elemento positivo della vita cristiana: partecipare alla relazione del Figlio Unigenito al Padre; vivere questa relazione di amore; anzi, essere questa relazione di amore. Perché il Figlio non è se non in relazione al Padre: Relatio subsistens e proprio perché è pura relazione di amore, in Sé e per Sé non è nulla. Se anche le Persone in Dio in Sé e per Sé non sono nulla, quanto meno sarà in sé e per sé qualche cosa, l’uomo che allo Spirito di Dio si abbandona?

Non vi sembra che sia giusto, dunque, questo morire, se in fondo anche le Persone divine in quanto sono pura relazione di amore, in Sé e per Sé non sono nulla e perciò in Sé e per Sé vivono in qualche modo una certa morte a Se stesse? Non si può dire che vivono una certa morte, intendiamoci bene: perché? Semplicemente perché per morire bisogna che prima si posseggano. Ora, la Persona divina non si possiede mai, per poter poi rinunciare a Se stessa; ma l’uomo sì, si possiede. Si possiede prima, in quanto creatura perché la legge della creatura è l’egoismo; si possiede poi per doppia ragione per il peccato, perché nell’egoismo la creatura ancora di più si chiude e si difende dalla grazia. Ora, essere investiti dallo Spirito per noi vuol dire dunque una duplice morte: morire in sé come creatura in quanto la creatura come tale non ha altra legge che quella di un certo egoismo: solo a Dio appartiene l’agape, anzi, l’agape è Dio stesso. Per questo vedete, non solo ogni creatura umana, ma anche quella creatura che è l’umanità sacrosanta del Verbo perché l’umanità è creatura, anche nel Figlio di Dio, anche questa umanità, partecipando alla vita del Figlio, vivendo in questa umanità il Figlio di Dio, questa natura umana non può sussistere nel Figlio che morendo a sé.

Che cos’è la vita del Figlio di Dio nella sua natura umana se non la presenza dell’atto di morte? Quando si fa presente sopra l’altare per noi, Gesù non si fa presente precisamente in questo atto di morte? Ora che è nel Cielo, nella sua natura umana che cosa vive Gesù se non un morire a sé per vivere in Dio? Beati mortui qui in Domino moriuntur. L’atto della morte non è superato, l’atto della morte non viene oltrepassato: morte e vita in Cristo rimangono elementi indistruttibili di un solo mistero, come in ogni creatura. Perché la natura non può vivere la vita divina che venendo meno a se stessa, che strappandosi a sé, all’egoismo proprio della creatura come tale per vivere questa pura relazione di amore al Padre Celeste.

Qui Spiritu Dei aguntur, hii sunt filii Dei (Rm 8,14)

Mossi dallo Spirito Santo, dunque, docili all’azione di questo Spirito, investiti dalla forza di questo Spirito, che cosa noi vivremo se non un amore che ci strappa a noi stessi? Un amore che ci libera da ogni nostra autosufficienza e ci ordina a Dio? Una vita che implica una morte? Qui Spiritu Dei aguntur, hii sunt fitii Dei. È precisamente perché siamo figli che viviamo la morte. Non viviamo la morte che in quanto siamo figli, perché precisamente questa morte è l’elemento negativo di una vita divina. Dio si fa presente in te strappandoti a te stesso, per ordinarti totalmente a Sé. Pura relazione di amore: ecco che cosa devi essere. Non lo sei perché sei peccatore, non lo sei perché sei creatura. Peccatore, devi morire al peccato; creatura, devi morire a questa legge che ti difende contro l’agape, per vivere anche, vinto ogni peccato, la morte del Cristo, che vive nella sua natura umana la vita del Figlio in questa sua oblazione pura di amore che è la morte di Croce.

Che cosa è dunque morire per noi? Vuol dire amare. Non è altra cosa che questo. Nemmeno la povertà è amata per sé, né la purezza, né l’umiltà: l’umiltà, la purezza, la povertà, non sono che il volto dell’amore, non sono che questo venir meno a noi stessi perché in noi non viva più che il Signore, Lui solo. Tu non sei più nulla. In te e per te tu devi far posto a Dio. Vivere per noi, vuol dire essere il Figlio. E proprio perché per noi vivere vuol dire essere il Figlio, essere il Figlio anche vuol dire non essere più noi stessi, non essere più per noi stessi, non vivere più per noi: non vivere più in noi ma vivere un’estasi eterna di amore che implica eternamente la morte. Il Figlio di Dio vive dall’eternità per l’eternità l’oblazione di Sé al Padre Celeste. La vive non come morte nella sua natura divina, perché la natura divina non ha come legge l’egoismo, ma vive la morte nella sua natura umana: Gesù Crocifisso. Se così la vive il Figlio di Dio nella natura umana che ha assunto, quanto più dovremo viverlo noi questo continuo strapparci a noi stessi per ordinarci al Signore, per non vivere più che davanti al suo Volto! E da figli di Dio, relazione pura di amore, non potremo vivere più che quello che dice qui S. Paolo, il canto della lode infinita, il canto della lode eterna: “Abbà, Padre!”.

Rivelatori del Padre

Che cos’è “Abbà, Padre”? La vita religiosa è la testimonianza del Padre. L’unicità di Dio implica un annientamento della creatura. “Nulla resiste tranne il volto di Allah”, dice il Corano. La creatura non può sussistere dinanzi a Dio. La proclamazione dell’unicità di Dio implica la distruzione dell’essere creato: Dio non è Uno fintanto che tu sussisti. Dio è unico. Questo per l’lslam. Non così per noi. Anche per te la vita religiosa è la proclamazione di Dio: Dio è. Ma quale Dio se non il Padre? E il Padre come può essere se non in questa relazione del Figlio? Il Padre è soltanto per il Figlio e nel Figlio. in Sé e per Sé non è. Ecco che Dio esige da te la Sua vita, chiede a te di essere. Come senza il Figlio non sarebbe il Padre, così in ugual modo Dio non è senza di te, per te. Sei tu che gli dai vita, è per te che Egli vive.

Pensa dunque quale vita tu devi vivere se devi dare vita a Dio, se devi proclamare con la tua vita il Padre Celeste. “Abbà, Padre!” non è una parola. Sarebbe tanto facile dire “Abbà, Padre”. Ma il dire il Padre vuol dire farlo presente, vuol dire far presente la santità infinita di Dio. Proclamazione della santità del Padre fatta dall’uomo: tu devi render presente in te e per te un Altro, il Padre Celeste. Lo puoi fare perché è lo Spirito Santo che ti muove e perché muovendoti lo Spirito, tu sei il Figlio. Non c’è possibilità di una proclamazione della santità del Padre da parte dell’uomo se non è lo Spirito Santo che nell’uomo la proclama. E non vi è possibilità per lo Spirito di proclamare la santità del Padre che in quanto lo Spirito opera in te una certa incarnazione del Verbo, una certa unione col Verbo: ti unisce al Figlio di Dio, ti fa figlio di Dio nel Figlio Unigenito.

E da figlio tu gridi: “Abbà, Padre!”. È tutta la vita cristiana. E che cos’è la vita cristiana in queste parole di Paolo? È la vita trinitaria, la vita stessa di Dio. E che cos’è allora la creatura in questa vita trinitaria che si esprime nel testo di Paolo? La creatura è pura condizione a un moltiplicarsi, direi, infinito di Dio in ognuno di noi. Ognuno di noi è soltanto una capacità di accogliere Dio; ognuno di noi è una condizione perché Dio moltiplichi in qualche modo Se stesso, la sua beatitudine, la sua santità, la sua pace. Egli rimane l’unico e pur tuttavia in ognuno di noi vive, così che ognuno di noi lo possiede. Rimane l’unico ed è tutto in tutti. Che cos’è la vita eterna se non il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo? Ed è lo Spirito che vive in te e vivendo in te lo Spirito tu sei figlio. E tu non sei figlio che in quanto tu contempli il Padre, che in quanto lo ami, che in quanto ne proclami la santità. “Abbà, Padre”.

Non si è mai soli

Ma ci rendiamo conto di quello che vogliono dire queste parole? E soprattutto, ci crediamo davvero che sia lo Spirito Santo a muoverci? Noi temiamo dei mistici. Noi tanto più temiamo del linguaggio dei mistici indù o musulmani; ma il linguaggio della teologia cristiana, il linguaggio dei testi della Scrittura, non è anche più ardito del linguaggio dei mistici, dei più arditi che il mondo abbia conosciuto? Troppo spesso noi scambiamo lo Spirito Santo coi nostri sentimenti, con quello che è invece il nostro medesimo spirito. Ma se noi possiamo scambiare lo Spirito Santo col nostro spirito, questo errore non ci deve mai indurre a dimenticarci che veramente nella vita cristiana Dio stesso agisce nell’uomo, che nella vita cristiana noi siamo organi di un Dio che agisce attraverso di noi. Quale rispetto, quale riverenza noi dovremmo avere davanti a Dio che opera nell’anima nostra! Come dovremmo sentire la grandezza della nostra povera vita! Non si tratta dei doni dello Spirito, non si tratta di un’azione che può essere più grande, può essere più santa dell’azione onde Dio crea le cose: non si tratta di questo. Si tratta di Dio stesso, che interviene direttamente e personalmente nella tua vita e vive in te, e vive attraverso di te, e opera attraverso le tue stesse potenze, onde tu agisci soltanto in una pura passività di fronte alla sua azione. Agire per ognuno, consiste nel consentire all’azione divina.

Ci rendiamo conto che nella nostra vita due sempre vivono? Nella nostra vita noi viviamo continuamente questa unione nuziale onde il nostro atto è l’atto congiunto dello sposo e della sposa, di Dio e dell’anima che proprio nell’atto di grazia sono ineffabilmente congiunti sicché questo medesimo atto è dell’uno e dell’altro nello stesso modo? Ci crediamo? Quale mistero! Qui Spiritu Dei aguntur. San Paolo ne parla come della cosa più comune, più ovvia: a noi sembra così straordinario! Così incredibile! Dio! Tu non sei solo. L’essere solo per l’uomo è proprio la perdizione. Ma proprio colui che vive solo vive la sua comunione con Dio. Noi siamo davvero soli quando siamo accompagnati, perché mai come quando ci distraiamo perdiamo il contatto con questo Dio che agisce nell’anima nostra. Invece non siamo mai meno soli di quando siamo davvero soli, perché proprio quando siamo soli noi possiamo avere maggiore attenzione e vivere in maggiore abbandono e docilità all’azione dello Spirito Santo che agisce nel più profondo di noi. E non sei mai meno solo di quando sei solo, perché Dio è più intimo a te di te stesso, e proprio quando sei solo ne percepisci l’azione, e proprio quando sei più solo tu ne avverti la presenza segreta: quando proprio sei più solo tu puoi consentire alla sua azione intima e casta.

Renderci conto che precisamente lo Spirito Santo agisce attraverso la nostra vita. Basta che noi consentiamo: non siamo noi che possiamo invocarlo quasi che Egli fosse lontano, quasi che dipendesse dalla nostra preghiera il fatto che Egli venga a noi, il fatto che Egli ci muova. Egli ci muove: anche nella stessa preghiera onde noi lo invochiamo è Lui che agisce. E dunque non abbiamo da fare sforzi per essere investiti dall’azione di questo Spirito. Non dobbiamo aspettarla domani: dobbiamo consentire in questo stesso momento. Ma il consentire all’azione dello Spirito, ricordiamolo bene, non solo ci porta a questo morire a noi stessi, non soltanto ci strappa a noi stessi, a ogni egoismo ma ci fa figli nel Figlio, ci unisce a Cristo, ci fa un solo Cristo. Non solo: ci fa vivere la morte del Cristo. In noi si fa presente Gesù nella sua Morte, in quella purezza di amore, in quella pienezza di amore che Egli ha vissuto quando è stato tratto sulla sommità della croce, per rimanervi per sempre. Oh, vivere la vita dello Spirito! Che cosa abbiamo da perdere se pure questa azione dello Spirito ci porterà a maggiore purezza, a maggiore umiltà? Se pure ci farà discendere negli abissi della povertà? Se pure ci farà discendere in una dolcezza senza fine? Che abbiamo da perdere? Perché non consentiamo? Perché resistiamo alla grazia? Perché non vogliamo strapparci a noi stessi abbandonandoci a Lui?

Dare Dio a Dio

È Dio che entra in noi. Una vita divina si dispiega nell’anima nella misura che noi consentiamo a questa azione divina. Morire per vivere. Morire noi, a noi, perché in noi viva Dio.

Figli di Dio: non è il nostro programma? Si diceva stamani: è la nostra vocazione, questa. Allora la nostra vocazione implica per sé questa attenzione allo Spirito, questa docilità pura allo Spirito, questo abbandono di tutto l’essere nostro alla forza dello Spirito, sicché la forza dello Spirito ci trascini per questa via di umiltà, di semplicità e di amore; per questa via di dolcezza, di purezza divina. Bisogna abbandonarsi a questa azione dello Spirito per morire a noi stessi, per lasciar posto al Signore, perché in noi si faccia presente Gesù, perché noi viviamo nel Cristo, perché il Cristo viva in noi. Allora dunque, figli di Dio, noi non viviamo più che l’atto eterno del Verbo che vive nella eterna contemplazione del Padre, che vive il suo amore al Padre, che vive la proclamazione della santità del Padre. Questo è infatti il Verbo divino, la gloria del Padre. Egli cioè, manifesta, rivela quello che il Padre è. Senza il Figlio nemmeno il Padre sarebbe; è il Figlio che fa presente tutta la gloria del Padre, tutta la sua vita. Senza di te neppure Dio è. Questa deve essere la tua vita: come se senza di te Dio non fosse. E di fatto Dio non è, che in quanto in te Egli vive, che in quanto tu gli hai dato posto nel tuo cuore perché in te Egli si faccia presente. Quale programma! Non sei più tuo. Tu sei, ma sei soltanto per dire il Padre; tu sei, ma sei soltanto per proclamare il Padre. Perché Allah ha bisogno di una proclamazione della sua unicità? Se ne ha bisogno è segno che non è solo. Se veramente è unico e solitario non ha bisogno di una proclamazione. Nel Cristianesimo è il Figlio che proclama il Padre, e il Padre il Figlio; ma dove Dio è soltanto Uno, ogni proclamazione già lo duplica. Perciò, ogni esperienza religiosa implica la Trinità! Anche l’esperienza religiosa di un musulmano, come l’esperienza religiosa dell’indù. Ma tu devi proclamare il Padre, tu, tu, cristiano. lo devo proclamarlo, perché in me vi è il Figlio, perché in me deve vivere il Figlio, perché mosso dallo Spirito io devo essere il Figlio.

È certo che siamo adottati: siamo infatti creature. Ma l’adozione è un’adozione reale: ci fa realmente figli di Dio. E figli noi siamo soltanto nella misura che, dimentichi totalmente di noi stessi, strappati totalmente a noi stessi, morti totalmente a noi stessi non vivremo più che la pura luce della visione di Dio, che la pura visione del Padre. Noi dobbiamo vivere questa vita. Nella misura che la viviamo, lo Spirito Santo stesso renderà testimonianza a noi di vivere questa vita. Nella misura che la viviamo, lo Spirito Santo stesso renderà testimonianza in noi che siamo questi figli. Noi sentiremo di vivere questa vita beata, noi già possederemo questa pienezza di luce, noi già vivremo nella pace di Dio che in Sé ci accoglie. Che cosa fare per questo? Una cosa semplicissima: non c’è altro da fare di quello che dice San Paolo all’inizio dell’Epistola: Si Spiritu facta carnis mortificatis. Il vivere vuol dire per te questo: essere il Figlio ed essere il Figlio non vuol dire che proclamare il Padre. Non c’è altra vita che la vita eterna e la vita eterna, dice San Giovanni nella Prima Lettera, è il Figlio stesso di Dio.

Ogni atto, sia atto «coniugale»

Ecco dunque che cosa vuol dire per te vivere: vuol dire divenire il Figlio, essere il Figlio. Ut sitis filii Patris vestri. E allora se tutto sta in quelle prime parole dell’Apostolo Paolo, che cosa fare? Vivere in un’attenzione dolcissima, pura, allo Spirito che è in te. Vivere ogni istante la tua unione nuziale con Lui: cioè renderti conto in ogni tuo atto che non sei solo a operare o piuttosto: puoi essere solo a operare nella misura che tu sfuggi a questa unione con lo Spirito. Non ti è dato vivere altro. L’uomo è stato creato per le nozze divine. L’essere creato è un essere coniugale, dice Evdokimov. La creatura come tale, nella sua più intima essenza, è un essere coniugale: non vive che nell’istante che si congiunge, non vive che nell’atto della sua unione con lo Spirito per generare il Figlio, per essere il Figlio. In ogni tuo atto non vivere solo, senti di vivere l’unione: non vivi in ogni tuo atto che l’unione con Dio nello Spirito, per lo Spirito, nel Figlio al Padre. In ogni tuo atto tu vivrai dunque, attraverso il consenso di te, il consenso della sposa allo Sposo divino, non vivrai più che la vita eterna incommutabile, immensa, pura, di Dio: la sua pace, la sua beatitudine somma, la sua santità.