Penitenza è dare il meglio di sé nell’amore.

di Gilberto Borghi
10 maggio 2025
Per gentile concessione di
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Penitenza
Una parola molto legata alla confessione, o ad esperienze forti di conversione. Nella visione popolare indica quelle azioni da compiere per esprimere concretamente il proprio pentimento e la decisione effettiva di cambiare vita. Ciò è stato interpretato spesso in due direzioni.
La prima, di stampo più giuridico, assegna alla penitenza il valore di “riparazione” del male commesso. Nell’idea che il peccato sia una ingiustizia, la penitenza servirebbe a ristabilire l’equilibrio infranto della bilancia morale. Gli esempi del vangelo di Luca ci indicano, però, che non esiste una corrispondenza “bilanciata” tra il male commesso e la penitenza operata.
Nell’incontro tra Gesù e Zaccheo (19,1-10), la non corrispondenza è evidente: “Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri, e se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto”. Nell’episodio della donna peccatrice (7,36-50), la penitenza non è correlata ai peccati commessi, ma all’amore per Gesù. Il buon ladrone (23,39-43) non ha nemmeno il tempo per operare una penitenza e di fronte al peccato di Pietro, che rinnega Gesù, per tre volte (22,61-62) non c’è alcuna richiesta di penitenza. E negli altri testi del N.T. non appaiono mai esempi in cui la penitenza sia intesa come riparazione.
La seconda, di stampo più psicologico, assegna alla penitenza il valore di “cancellazione” della memoria dei peccati commessi. Nell’idea che si possa azzerare il ricordo del male commesso, si ipotizza che la penitenza agita possa tacitare il proprio senso di colpa. Ma anche qui, il N.T. sembra andare in un’altra direzione.
La splendida descrizione del travaglio interiore di Paolo (2 Cor 12, 7-10 e Rm 7, 7-24) mostra chiaramente come non si possa cancellare la memoria del peccato commesso e che il cristiano può liberarsi dal senso di colpa non con un suo sforzo personale, ma affidandosi all’amore di Dio: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2 Cor 12,9). Pure l’intima confessione di Pietro (Gv 21 15-19) evidenzia come ci si liberi dal senso di colpa trasformandolo in senso di peccato: “Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo” (Gv 21,17). E questo è sufficiente per Dio, che non chiede altro sforzo, se non quello di fidarsi del suo amore.
Queste considerazioni aprono, allora, al possibilità di indicare un senso positivo della penitenza. Non si tratta di “riparare” o “cancellare” il male. Ma di lasciare che l’amore di Dio fiorisca dentro di noi tanto da spingerci a fare azioni amorevoli verso gli altri, spinti dalla gioia e dalla bellezza di fare del bene a qualcun altro. La penitenza ha senso se viene vissuta spostando lo sguardo da noi e dal nostro peccato, al bene che altri possono vivere tramite noi. Ecco perchè Zaccheo ridona quattro volte tanto!
Fare penitenza, allora significa dare il meglio di sé nell’amore. Non è condannare o tacitare una parte di sé, ma è lasciar fiorire l’amore gratuito che Dio continua a regalarci sempre, portandoci fuori da noi stessi, nella consegna amorevole agli altri. Chi fa penitenza in questo senso ha un volto sereno e gioioso, spande attorno a sé il profumo del vangelo, realizzando Mt 6, 17: “Profumati la testa e lavati il volto”.