di Gilberto  Borghi
3 Maggio 2025
Per gentile concessione di
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Il linguaggio popolare indica con questa parola l’atto con cui il fedele dichiara i propri peccati al sacerdote e questi lo assolve, rendendo operativo il perdono di Dio.

Fino al quinto secolo d.C. esisteva una forma di confessione, solo per i peccati gravi, fatta davanti alla comunità, che avviava un percorso di penitenza che poteva durare anche mesi, al termine del quale, il vescovo ri-accoglieva il peccatore nella comunità. La forma attuale di confessione individuale nasce dal sesto secolo, nei monasteri Irlandesi, quando l’abate riceveva la confessione dei peccati del singolo monaco, come atto di umiltà e richiesta di perdono per aver incrinato l’unità della comunità monastica.

Entrambe queste radici storiche sottolineavano la dimensione comunitaria del perdono dei peccati: era la comunità, nelle figure del vescovo e dell’abate, che riaccoglieva il peccatore e ripristinava la ferita inferta dal peccato all’unità della stessa.

Solo dopo il 1200 circa questa forma di confessione assume maggiore valore teologico iniziando a sottolineare la dimensione spirituale del perdono  in relazione a Dio: è lui che ri-accoglie il peccatore, ripristinando il rapporto incrinato dall’offesa fattagli dal peccato. Ed è da qui che nasce l’idea che solo attraverso il gesto sacramentale della  confessione Dio perdoni i peccati del peccatore, facendo diventare questo sacramento “indispensabile” per la riconciliazione.

In realtà, come già visto qui, il perdono di Dio anticipa la richiesta di riconciliazione del peccatore, e quando questi si decide per la confessione, Dio ha già emesso il suo perdono. Perciò, che senso resta oggi alla confessione?

In ogni sacramento vissuto nella fede, noi sappiamo con certezza che Dio realmente agisce e tocca concretamente il cuore dell’uomo. Quando con questa convinzione decidiamo di confessarci, Dio è già all’opera dentro di noi, e insieme alla nostra libertà, fa nascere in noi la contrizione del cuore, cioè il pentimento. A questo punto confessare ad un sacerdote i nostri peccati serve per mostrare che noi accettiamo il perdono di Dio e abbiamo la certezza che tale perdono ci ha raggiunti “realmente” e “pienamente”. Questi due avverbi sono molto importanti.

Intanto “realmente”. Attraverso un gesto concreto del sacerdote, io sono garantito di quel perdono, in modo che io non possa illudermi di essermi perdonato da solo. Senza questo atto potrei sempre avere il dubbio che la porta del mio cuore non sia davvero di nuovo riaperta e io me la sia “raccontata”. L’alterità del sacerdote, il fatto che lui sia altro da me, mi “ri-presenta” dal vivo l’atto con cui Dio mi perdona. Questo diventa realmente la mia certezza che io lo abbia accettato e sia stato davvero perdonato.

Ma, nello stesso tempo, so anche che il perdono mi è arrivato “pienamente”. Noi viviamo sempre nel tempo e come in ogni relazione di amore, anche la riconciliazione ha diverse tappe e gesti. La confessione è il punto culminante di questo processo, perché quel gesto e quelle parole, che sono la concreta presenza di Dio per me in quel momento, incontrano la mia contrizione del cuore e il contatto di amore tra me e Dio, che ripristina la relazione, si realizza. A questo punto il perdono è “pieno”.

Questo sposta l’accento della confessione, da unico atto riparatorio necessario per avere il perdono, a momento culmine di incontro di amore terapeutico che non solo cancella il mio peccato, ma aumenta la mia esperienza dell’amore gratuito di Dio per me. E per questo diventa anche fonte di una nuova spinta di amore a credere di più e ad affidarmi di più a Dio.

Se la confessione è un incontro di amore tra noi e Dio, prende senso anche quando è celebrato in modo comunitario, senza l’elencazione individuale dei peccati, come può avvenire in casi eccezionali, proprio per sottolineare che non è una seduta in tribunale in cui, in modo puntuale, deve essere ripristinata la bilancia della giustizia, ma per rendere visibile la nostra accettazione del suo infinito perdono.