Domenica delle Palme e della Passione del Signore – anno C
Lc 22,14-23,56
Quando venne l’ora, [Gesù] prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse loro: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio». E, ricevuto un calice, rese grazie e disse: «Prendetelo e fatelo passare tra voi, perché io vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non verrà il regno di Dio». Poi prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: «Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me». E, dopo aver cenato, fece lo stesso con il calice dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi» (…)
(Letture: Isaia 50,4-7; Salmo 21; Filippesi 2,6-11; Luca 22,14-23,56)
CHI SONO IO ?
Papa Francesco
Questa settimana incomincia con la processione festosa con i rami di ulivo: tutto il popolo accoglie Gesù. I bambini, i ragazzi cantano, lodano Gesù.
Ma questa settimana va avanti nel mistero della morte di Gesù e della sua risurrezione. Abbiamo ascoltato la Passione del Signore. Ci farà bene farci soltanto una domanda: chi sono io? Chi sono io, davanti al mio Signore? Chi sono io, davanti a Gesù che entra in festa in Gerusalemme? Sono capace di esprimere la mia gioia, di lodarlo? O prendo distanza? Chi sono io, davanti a Gesù che soffre?
Abbiamo sentito tanti nomi, tanti nomi. Il gruppo dei dirigenti, alcuni sacerdoti, alcuni farisei, alcuni maestri della legge, che avevano deciso di ucciderlo. Aspettavano l’opportunità di prenderlo. Sono io come uno di loro?
Abbiamo sentito anche un altro nome: Giuda. 30 monete. Sono io come Giuda? Abbiamo sentito altri nomi: i discepoli che non capivano niente, che si addormentavano mentre il Signore soffriva. La mia vita è addormentata? O sono come i discepoli, che non capivano che cosa fosse tradire Gesù? Come quell’altro discepolo che voleva risolvere tutto con la spada: sono io come loro? Sono io come Giuda, che fa finta di amare e bacia il Maestro per consegnarlo, per tradirlo? Sono io, traditore? Sono io come quei dirigenti che di fretta fanno il tribunale e cercano falsi testimoni: sono io come loro? E quando faccio queste cose, se le faccio, credo che con questo salvo il popolo?
Sono io come Pilato? Quando vedo che la situazione è difficile, mi lavo le mani e non so assumere la mia responsabilità e lascio condannare – o condanno io – le persone?
Sono io come quella folla che non sapeva bene se era in una riunione religiosa, in un giudizio o in un circo, e sceglie Barabba? Per loro è lo stesso: era più divertente, per umiliare Gesù.
Sono io come i soldati che colpiscono il Signore, Gli sputano addosso, lo insultano, si divertono con l’umiliazione del Signore?
Sono io come il Cireneo che tornava dal lavoro, affaticato, ma ha avuto la buona volontà di aiutare il Signore a portare la croce?
Sono io come quelli che passavano davanti alla Croce e si facevano beffe di Gesù: “Era tanto coraggioso! Scenda dalla croce, a noi crederemo in Lui!”. Farsi beffe di Gesù…
Sono io come quelle donne coraggiose, e come la Mamma di Gesù, che erano lì, soffrivano in silenzio?
Sono io come Giuseppe, il discepolo nascosto, che porta il corpo di Gesù con amore, per dargli sepoltura?
Sono io come le due Marie che rimangono davanti al Sepolcro piangendo, pregando?
Sono io come quei capi che il giorno seguente sono andati da Pilato per dire: “Guarda che questo diceva che sarebbe risuscitato. Che non venga un altro inganno!”, e bloccano la vita, bloccano il sepolcro per difendere la dottrina, perché la vita non venga fuori?
Dov’è il mio cuore? A quale di queste persone io assomiglio? Che questa domanda ci accompagni durante tutta la settimana.
Domenica delle alme 2014
«Veramente quest’uomo era giusto!»
Enzo Bianchi
Nella prima domenica di Quaresima, alla fine del racconto delle tentazioni di Gesù nel deserto abbiamo ascoltato questa precisazione lucana: «dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da Gesù fino al tempo fissato» (Lc 4,13). Ed eccoci giunti al tempo fissato, l’ora della passione, l’ora in cui Gesù è nuovamente tentato dal demonio ed è sottoposto a una prova terribile angosciosa: restare fedele al Padre, anche al prezzo di subire una morte violenta in croce, oppure percorrere altre vie, quelle suggerite dal demonio, che portano come promessa sazietà, potere, ricchezza, successo? La passione secondo Luca è davvero l’ora della grande tentazione non solo di Gesù, ma anche dei discepoli, dunque della chiesa…
Proprio durante la cena pasquale, quando Gesù anticipa con dei gesti sul pane e sul vino e con delle parole ciò che gli sarebbe accaduto nelle ore successive, proprio quando svela che la sua è una vita donata, spesa, offerta fino all’effusione del sangue per i discepoli, questi mostrano di entrare in tentazione e di essere sedotti. Innanzitutto uno di loro tradisce l’alleanza della comunità, la nuova alleanza sancita dal sangue di Gesù, consegnandolo nelle mani dei nemici; Luca ricorda poi che, mentre Gesù a tavola serve i suoi stando in mezzo a loro, questi litigano per sapere «chi poteva essere considerato sopra di loro il più grande»; infine Pietro, la roccia, proclama a Gesù una fedeltà che smentirà per tre volte con un rinnegamento. Sì, nell’ora della tentazione i discepoli soccombono alla prova, mentre Gesù lungo tutta la passione si mostra fedele a Dio e ai discepoli…
Venuto al monte degli Ulivi, durante la lotta spirituale decisiva Gesù invita i discepoli a «pregare per non entrare in tentazione»; lui stesso dà loro l’esempio e prega il Padre, restando pienamente sottomesso alla sua volontà, fino ad accogliere l’arresto senza difendersi, senza opporre violenza a violenza, senza mutare il suo stile e il suo comportamento di mitezza e di amore, ma rimanendo fedele alla verità che aveva contraddistinto la sua vita. Pregando, Gesù è entrato nella sua passione, e pregando ha fatto della morte violenta in croce un atto: ha chiesto al Padre di perdonare i suoi crocifissori e, infine, ha invocato Dio dicendogli: «Padre, nelle tue mani consegno il mio respiro» (cf. Sal 31,6). Davanti a Dio, da lui chiamato e sentito come Padre, Gesù ha posto noi uomini e tutta la sua vita, e così è morto: in piena fedeltà a Dio, agli uomini, alla terra da cui era stato tratto come uomo, «figlio di Adamo» (Lc 3,38).
Quella di Gesù è stata una fedeltà a caro prezzo, perché anche in croce è stato nuovamente tentato, simmetricamente alle tentazioni da lui subite nel deserto, all’inizio della sua vita pubblica. Nell’ora conclusiva della sua vita terrena riecheggiano da parte degli uomini parole simili a quelle di Satana: «sei tu sei il re dei Giudei, se tu sei il Cristo, se hai salvato gli altri… salva te stesso!». Ma Gesù non vuole salvare se stesso; al contrario, vuole compiere fedelmente la volontà di Dio, continuando a comportarsi fino alla morte in obbedienza a Dio, ossia amando e servendo la verità. Questo è causa di morte per lui, ma causa di vita per gli uomini tutti!
Quanto a noi che ascoltiamo questo racconto della passione, Luca ci invita a seguire Gesù dal suo essere servo a tavola fino alla sua morte in croce. Allora potremo vedere in lui «l’uomo giusto», riconosciuto tale anche da Pilato, che per tre volte è costretto a proclamare che Gesù non ha mai commesso il male. Guardando a lui, il crocifisso che invoca il perdono per i suoi persecutori e si affida a Dio, entreremo nell’autentica contemplazione, come «le folle che, accorse a quella contemplazione–spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornavano battendosi il petto». E con il centurione faremo un’autentica confessione di fede: «Veramente quest’uomo era giusto». Sì, Gesù è il Giusto perseguitato, il Figlio di Dio (cf. Sap 2,10-20); è colui che il Padre ha richiamato dai morti in risposta alla vita da lui vissuta, segnata da un amore più forte della morte.
Gesù entra nella morte, come è entrato nella carne
Ermes Ronchi
Inizia con la Domenica delle Palme la settimana suprema della storia e della fede. Il cristianesimo è nato da questi giorni “santi”, non dalla meditazione sulla vita e le opere di Gesù, ma dalla riflessione sulla sua morte.
Il Calvario e la croce sono il punto in cui si concentra e da cui emana tutto ciò che riguarda la fede dei cristiani.
Per questo improvvisamente, dalle Palme a Pasqua, il tempo profondo, quello del respiro dell’anima, cambia ritmo: la liturgia rallenta, prende un altro passo, moltiplica i momenti nei quali accompagnare con calma, quasi ora per ora, gli ultimi giorni di vita di Gesù: dall’entrata in Gerusalemme, alla corsa di Maddalena al mattino di Pasqua, quando anche la pietra del sepolcro si veste di angeli e di luce.
Sono i giorni supremi della storia, i giorni del nostro destino.
E mentre i credenti di ogni fede si rivolgono a Dio, e lo chiamano vicino nei giorni della loro sofferenza, noi, i cristiani, andiamo da Dio, stiamo vicino a lui, nei giorni della sua sofferenza. «L’essenza del cristianesimo è la contemplazione del volto del Dio crocifisso» (Carlo Maria Martini). Stando accanto a lui, come in quel venerdì, sul Calvario, così oggi nelle infinite croci dove Cristo è ancora crocifisso nei suoi fratelli, nella sua carne dolente e santa. Come con Gesù, Dio non ci salva dalla sofferenza, ma nella sofferenza; non ci protegge dalla morte, ma nella morte. Non libera dalla croce ma nella croce (Bonhoeffer).
La lettura del Vangelo della Passione è di una bellezza che mi stordisce: un Dio che mi ha lavato i piedi e non gli è bastato, che ha dato il suo corpo da mangiare e non gli è bastato; lo vedo pendere nudo e disonorato, e devo distogliere lo sguardo.
Poi giro ancora la testa, torno a guardare la croce, e vedo uno a braccia spalancate che mi grida: ti amo. Proprio a me? Sanguina e grida, o forse lo sussurra, per non essere invadente: ti amo.
Perché Cristo è morto in croce? Non è stato Dio il mandante di quell’omicidio. Non è stato lui che ha permesso o chiesto che fosse sacrificato Gesù, l’innocente, al posto di tutti noi colpevoli, per soddisfare il suo bisogno di giustizia. «Io non bevo il sangue degli agnelli, io non mangio la carne dei tori», quante volte l’ha gridato nei profeti! La giustizia di Dio non è dare a ciascuno il suo, ma dare a ciascuno se stesso, l’intera sua vita. Ecco allora che Incarnazione e Passione si abbracciano, è la stessa logica che prosegue fino all’estremo. Gesù entra nella morte, come è entrato nella carne, perché nella morte entra ogni figlio dell’uomo. E la attraversa, raccogliendoci tutti dalle lontananze più perdute, per tirarci fuori, trascinandoci con sé, in alto, con la forza della sua risurrezione.
IL RE DELLA GLORIA
Clarisse Sant’Agata
La settimana santa si apre con l’ulivo e si chiude con il legno (della croce): due simboli diversi ma corrispondenti attraverso i quali la liturgia ci fa contemplare il frutto maturo dell’eccessivo amore di Dio che si dona come pace e perdono.
La celebrazione di oggi è introdotta dalla processione con la quale entriamo solennemente in Gerusalemme con Gesù, il Messia mite e umile, acclamato dai discepoli e dalle folle. Gesù fa il suo ingresso nella città santa, anzi, si dirige nel tempio, dove si svolgerà tutto il suo ministero fino alla sua passione. E’ il ritorno della gloria di Dio in Gerusalemme, nel tempio, dimora della gloria di Dio, prefigurato dai profeti (Ez 47): l’amore di Dio per ogni uomo si manifesta in modo pieno e definitivo e viene ad abitare stabilmente in mezzo a noi (si compie ciò che l’evangelista Giovanni afferma nel prologo Gv 1,14).
Entra in Gerusalemme il Re, Colui che viene per sposare la città, per ricolmare di gioia il suo popolo, l’umanità. Si tratta di un brano di Lc che potrebbe essere paragonato a quello dell’ingresso di Gesù nel mondo, nei Vangeli dell’infanzia: si ripete il medesimo canto di esultanza (“Pace in cielo e gloria…”) degli angeli, ora ripetuto dai discepoli per tutti i prodigi che i loro occhi hanno veduto.
L’esultanza dei discepoli è la gioia di chi vede la corrispondenza fra la Parola della promessa e Gesù. Ora i discepoli vedono quella corrispondenza nello splendore della gloria, di un ingresso trionfale, ritenendo che il Re che è Gesù sia tale per il dispiegarsi di una regalità terrena. Fra breve saranno chiamati a riconoscere quella stessa corrispondenza nella Pasqua del Cristo: il Re è il Crocifisso.
Alla scena dell’ingresso in Gerusalemme corrisponde infatti quella della croce. Anche qui c’è un Re (“Re dei Giudei”, riporta l’iscrizione posta sulla croce) che regna da un trono inglorioso e che manifesta la sua potenza nell’impotenza della croce. Ed eppure questo è il compimento di quell’ingresso a Gerusalemme. Le parole dei discepoli (“Benedetto colui che viene,il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!”) sarebbero più appropriate sotto la croce perché è questo il luogo vero della manifestazione della Gloria!
Gesù è il Re della Gloria proprio nel momento della sua croce. La Gloria è il peso del dispiegarsi dell’identità di qualcuno. La gloria di questo Re è l’amore di Dio che si rivela in modo pieno e definitivo sulla croce. La croce di Gesù è la glorificazione vera di Dio, cioè la manifestazione piena di chi è Dio, perché è l’esaltazione del suo amore per tutti. E questa gloria si può vedere! Chi la vede vive. Come afferma S. Ireneo: se l’uomo vivente è la gloria di Dio, la vita dell’uomo è la visione di Dio, di questo Dio crocifisso per amore dell’uomo.
Il Vangelo di Luca è un Vangelo visivo: I discepoli vedono (come afferma Lc in 10,23: “beati i vostri occhi perché vedono”). Quali occhi vedono? Gli occhi della carne vedono la croce. Gli occhi della fede vedono l’amore di Dio che ama fino a morire. Gli occhi della fede riconoscono che questa è la logica dell’amore: la consegna inerme, la scelta di non salvare se stessi ma l’altro, l’amato. E l’amato è l’uomo “malfattore”, cioè l’uomo che fa il male.
La scena della croce è in modo paradigmatico il confronto fra Gesù e l’uomo che fa il male. Tutta la scena è carica della presenza di uomini che sono “nemici”, in quanto fanno il male che non vogliono (come non ricordare qui quella parola di S. Paolo in Rm 7: “io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto…”, cioè siamo tutti peccatori, operatori di un male che non vogliamo). E sotto la croce ci sono proprio tutti: capi del popolo, tutto il popolo, i soldati, i malfattori crocifissi. Nel Vangelo di Luca, Gesù manifesta di essere Re proprio chiedendo perdono e salvando l’umanità, questa umanità perduta e non consapevole di sé (“Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”).
Gesù è quel Re che esercita la sua regalità sulla croce e la sua regalità è salvezza: l’unico potere che ha il Crocifisso/Re è quello di amare fino alla morte. E amare l’uomo peccatore (cfr. Rm 5,5). La salvezza che dona il Re non è la liberazione dalla morte, ma la liberazione nella morte. È l’apertura del suo Regno. Gesù apre il suo Regno per l’uomo che si affida alla Sua potenza inerme. Di fronte alla ripetuta richiesta di salvare se stesso, Gesù risponde rimanendo sulla croce e rinunciando a salvarsi da solo. Questa è la salvezza per l’uomo: smettere di cercare di salvarsi da se stesso e di salvarsi senza i fratelli. Gesù, perdendosi per noi, ci libera dal nostro male più radicale che è il nostro vano tentativo di darci salvezza da soli.
La salvezza cos’è? È il passaggio dal primo al secondo malfattore. È riconoscere che questo Re che muore sulla croce del nostro male, nel momento della sua paradossale sconfitta, è vincitore della morte e apre per noi peccatori spazi di vita nuova. Salvezza vuol dire possibilità ampie di vita, dimorare in spazi ampi. Il Crocifisso ci dona questo spazio di vita abbondante nel fatto che Lui è là dove noi siamo (sulla croce). Stare nelle nostre situazioni di dolore con Lui è salvezza.
Tuttavia ci sono due modi molto diversi di porsi nel momento in cui si è inchiodati sulla croce del dolore, come Gesù: sono i due atteggiamenti dei due malfattori. Entrambi malfattori, entrambi gridano. Ma l’uno grida qualcosa su Gesù, l’altro grida a Gesù. Sono due invocazioni/preghiere. E Gesù risponde proprio al secondo. Cioè Gesù accetta di mettersi in dialogo con noi che siamo sulla croce solo se ci affidiamo a Lui, alla sua impotente compagnia sulla croce. Gesù ascolta quest’uomo che si rivolge a lui chiamandolo per nome “Gesù”, cioè confessando che “Dio salva” (questo è il significato del nome di Gesù). Gesù gli assicura: “oggi sarai con me nel paradiso”, nel giardino. Gesù gli può promettere che il malfattore sarà con Lui perché Lui, il Re crocifisso è con il malfattore. Gesù promette all’uomo peccatore che sarà con Lui nel luogo della massima intimità con Dio (nel giardino, luogo originario della comunione di Adamo con Dio) proprio perché Lui, il Re, ha vissuto fino in fondo l’estraneità di Dio (nel deserto del peccato e della morte).
Gesù quindi è il servo obbediente (2 lettura) che si abbandona alla volontà del Padre: la croce è il luogo dove si compie la lotta con Satana (che si ripropone nella tentazione del triplice “salvi se stesso”), la consegna alle misteriose mani del Padre e il perdono dell’uomo peccatore. Sull’“albero secco” della croce fiorisce il frutto del perdono che consiste nella possibilità di entrare in quella comunione originaria fra Dio e l’uomo (“oggi sarai con me in paradiso”, letteralmente “nel giardino” – Lc 23,43). Il Regno preparato per coloro che appartengono a Dio si apre come amore e perdono per chi entra nella Pasqua con il Cristo: qui ci ha condotti l’itinerario quaresimale di questo ciclo C, perché dentro il mistero di ogni nostra pasqua riconosciamo il volto del Cristo che trasforma il dolore e la morte nel luogo del perdono e dell’amore senza ritorno.
http://www.clarissesantagata.it
Settimana Santa: con un “cuore grande quanto il mondo”
Romeo Ballan, mccj
Entriamo nella Settimana grande dell’amore fino alle estreme conseguenze (“Li amò sino alla fine”, Gv 13,1). L’ingresso nella Settimana Santa è segnato quest’anno dal racconto della passione e morte di Cristo, narrata da San Luca (Vangelo). Quella Passio non è solo storia del passato: gli stessi avvenimenti si ripetono oggi. I personaggi di allora (Caifa, Erode, Pilato, farisei, sacerdoti, Pietro, Giuda, Cireneo, pie donne, soldati, Centurione, Giuseppe d’Arimatea…) esistono ancora, sono emblematici di quanto succede oggi nei riguardi di Cristo e dei sofferenti, con i quali Egli si identifica (cfr. Mt 25,35s). Ognuno di noi può trovarsi ad essere, oggi, nel bene o nel male, l’uno o l’altro di quei personaggi. Siamo noi oggi gli attori nella passione che Gesù patisce in tanti anziani abbandonati, giovani senza lavoro, migranti bloccati o respinti, donne abbandonate o vittime della violenza… Oggi, ognuno può essere chiuso al dolore altrui, o meglio sensibile come le pie donne, che accompagnano Gesù nel dolore; o essere come il Cireneo, capace di portare il fardello altrui; o come Maria, ai piedi della croce…
Tre testimoni moderni del mondo missionario ci sono di aiuto nella comprensione e nella celebrazione del Mistero pasquale proprio della Settimana Santa. La loro parola nasce dall’esperienza personale di identificazione con Cristo morto e risorto. Per questo, tali testimonianze hanno una risonanza universale: aiutano a vivere la Pasqua secondo l’ampiezza e la profondità proprie del Cuore di Cristo.
“Sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo”.
S. Daniele Comboni (1831-1881), missionario appassionato della salvezza dell’Africa, nelle Regole per il suo Istituto (1871), raccomandava vivamente ai futuri missionari di contemplare con amore Cristo crocifisso, per formarsi al necessario “spirito di sacrificio”:
«Il pensiero perpetuamente rivolto al gran fine della loro vocazione apostolica deve ingenerare negli alunni dell’Istituto lo spirito di sacrifizio. Si formeranno questa disposizione essenzialissima col tener sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo, amandolo teneramente, e procurando di intendere ognora meglio cosa vuol dire un Dio morto in croce per la salvezza delle anime. Se con viva fede contempleranno e gusteranno un mistero di tanto amore, saran beati di offrirsi a perder tutto, e morire per Lui, e con Lui».
(Dagli Scritti di D. Comboni, n. 2720-2722).
“Ho sete!”
La totale dedizione della Santa Madre Teresa di Calcutta (1910-1997) alla causa missionaria ebbe origine dalla contemplazione delle parole di Gesù in croce: “Ho sete!” (Gv 19,28). L’attenzione agli ultimi nella scala sociale nasceva in lei dal desiderio di soddisfare la sete di Cristo.
«“Ho sete!” Disse Gesù quando, sulla croce, era privo di qualsiasi consolazione. Rinnovate il vostro zelo per saziare la sua sete nelle dolorose sembianze dei più poveri dei poveri: “Voi l’avete fatto a me”. Non separate mai queste parole di Gesù: “Ho sete” e “voi l’avete fatto a me”».
(Dagli scritti di Madre Teresa di Calcutta).
Celebrare la Pasqua con un “cuore grande quanto il mondo”
Tale è l’insegnamento di San Oscar Arnulfo Romero (1917-1980), martire, arcivescovo di San Salvador, ucciso mentre celebrava l’Eucaristia nel pomeriggio del 24 marzo 1980.
«Celebra la Pasqua con Cristo soltanto colui che sa amare, sa perdonare, sa sfruttare la forza più grande che Dio ha posto nel cuore dell’uomo: l’amore. La Chiesa sente che il suo cuore è come quello di Maria, grande quanto il mondo, senza nemici, senza risentimenti».
(Dalle catechesi dei San Oscar A. Romero, nella Settimana Santa 1978).
Es siempre l RESURRECCIÓN, que, superando la Muerte,nos transforma y nos ofrece su Verdadera Vida.
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