Estratto dal commento di don Paolo Farinella
alle letture della V domenica di Pasqua (ciclo C)

La lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, riporta un elenco di città e villaggi visitati da Paolo nel suo primo viaggio missionario, che potrebbe apparire come un arido elenco di città, mentre è rivelatore della straordinaria ricchezza della vita di fede. L’elenco quasi notarile di «luoghi» geografici insegna che nessuno è estraneo alla propria geografia, che invece condiziona la crescita, lo sviluppo e anche la fede. Potremmo dire, da un punto di vista teologico, che non è indifferente alla qualità della nostra vita cristiana la «geografia della fede». Qual è la nostra geografia di vita e di fede? Quali sono i posti che sono stati decisivi per la vita di ciascuno? Qual è il luogo fisico, materiale, che fu testimone di un sentimento, di una decisione, di un fallimento, di una tragedia, di un cambiamento, di una conversione? Per ogni atto interiore dell’anima c’è sempre un luogo preciso che possiamo e dobbiamo cogliere, pena la perdita di una parte importante della nostra vita1.

Quando una coppia è in crisi, prima di sedersi sul malessere dovrebbe fare una visita ai luoghi del primo incontro, ai luoghi dell’innamoramento, e solo dopo parlare della crisi: la visita ai luoghi e la memoria che lì si conserva spesso offrono una nuova prospettiva. Come sa il profeta Osea (cf Os 2), la geografia fissa i movimenti dell’anima e del cuore. Noi portiamo sempre dentro di noi i luoghi che abbiamo vissuto, abitato, amato, odiato, temuto, desiderato perché noi siamo la nostra geografia e Dio era già lì ad aspettarci prima ancora che noi vi giungessimo. Uno dei Nomi, infatti, con cui, in sostituzione dell’impronunciabile Yhwh, la tradizione giudaica invoca Dio, è «Luogo – Maqòm». Se Dio è il «Luogo» significa che lo si può abitare, cioè lo si può sperimentare; allo stesso modo dei due discepoli del Battista, invitati da Gesù, quando «videro dove abitava» (Gv 1,39). Non è un caso che la Presenza di Dio, presso gli Ebrei è indicata con il termine «Shekinàh – Dimora» che propriamente indica l’abitare fisicamente, per cui si semplifica in «Presenza». L’Eucaristia è il «Luogo» e l’ultima tappa geografica dove noi facciamo la sintesi della storia e della geografia della nostra fede. Qui veramente possiamo incontrare Dio che si fa prossimo: Parola, nutrimento, bevanda e speranza compiuta. Tutto questo mediteremo domenica prossima.

Anche la 2alettura, un brano tratto dall’ultimo libro della Bibbia cristiana, l’Apocalisse (fine sec. I d.C.) parla di «dimora» e quindi un posto reale e vivibile, con una particolarità: è la «Dimora di Dio» e si muove dal cielo verso la terra per fare da cornice a una relazione sponsale. Per l’Apocalisse questa dimora è la versione nuova della tenda del convegno che accompagnava la peregrinazione di Israele nel deserto: Dio è accessibile nella dimensione familiare di una casa, di una dimora. Narra il Midràsh alla Genesi che la «Dimora/Shekinàh» si allontanò dalla terra e salì al cielo ad ogni generazione di peccatori, ma ridiscese e si stabilì sulla terra ad ogni generazione di Giusti2. Nelle nostre mani è la credibilità della presenza o dell’assenza di Dio nella storia.

Non tutto ciò che è reale è visibile; per questo viviamo in un regime «sacramentale» che è un modo per vivere senza limiti di spazio e di tempo la relazione fondamentale che nell’Eucaristia trova il suo punto di arrivo e di partenza: la Parola come luogo della conoscenza, il Pane e il Vino, alimenti ordinari dell’umanità, come luogo dell’incarnazione del Lògos che definitivamente àncora la Dimora sulla terra e alla speranza degli uomini. Egli è «già» qui, ma «non ancora» da noi profondamente incontrato, perché siamo in attesa dello Spirito il quale c’insegnerà ogni cosa (cf Gv 14,26). È lo stesso Spirito che invochiamo ogni domenica perché ci guidi e ci sostenga nel cammino verso la «dimora» di Dio con noi.