La vita nella luce.

[Il terzo tema teologico – la vita nella luce, la mistica, – è estratto dal testo di MARCO VANNINI: Beati i poveri in Spirito – attualità di Meister Eckhart – Lindau 2022. Pag. 10-44]     

—La stretta relazione tra cristianesimo e filosofia.

Essa può apparire paradossale, ma solo perché entrambi i termini sono intesi in modo erroneo. Da un lato si prende il cristianesimo come una credenza religiosa, un complesso di dottrine, e dall’altro la filosofia come attività intellettuale dai possibili infiniti esiti. I due termini risultano chiari se del cristianesimo prendiamo non la credenza ma l’insegnamento del Vangelo, e lo stesso della filosofia intendendola secondo la su origine come un genere di vita fondato sull’amore, della verità, con un unico esito possibile.

L’appello alla sequela di Gesù è quello del completo distacco, fino alla rinuncia di sé stessi, alla morte dell’anima, e lo stesso è per la filosofia, definita da Platone “esercizio di morte”, sintetizzato da Plotino “distaccati da tutto”. Identico dunque l’itinerario e identico risultato: la completa chiarezza, la piena luce, la perfetta letizia qui e ora presente.

Appartiene in proprio anche al cristianesimo -non solo alla filosofia- la ricerca di ciò che l’uomo è davvero, e dunque la scoperta di quello che Platone chiama “uomo interiore”, essenziale, ben distinto dal superficiale, accidentale “uomo esteriore” come pure l’esito, la somiglianza con Dio, fino alla comunione con Lui, luce nella luce, spirito nello spirito. Fra l’altro Meister Eckhart afferma: L’anima e Dio sono una cosa sola.

Aristotele individua con precisione l’intelligenza libera, il “nous”, non determinata e condizionata da niente, elemento divino presente nell’anima stessa (1Cor 2,10-16) parla dello Spirito che penetra anche “le profondità di Dio”, per cui “l’uomo spirituale tutto giudica” e ha il “nous” (pensiero, spirito di Cristo). Gal 2,20 afferma “Non sono più io che vivo, ma è Cristo vive in me”. Sulla coincidenza tra “fondo dell’anima” e “fondo di Dio” in Eckhart.

Il messaggio evangelico che insegna la necessità della fine dello psichismo, ovvero dell’egoità, lo scavo nelle profondità dell’anima, perché nasca, o emerga, lo spirito, che è ciò che veramente siamo e che è Dio. In quanto ricerca interiore, la mistica è l’essenza reale del cristianesimo, esperienza della verità come soggetto (Gv 1, 4-5; 8,12; 14,6).

Il messaggio di Gesù è liberazione delle dottrine religiose aprendo lo sconfinato orizzonte dello spirito, realtà essenziale dell’essere umano, regione che solo amore e luce ha per confine, come hanno compreso i mistici, ovvero i sapienti di ogni tempo e luogo: S. Agostino “Non uscire fuori di te, rientra in te stesso. La verità abita nel profondo dell’uomo; e se troverai che la natura è mutevole trascendi anche te stesso. Ricordati però, mentre trascendi te stesso, che trascendi un’anima razionale: tendi dunque là dove si accende la stessa luce della ragione […]. Questo si vede là dove è la luce, senza spazio di luogo o di tempo, rappresentazione di questo spazio di luogo o di tempo, e senza alcuna rappresentazione di questi spazi. 

Questa luce del cielo, che al di sopra di noi, splende al di là di tutte le cose, al di là dell’universo, nei mondi superiori, al di sopra dei quali non v’è più niente, questa luce è certamente la stessa luce che è dentro all’uomo”.

—Lo spirito e l’anima.

La prima cosa, fondamentale, è reintrodurre il concetto e la realtà dello spirito, grande assente della nostra cultura, tanto laica quanto religiosa. Lo Spirito è luce dell’intelligenza pienamente dispiegata, ricca essa stessa dell’amore, del Bene, e piena di una letizia immensamente superiore a ogni altra gioia. Simone Weil inizia la sua “professione di fede” nell’affermare “V’è una realtà situata fuori del mondo, vale a dire fuori dello spazio e del tempo” che è appunto quello dello spirito. Esso è fuori da ogni determinazione, fuori dalla molteplicità, in quanto è distacco, negatività assoluta.

Esso è quel che è, e che noi siamo. Eckart “molta gente semplice immagina Dio lassù e noi quaggiù. Ma non è così: Dio e io siamo una cosa sola”, luce nella luce” Quando l’anima non si disperde nell’esteriorità giunge a sé stessa e risiede nella luce, semplice e pura. Pura e isolata, l’anima viene a consistere unicamente dalla sua propria luce.

Cé una luce nell’anima, dove mai è penetrato il tempo e lo spazio. Tutto ciò che il tempo e lo spazio hanno ma toccato, mai è giunto a questa luce. E in questa luce l’uomo deve permanere. Angelus Silesius recita: Sono una luce eterna, che brucia ininterrotta: olio e stoppino è Dio, il mio spirito il vaso.

Questa luce, questo io sono davvero. Qui è la conoscenza di sé. Qui “il fondo di Dio è il mio fondo, e il mio fondo è il fondo di Dio. Qui “io vivo secondo il mio essere proprio, così come Dio vive secondo il suo essere proprio” (Eckart).

Quando si conosce il “fondo dell’anima”, allora l’egoità psichica appare per quella che è: manifestazione dell’autoaffermatività della volontà privata – amore di sé stesso, amore del bene personale – senza valore di verità, e perciò male, peccato.

Eckhart e Simon Weil “il peccato mi dice “io”. Io sono tutto, Ma questo io è Dio, e non è un io. Io sono assente di tutto ciò che è vero, o bello, o bene, Io pecco. Tutto ciò che io faccio è cattivo, senza eccezione, compreso il bene, perché io è cattivo. Dire “io sono libero” è una contraddizione, perché dire “io” è ciò che in me non è libero. Non c’è assolutamente nessun altro libero che ci sia permesso, se non la distruzione dell’io”. Illusione quella libertà del volere da parte di un io, in realtà tutto condizionato dalle circostanze spazio-temporali.

La psiche è tutta nell’ambito dello spazio e del tempo del mondo della molteplicità, che sta oltre del determinismo. Illusione perciò il libero arbitrio: in quanto psichismo, il pensare e l’agire dell’uomo hanno la stessa libertà che ha una pietra che cade. Sentimenti, pensieri, vanno e vengono, tutti rigorosamente determinati.

Illusione quella dell’“io” come entità psicologica, da cui deriva l’attaccamento all’io e al mio, ovvero la malattia dell’anima. Accidentalità di questo “io”: il vero io è ciò che appare quando il soggettivismo psicologico è rimosso. Bisogna dire che il vero io non è un io, in quanto io indica una qualche determinazione. Di qui la paradossale affermazione di Simone Weil “Essere orgogliosi è dimenticare essere Dio” ovvero anteporre l’egoico io psichico al vero essere. La possibilità di dire “io” solo Dio può dirlo a buon diritto. 

L’uomo quando ha riconosciuto che il superficiale “io”, cui aveva dedicato tanto interesse, non ha vero essere, e il suo vero essere è quello di Dio. La coscienza di essere è la distruzione della coscienza di essere questo o quel…solo Dio può dire davvero Ego, “io”.

Il modo migliore per usare il termine, è indicare è l’esperienza di non essere noi propriamente questo corpo corruttibile, questa mutevole psiche, ma un’altra cosa, una realtà assoluta che siamo per essenza, ma cui si accede solo spogliandosi della “mera unilaterità” che costituisce – o, meglio, sembra costituire – il nostro io . Questa non è un’esperienza “religiosa” ma un prodotto della ragione, dell’intelligenza pienamente dispiegata: anche l’“ateo” Spinosa scrive che lo spirito (mens) umano non può essere distrutto in modo assoluto insieme al corpo, ma qualcosa di eterno di esso permane: infatti noi sentiamo e sperimentiamo di essere eterni.

Ogni vera esperienza intellettuale riconosce che il nostro comune pensare è frutto della proliferazione emotivo-concettuale, espressione di una compulsiva autoreferenzialità dell’ego. In essa sono i tre “grandi inquinanti”; attaccamento, avversione, ignoranza, ove quest’ultima è l’inquinante radice, il vero male. Perciò il cammino della coscienza di sé è quello del progressivo distacco, delle successive “morti”, ove quella fondamentale è la morte dell’ignoranza, che si figura sempre come un pretesto di sapere.

La chiarezza, la luce, è nella fine dei pretesi saperi, il non-sapere, la beata “pienezza-dell’uomo” (Raimon Panikkar) di cui parlano i mistici. Non v’è da guardare un mondo vero al di fuori di noi e di questo mondo, perché questa luce, che è, noi la siamo. Lo siamo sempre, non in un momento particolare, quello “mistico”, estatico, che divide, oppone un mondo vero a uno falso, l’Uno al molteplice, ma sempre l’Uno è nell’anima (Eckhart). Si sta nella luce, perché la si è non per un bagliore accidentale, ma come un habitus, senza sforzo come una seconda natura. È questa, e in questa, “luce eterna” che l’anima sta, insieme alle anime dei santi di ogni tempo e luogo.

L’anima non solo trova qui che Dio è in lei, ma anche in essa non c’è altro che lui; essa ha tanto abitato nell’abisso del suo nulla e lo conosce così bene, che grazie a questo stesso mezzo vede che lo stesso è di tutte le altre cose, che sembrandole qualcosa, le causano oscurità. Così questa conoscenza è confermata e praticata dall’amore, che rapisce, liquefa e fonde l’anima in modo tale che, essendo essa tutta rapita, assorbita, inabissata e liquefatta in Dio, ogni altra cosa viene similmente fusa, liquefatta, consumata e annichilita. Da ciò deriva (come si è detto) che l’anima non può vedere altro che Dio, e, in quanto tali cause sono abituali, altrettanto sono i loro effetto, giacché nell’anima in questo grado tale annichilimento è così perfetto e abituale, che, essendo tutte le cose ridotte a un niente, essa permane nell’orazione, come sospesa in un immenso vuoto, o nulla.

Quando v’è perfettamente, non può vedere bene, né comprendere, cosa alcuna, nemmeno sé stessa, e questo infinito vuoto, o nulla, somiglia alla serenità del cielo senza alcuna nuvola, ed è una luce deiforme. La stessa cosa del distacco è l’annichilamento, l’umiltà, madre delle virtù, tesoreria di scienza. Riportare sempre all’umano, al finito, al relativo, è l’atto dell’intelligenza, che distacca; atto si onestà, giustizia, disapprovazione, umiltà, e che perciò stesso apre all’infinito, alla luce, alla grazia, a “Dio”.

Al contrario, decidere per assoluto o “divino” qualcosa, senza riconoscere onestamente, secondo giustizia, che è umano, relativo, è atto di appropriazione, di menzogna. È quello che fanno a grande livello le religioni, i sistemi filosofici, le ideologie, ed a piccolo livello tutti quanti, con il loro piccolo ego.

Umiltà è la fine della pretesa di valore, riconoscimento del dominio della necessità, e dunque distacco. Questa è la condizione dell’intelletto attivo, ovvero non servile, libero. Il pensiero dipendente dal fine, dall’oggetto, è passivo e perciò dolente, per la sua dipendenza, servitù, che è la servitù al volere, la peggiore delle schiavitù. Solo per la sua intelligenza.

Invece il pensiero distaccato, senza oggetto, senza fine, è libero, e perciò gioioso nella sua libertà, che è la libertà dello spirito. E siccome l’uomo è tale solo per la sua intelligenza libera, Eckhart fa un’affermazione terribile per la coscienza comune: l’uomo non umile non è. Lo sprofondarsi nell’abisso dell’umiltà, annichilirsi, ovvero sapersi e sentirsi nell’essere è in questo amore che ti accorgi che niente più ti manca.

Il distacco supremo -scrive Eckhart- può compierlo Dio solo, e in effetti il distacco genera sempre, autocompiacimento, appropriazione, e, quanto più distacco, tanto più appropriazione. Occorre perciò umiltà, che è il volgere di nuovo lo sguardo verso Dio come Altro, dopo che si era distaccati anche da Lui. È in questo atto religioso di devozione che il supremo distacco si compie. È qui che sta la differenza radicale tra la fede di Gesù e le forme laiche, che, senza devozione, senza umiltà, sono incapaci di vero distacco, che resta perciò nella forma autocontraddittoria di tecnica meditativa.

Sull’Uno e il Tutto.

Eraclito afferma: “Ascoltando non me ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno. E Plotino scrive che “noi siamo, in definitiva, Tutto e Uno; ma se guardiamo fuori dall’essere da cui deriviamo, ignoriamo di essere Uno.

Tutto ciò che è nello spazio e nel tempo, dallo spazio e del tempo è corroso, portato verso la fine, se si sta solo in questa dimensione, che è quella del corpo e della psiche, v’è la grande malinconia della finitezza, che non viene vinta ricorrendo a ciò che è ancora nello spazio e nel tempo (la “vita esterna”).

Se però siamo spirito, in quella realtà che nel distacco appare ed è fuori del mondo, fuori dallo spazio e del tempo, allora la finitezza non addolora più: tutto appare bello nel considerare le cose e la storia in ottica di eternità, trascurando gli aspetti temporali e spaziali, perché l’anima, eterno spirito, è oltre ogni tempo: vive, anche nel mondo, già nell’eternità. 

Accanto alla fisica della natura, c’è, come dice Simone Weil, una “fisica soprannaturale”, che descrive l’anima nella sua realtà di spirito. E tutto permane sempre: niente scompare, caso mai si trasforma. Il presente è l’eterno: la mistica di ogni tempo non si stanca di ripoterlo.

La credenza è tutta psicologica, e perciò prende infinite forme, a seconda di caratteri, tempi, ecc. Però la fede di Gesù orienta l’intelligenza verso l’alto, verso l’Assoluto e così fa vedere la “realtà fuori dal mondo, fuori dallo spazio e del tempo. La pone in un altro mondo, in un altro spazio e in un altro tempo, (al di là, paradiso, ecc.) ma in questa rappresentazione diventa vita interiore, secondo questa realtà già qui e ora, nell’anima nostra, ove è la vera realtà fuori dalle rappresentazioni.

Solo per lo spirito e nello spirito l’anima e Dio sono la stessa cosa, giacché per l’uomo, in quanto essere corporeo, Dio è, coerentemente, Altro come è evidente quando, nel momento del bisogno, di fronte alla sofferenza della morte, Dio torna a essere “Colui che è invocato”. La differenza essenziale è che il Dio-Altro è determinato nei mille modi della psiche e invocato secondo i bisogni del singolo, sicché ciascuno ha una sua immagine di Dio, con caratteristiche diverse e persino opposte a quelle altrui. Sta così in un mondo privato, fuori dall’universale, dal logos, che è a tutti comune. Eraclito afferma: “Bisogna seguire ciò che è comune. Ma pur essendo il logos comune, la maggior parte degli uomini vive come se avesse una propria saggezza privata.

L’uomo esteriore, ovvero la corporeità e la psichicità, vuole permanere nella salute, aborre la morte e il dolore in modo del tutto condizionato, esso produce rappresentazioni, contenuti, nutriti di timori e speranze, che inesorabilmente rimandano a un Dio altro, su cui il piccolo ego, chiaramente percepito come impermanente, inesorabile con le sue forze, possa appoggiarsi. Perciò, in modo del tutto naturale, la preghiera come richiesta.

Corpo, anima, spirito, sono legati, sono Uno. Si può dire che anche lo spirito sia espressione dell’innamoramento di sé, in quanto il distacco ne è la forma estrema, ove esso si capovolge per la sua traboccante ricchezza: infatti, tutto ciò che è grande, maturo, ama perire (F. Nietzsche).

—Prego Dio che mi liberi di Dio.

La religione dell’età nostra consiste nel pensare la verità come soggetto, non solo come sostanza. Perciò non regge alcun pensiero per cui la verità consiste in uno stare così o cosà delle cose: questo indica solo la condizione psicologica di chi la propone. Le teologie, come le filosofie, sono solo indicazioni sul soggetto di chi le formula.

Alla domanda di Pilato su cosa fosse la verità, Gesù non rispose perché già data: Io sono la verità, che è anche cammino e vita. Si tratta perciò di capire cosa sia quell’Io, tutto contrario del soggettivismo psicologico (dottrina o concezione che nega l’esistenza di una realtà oggettiva, concepita cioè come indipendente rispetto al soggetto che la percepisce, la pensa, la giudica e così via). In quanto rappresentazioni, le religioni razzolano nell’aia dello psichismo, alimentandosi di esso in un girotondo senza fine, mutevoli nei tempi, nei luoghi, nelle persone. Reciprocamente sostengono l’ego nella sua volontà di essere, permanere, ovvero nel suo desiderio essenziale e primario.

In quanto espressioni dell’uomo naturale, contrario allo spirito, si possono trovare d’accordo con quelle psicologie che vedono nel desiderio l’elemento essenziale della psiche. Infatti lo spirito è logos, quindi distacco negatività assoluta. Guarda alle rappresentazioni religiose, ai miti fondatori, come favole per bambini invernali e addormentati. 

Tutto ciò sostiene lo psichismo, mettendone peraltro un elemento contro l’altro, ma insieme “tappa le fessure attraverso le quali potrebbe aggiungere la grazia”. Si tende a porre un Dio in un certo modo, in certo tempo, quando qualcosa, un contenuto ci sembra il massimo valore, quello su cui appoggiare gli altri, e soprattutto la nostra egoità.

Si tende a dire: “questo è Dio, qui conosco Dio”, quando ci sembra di essere al culmine della gioia, e ciò soprattutto quando si pensa a Dio senza determinazioni, pura luce. Diciamo “luce” per indicare appunto qualcosa senza forma, senza colore, senza determinazione, che è chiarore e che tutto rischiara, supremamente bello.

Il termine Dio infatti è legato con un bene specifico, luce, ma è pur sempre termine che de-termina, e così fa ricadere di nuovo nel dualismo: “La determinazione non appartiene alla cosa secondo il suo essere; al contrario essa è il suo non essere” (Hegel).

Ma l’intelligenza distacca.  Retta dalla fede di Gesù, dice “non questo” e questo negare un Dio determinato nei modi non è un negare, ma portare più alto, elevare/esaltare: in questo atto di onestà di riportare all’umano, al finito, la luce è, presente, nostra ed eterna, senza contraddizione.

“Questo movimento è ciò che chiamiamo spirito, con una parola che ha in sé proprio l’origine dal vento, dal movimento -principio che non conosce principio, fine che non conosce fine – Esso è nell’anima, nel suo “fondo”, ma non oggetto o sostanza, perciò chiamato con metafore varie o come “qualcosa” dell’anima. Vedi pag. 149”.

L’intelligenza riporta sempre all’umano, secondo il principio fondamentale di Eckhart “ non dobbiamo sapere di niente il perché o il percome, né su Dio né sulla creatura, al di fuori di noi, al di fuori di noi […] giacché tutte le volte che ci dirigiamo a qualcosa partendo da altro che da noi stessi, commettiamo un peccato mortale”, ove il peccato mortale è la nostra falsità, di invenzione (menzogna, in quanto prodotta dalla mente che mente), che finge di fondarsi su altro -Dio – mentre il movente essenziale è l’appropriatività -appropriazione-.

“Conoscere Dio”, “possedere Dio”, sono espressioni di alienazione, autoinganno: quel Dio è un frutto del nostro attaccamento. Il Dio-altro è un ente al tuo servizio, anche se in modi diversi; un ente determinato per il legame dell’ego. Nel distacco resta come “bene semplice”, cioè senza determinazioni, pura luce. Le espressioni “sovreminente”, “sovraessenziale” della teologia cosiddetta negativa vanno intese nel senso di “al di sopra dei contrari” e dunque al di sopra di essere e non essere, dove non c’è più l’io mio e il tu di Dio, ma un’unica luce.

Così anche il riferimento a “Dio” va tolto perché non vi sia appropriazione: perciò l’uomo umile, quello che veramente è, stando nell’intelligenza e non naufragando nel turbine dei contenuti, pensa, insieme, di essere con Dio, e sempre senza Dio “lontano-vicino”. Qui presente, dappertutto, e sempre assente. “quando l’anima entra nella luce della ragione, non sa più niente dei contrari” (Eckhart).

Senza dialettica, senza il negativo, non v’è spirito, ma solo l’infantilismo psicologico di chi vive nell’immediatezza, nel sentimentalismo, senza conoscenza di sé, senza sapere quello che sono davvero, non psichismo, ma spirito.

V’è una duplice funzione del rimando a Dio. La prima è quella per avvalorare il proprio contenuto; la seconda è per indicare che non è cosa mia, che non proviene da me ecc., e in questo senso si rimanda alla “grazia”, all’operazione divina. Questo secondo modo si riconduce al primo, è solo un artificio, cui si può credere solo ingenuamente (se non disonestamente) per cui va tolto anch’esso: occorre davvero “liberarsi anche di Dio”, fino ad accorgersi che il corretto parlare di noi stessi è il corretto parlare di Dio: Conosci te stesso e conoscerai te stesso e Dio.

Il corretto linguaggio antropologico è il corretto linguaggio teologico, se l’antropologico comprende lo spirituale. “Dio” non indica dunque un Ente supremo nei cieli, o simili, ma distacco, grazia e luce. Questa luce che è qui, nell’anima, è mia, ma ciò non significa affatto opposta al divino come altro, come pensa il teologo.

La affermazione del divino, del soprannaturale, come terreno separato, è un modo per affermare sé stessi, in quanto, in effetti vuol dire che io ce l’ho, io lo so, io lo controllo (sottinteso: e tu no, a meno che non mi dia ragione, così seguendo me, che divento superiore, più potente).

Nella religione ci sono due cose, opposte: la prima è la devozione, il movimento di tutta l’anima verso la verità, la giustizia e la luce. La devozione è umiltà, distacco, e perciò già pensiero, spirito. La seconda è la teologia, pretesa di conoscere, tenere in possesso, il divino: appropriazione, ideologia, menzogna.

La devozione conduce a sentirsi una cosa con Dio, luce nella luce. Allora scompare il Dio-Altro, che, pure, era stato di sostegno nella fede ingenua come credenza, quella dell’infanzia e della educazione religiosa. L’uomo interiore fugge sempre da sé stesso, perciò ha a noia lo scritto, il definito, il dato. Lo spirito è infatti vento, movimento, che toglie, distacca. L’attaccamento a un contenuto è negazione dello spirito, e infatti pone nel dualismo, nel pensiero del male.

La religione teologicamente costituita nega lo spirito perché nega il distacco e con ciò l’insegnamento stesso di Gesù. Significativo il continuo ricorso ai termini “nudità, nudo”, riferiti all’anima e a Dio, da parte di Eckhart: potremmo dire che la psico-teologia si cura dei vestiti, ma non dell’essenza, non vede l’uomo nella sia nudità, come è davvero, perché non la conosce. E, come i vestiti sono continuamente mutevoli, così è la psico-teologia.

In quanto personale, privata, la religione appartiene alla lontananza dell’Uno, dimensione alienante del molteplice, al terreno del desiderio, della lontananza, dello psichismo; fornisce movimenti, emozioni, tutto all’interno del determinismo – un fenomeno o evento accaduto nel passato -. In quanto costituita, la religione appartiene al sociale, al politico. Ma il vangelo non darebbe affatto una religione politica, cemento identitario di una società, di un popolo, creata da un condottiero, vero o mitico che sia: Mosè, Giosuè, Maometto ecc.

La morale cristiana è crollata perché è crollata la mito-teologia, dopo l’illuminismo e la scienza storia contemporanea. Così è stato buttato via il bambino e l’acqua sporca. Perché la morale era stoica, non dipendeva della superstizione, ma dalla filosofia.

La virtù è il discriminante tra vero e falso, nella vita; il resto sono parole vane. Senza la vera virtù, Dio non è che una parola. Il cristianesimo ha nutrito le virtù, e in ciò era vero. Quando ha anteposto la teologia alla virtù è diventato falso.

All’uomo onesto è oggi impossibile la vecchia fede, quella teo-mitologica dedotta dalle scritture (e viceversa). Paradossalmente, però, noi ci troviamo nella situazione di beatitudine proprio di coloro che credono senza aver visto ( Gv 20,29) e in senso ancor più alto e forte di quello cui si riferisce il versetto: infatti non solo non abbiamo visto gli eventi narrati dai vangeli…   la nostra fede… fede non credenza teo-mitologica, bensì conoscenza: conoscenza dello spirito nello spirito…l’esempio di Cristo morto per noi è immagine suprema di distacco e nutre la carità, fino alla santità.

Alcune osservazioni riguardo i tre temi teologici:

— nella Parusia: A causa del “ritardo” della Parusia l’attesa è sostituita dall’apprezzamento della storia, e con essa viene reinterpretata, indebolita e addirittura rimossa. Oggi il tema del “ritardo” non ha più alcun rilievo, il che costituisce uno sviluppo disastroso. La Parusia è una promessa che non vien mai presa sul serio.

La fede di Gesù assunta dal credente senza l’attesa della Parusia è come una scala che non conduce da nessuna parte, ma che finisce nel vuoto. Ne consegue che l’avvento è un sentimentalistico tempo natalizio, un’attesa della festa di Natale.

 — nel Regno di Dio: La causa del regno di Dio costituiva il senso centrale della vita e dell’opera di Gesù, era il concetto dominante del suo annuncio. Negli ultimi decenni le scienze bibliche e la teologia sistematica sono arrivate alla conclusione unanime che il regno di Dio costituisce l’essenza della predicazione di Gesù, il nucleo della fede cristiana.

Ma per gran arte dei cristiani il regno di Dio è marginale dal punto di vista teorico e pratico. È diventato una dimensione liturgica lontana dalla vita quotidiana. Raramente è realtà che tocca immediatamente i cuori e infiamma gli spiriti, perché il flusso di energia per l’esistenza e per il contenuto è come interrotto. Dalla predicazione di Gesù sul regno di Dio, non sembra che scaturisca alcuna capacità di attenzione. La questione, in realtà è diventata un tema marginale che crea imbarazzo.

— nella mistica

Fondamentale è reintrodurre il concetto della realtà dello spirito, grande assente della nostra cultura, tanto laica quanto religiosa. “molta gente immagina Dio lassù e noi quaggiù. Ma non è così. Dio e io siamo una cosa sola”, (Eckart), luce nella luce.

Anche la teologia, come la psicologia ignora l’uomo interiore (pag. 59), lo spirito: ne conosce sì l’espressione, ma non ne ha conoscenza vera, esperienza. Perciò parla solo di uomo esterno e riporta, senza saperlo, l’interiore all’esteriore. Una teologia che parta dall’esteriorità, Bibbia o altro, senza conoscenza di sé, è mistificazione, menzogna. Si conosce quel che si è: per “conoscere Dio” occorre che io diventi lui, e lui diventi me, spirito nello spirito (pag.59)