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Henri J.M. Nouwen
L’ABBRACCIO BENEDICENTE
Meditazione sul ritorno del figlio prodigo

La storia di due figli e del loro padre

Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: «Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta». E il padre divise tra di loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. Allora rientrò in se stesso e disse: «Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni». Partì e sì incamminò verso suo padre.
Quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio». Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: «È tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». Egli si indignò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso». Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». (Luca 15,11-32)

Prologo
Incontro con un dipinto

Il poster

Un incontro apparentemente insignificante con un poster raffigurante un particolare del Ritorno del figlio prodigo di Rembrandt ha messo in moto una lunga avventura spirituale che mi ha portato ad una nuova comprensione della mia vocazione e mi ha offerto nuova forza per viverla. Al centro di questa avventura ci sono un dipinto del diciassettesimo secolo e il suo artista, una parabola del primo secolo e il suo autore, e una persona del ventesimo secolo alla ricerca del significato della vita. La storia comincia nell’autunno del 1983 nella cittadina di Trosly, in Francia, dove stavo trascorrendo qualche mese presso L’Arche, una comunità che ha aperto una casa a persone con handicap mentali.

Fondata nel 1964 da un canadese, Jean Vanier, la comunità di Trosly è la prima di più di novanta comunità che L’Arche ha diffuso in tutto il mondo. Un giorno andai a far visita alla mia amica Simone Landrien al piccolo centro di documentazione della comunità. Mentre parlavamo, il mio sguardo si posò su un grande poster affisso alla porta. Vidi un uomo, avvolto in un grande mantello rosso, che con tenerezza poggiava le mani sulle spalle di un ragazzo scapigliato, inginocchiato ai suoi piedi. Non riuscivo a distogliere gli occhi. Mi sentivo attratto dall’intimità tra le due figure, il rosso caldo del mantello dell’uomo, il giallo dorato della tunica del ragazzo, e la luce misteriosa che avvolgeva entrambi. Ma soprattutto furono le mani del vecchio mentre toccavano le spalle del ragazzo a colpirmi interiormente in un punto dove mai ero stato raggiunto prima. Rendendomi conto che ormai non seguivo quasi più la conversazione, dissi a Simone: «Parlami del poster». Rispose: «Oh, è una riproduzione del Figlio prodigo di Rembrandt. Ti piace?». Continuai a fissare il poster e alla fine balbettai: «E bello, più che bello… mi fa venir voglia di piangere e di ridere allo stesso tempo… Non so dirti cosa provo mentre lo guardo, ma mi tocca profondamente». Simone disse: «Forse dovresti averne una copia tutta tua. Puoi comprarla a Parigi». «Si», risposi, «devo averne una copia».

Quando ho visto per la prima volta il Figlio prodigo, avevo appena concluso uno spossante viaggio di sei settimane di conferenze attraverso gli Stati Uniti, invitando le comunità cristiane a fare tutto ciò che era loro possibile per impedire la violenza e la guerra nell’America Centrale. Ero stanco morto, al punto da non riuscire quasi a camminare. Ero ansioso, solo, inquieto e molto bisognoso. Durante il viaggio mi ero sentito una persona che si batte con forza per la giustizia e la pace, capace di affrontare senza paura il mondo delle tenebre. Adesso che tutto era finito, mi ritrovavo come un piccolo, vulnerabile bambino desideroso soltanto di trascinarsi nel grembo di sua madre e di piangere. Svaniti gli applausi o i fischi delle folle, provavo una solitudine devastante e mi sarei arreso facilmente alle voci allettanti che promettevano riposo sia alle emozioni che al fisico.

Fu in queste condizioni che m’imbattei per la prima volta nel Figlio prodigo di Rembrandt sulla porta dell’ufficio di Simone. Quando lo vidi, il mio cuore ebbe un sobbalzo. Dopo il mio lungo, logorante viaggio, il tenero abbraccio tra padre e figlio esprimeva tutto ciò che desideravo in quel momento. Ero veramente il figlio stremato da lunghi viaggi; volevo essere abbracciato; stavo cercando una casa dove sentirmi al sicuro. Il figlio che torna a casa era tutto ciò che ero io e tutto ciò che volevo essere. Per tanto tempo mi ero spostato da un luogo all’altro: a incontrare persone, scongiurare, ammonire e consolare. Adesso desideravo solo riposare al sicuro in un luogo dove provare un senso di appartenenza, un luogo dove potermi sentire a casa.

Molte cose sono accadute nei mesi e negli anni che seguirono. Anche se l’estrema stanchezza mi aveva abbandonato ed ero tornato alla vita dell’insegnamento e ai miei viaggi, l’abbraccio di Rembrandt è rimasto impresso nella mia anima molto più profondamente di qualsiasi altro sentimento temporaneo di origine emotiva. Mi aveva messo in contatto con qualcosa, dentro di me, che sta molto al di là degli alti e bassi di una vita movimentata, qualcosa che rappresenta l’incalzante struggimento dello spirito umano, il desiderio ardente di un ritorno finale, di un inequivocabile senso di sicurezza, di una dimora stabile. Sebbene fossi impegnato con molte persone, coinvolto in molti problemi e frequentassi molti luoghi, il ritorno a casa del figlio prodigo stava con me e continuava persino ad assumere sempre più significato nella mia vita spirituale. Il forte desiderio di una casa stabile, reso cosciente dal dipinto di Rembrandt, diventava sempre più profondo e forte, facendo in qualche modo del pittore stesso un compagno e una guida fedeli.

Due anni dopo aver visto per la prima volta il poster di Rembrandt, ho dato le dimissioni dall’insegnamento alla Harvard University e sono tornato a L’Arche di Trosly per trascorrervi un anno intero. Scopo di questo trasferimento era di stabilire se ero o non ero chiamato a vivere una vita con gli handicappati mentali in una delle comunità de L’Arche. Durante quell’anno di transizione, mi sono sentito particolarmente vicino a Rembrandt e al suo Figlio prodigo. Dopo tutto, stavo cercando una nuova casa. Avevo l’impressione che il mio compatriota olandese mi fosse stato assegnato come compagno speciale.

Prima della fine di quell’anno, avevo deciso di fare de L’Arche la mia nuova casa e di raggiungere Daybreak, la comunità de L’Arche di Toronto.

Il dipinto

Poco prima di lasciare Trosly, fui invitato dai miei amici Bobby Massie e sua moglie, Dana Robert, a unirmi a loro in un viaggio in Unione Sovietica. Questa fu la mia reazione immediata: «Ora potrò finalmente vedere il dipinto vero!». Da quando ho iniziato a interessarmi a questa grande opera, sapevo che l’originale era stato acquistato nel 1766 da Caterina la Grande per l’Ermitage di San Pietroburgo (cui, dopo la rivoluzione, venne dato il nome di Leningrado, ma che recentemente ha ripreso il suo nome originale) e che si trovava ancora in quella città. Mai avrei sognato di poterlo vedere cosi presto.

Sebbene fossi molto ansioso di venire a diretto contatto con un paese che aveva cosi fortemente influenzato i miei pensieri, le mie emozioni e i miei sentimenti per gran parte della mia vita, tutto ciò divenne quasi insignificante se confrontato con l’opportunità di sedere di fronte al dipinto che mi aveva rivelato le aspirazioni più profonde del mio cuore. Dal momento della mia partenza, sapevo che la mia decisione di entrare a far parte de L’Arche in modo permanente e la mia visita in Unione Sovietica erano strettamente collegate. Il legame ne ero sicuro era il Figlio prodigo di Rembrandt.

In qualche modo avevo la sensazione che vedere quel dipinto mi avrebbe permesso di penetrare nel mistero del ritorno-a-casa in un modo che mai avevo provato prima. Tornare da uno spossante giro di conferenze ad un luogo sicuro era stato un ritorno-a-casa; lasciare il mondo degli insegnanti e degli studenti per vivere in una comunità di uomini e donne handicappati mentali è stato come ritornare a casa; incontrare le persone di un paese che si era separato dal resto del mondo con muri e confini accuratamente sorvegliati, anche questo era, nel suo genere, un modo di andare a casa. Ma, sotto o al di là di tutto questo, tornare a casa per me significava camminare passo passo verso Colui che mi attende a braccia aperte e mi vuole stringere in un abbraccio eterno.

Sapevo che Rembrandt aveva capito profondamente questo ritorno a casa spirituale. Sapevo che quando Rembrandt dipinse il Figlio prodigo, aveva vissuto una vita che non gli aveva lasciato alcun dubbio sulla sua vera e definitiva casa. Sentivo che se avessi potuto incontrare Rembrandt proprio là dove aveva dipinto il padre e il figlio, Dio e l’umanità, la misericordia e la miseria, in un circolo d’amore, sarei venuto a conoscere sulla morte e sulla vita quanto non sarei mai riuscito in altro modo. Nutrivo anche la speranza che, attraverso il capolavoro di Rembrandt, un giorno sarei stato capace di esprimere ciò che più di tutto volevo dire sull’amore.

Essere a San Pietroburgo è un conto. Avere l’opportunità di riflettere con calma sul Figlio prodigo all’Ermitage è tutta un altra cosa. Quando ho visto la coda di gente, lunga più di un chilometro, che aspettava per entrare nel museo, mi sono chiesto preoccupato come e per quanto tempo avrei potuto vedere ciò che volevo vedere più di ogni cosa. La mia ansia, comunque, fu alleviata. A San Pietroburgo il nostro giro ufficiale terminò, e la maggior parte dei membri del gruppo tornò a casa. Ma la madre di Bobby, Suzanne Massie, che era in Unione Sovietica durante il nostro viaggio, ci invitò a trattenerci alcuni giorni con lei. Suzanne è un esperta di cultura e arte russa e il suo libro The Land of the Firehird mi aveva aiutato enormemente a prepararmi al nostro viaggio. Chiesi a Suzanne: «Come posso osservare da vicino e a mio agio il Figlio prodigo?». Lei disse: «Ora, Henri, non ti preoccupare. Vedrò di farti avere tutto il tempo che vuoi e di cui hai bisogno per il tuo dipinto preferito».

Durante il nostro secondo giorno a San Pietroburgo, Suzanne mi dette un numero di telefono e disse: «Questo è il numero dell’ufficio di Alexei Briantsev. È un mio caro amico. Chiamalo e lui ti aiuterà ad arrivare al tuo Figlio prodigo». Feci subito il numero e fui sorpreso di sentire Alexei, nel suo inglese leggermente accentato, promettere di incontrarmi ad una porta laterale, lontano dall’entrata dei turisti.

Sabato, 26 luglio 1986, alle 2.30 del pomeriggio, andai all’Ermitage, camminai lungo la Neva oltre l’entrata principale e trovai la porta che Alexei mi aveva indicato. Entrai. Qualcuno dietro un grande tavolo mi permise di usare il telefono interno per chiamare Alexei. Dopo pochi minuti, egli si presentò e mi accolse con grande gentilezza. Attraverso splendidi corridoi e scale eleganti mi condusse in un luogo escluso dall’itinerario turistico. Era una sala lunga con soffitti alti: sembrava lo studio di un vecchio artista. Ovunque dipinti ammucchiati. In mezzo, grossi tavoli e sedie coperti di carte e oggetti di ogni tipo. Non appena ci sedemmo per un momento, mi fu subito chiaro che Alexei era il capo del dipartimento di restauro dell’Ermitage. Con grande garbo e ovvio interesse per il mio desiderio di trascorrere qualche tempo vicino al dipinto di Rembrandt, mi offrì tutto l’aiuto che volevo. Poi mi portò direttamente al Figlio prodigo. Disse al custode di non badare a me e mi lasciò.

E così ero lì: di fronte al dipinto che aveva ossessionato la mia mente e il mio cuore per quasi tre anni. Rimasi sbalordito dalla sua maestosa bellezza. La sua dimensione, più grande di quella naturale; i suoi abbondanti rossi, marroni e gialli; i suoi fondali ombreggiati e il primo piano luminoso, ma soprattutto l’abbraccio avvolto dalla luce tra padre e figlio circondati da quattro misteriosi astanti; tutto ciò mi avvinse con una intensità di gran lunga superiore alle mie aspettative.

C’erano stati momenti in cui mi ero chiesto se il dipinto, quello autentico, mi avrebbe deluso. Era vero il contrario. La sua magnificenza e il suo splendore facevano rimpicciolire ogni cosa tutt’intorno e mi tenevano totalmente avvinto. Venire qui fu davvero un ritorno a casa. Mentre molti gruppi di turisti con le loro guide andavano e venivano in rapida successione, io sedevo su una delle sedie di velluto rosso di fronte al dipinto e guardavo.

Ora lo vedevo dal vivo! Non solo il padre che abbraccia il figlio che torna a casa, ma anche il figlio maggiore e le altre tre figure. È un opera enorme ad olio su tela, alta 243,84 cm per 182,88 cm di larghezza. Mi ci è voluto un po’ per ambientarmi, per stare semplicemente lì, per rendermi semplicemente conto che ero alla presenza di ciò che avevo per tanto tempo sperato di vedere, per godermi il fatto che ero seduto da solo all’Ermitage di San Pietroburgo a guardare il Figlio prodigo per tutto il tempo che volevo. Il dipinto era esposto nel modo più favorevole, su una parete che riceveva abbondante luce naturale da un ampia finestra vicina, con un angolo di ottanta gradi.

Mentre sedevo lì, mi accorsi che la luce aumentava e diventava più intensa con l’avanzare del pomeriggio. Alle quattro il sole accese il dipinto di una nuova luminosità, e le figure sullo sfondo che erano rimaste piuttosto vaghe nelle prime ore parvero uscire dai loro angoli oscuri. Mentre si avvicinava la sera, la luce del sole si fece più tagliente e vibrante. L’abbraccio tra padre e figlio diventava più forte e più profondo e gli astanti partecipavano più direttamente a questo misterioso evento di riconciliazione, perdono e pacificazione interiore. Gradualmente mi resi conto che c’erano tanti dipinti del Figlio prodigo quante erano le variazioni della luce e rimasi a lungo incantato da questa danza suggestiva di natura e arte.

Senza accorgermi, erano passate più di due ore quando Alexei ricomparve. Con un sorriso di indulgenza e un gesto di incoraggiamento, suggerì che avevo bisogno di una pausa e mi invitò per un caffè. Mi ricondusse attraverso le maestose sale del museo gran parte del quale costituiva il vecchio palazzo d’inverno degli zar fino al luogo di lavoro dove eravamo stati prima. Alexei e il suo collega avevano disposto una gran quantità di panini, formaggi e dolci e mi incoraggiavano a servirmi di tutto. Prendere il caffè di pomeriggio con i restauratori d’arte dell’Ermitage non era certamente ciò che avevo sognato quando speravo di trascorrere un po’ di tempo in tranquillità con il Figlio prodigo. Sia Alexei che il suo collega condivisero con me tutto quello che sapevano sul dipinto di Rembrandt ed erano molto curiosi di sapere perché ne fossi così preso. Sembravano sorpresi ed anche un po’ perplessi alle mie osservazioni e riflessioni spirituali. Mi ascoltavano attentamente e mi esortavano a dire di più. Dopo il caffè ritornai al dipinto per un altra ora finché il custode e la donna delle pulizie mi fecero capire, senza mezzi termini, che il museo stava chiudendo e che ero stato lì abbastanza a lungo.

Quattro giorni dopo ritornai per un altra visita al dipinto. Durante questa visita accadde una cosa divertente, qualcosa che non posso tacere. A causa dell’angolo con cui il sole del mattino colpiva il dipinto, la superficie lucida rifletteva un bagliore fastidioso. Presi perciò una delle sedie di velluto rosso e la spostai in un punto in cui il bagliore scompariva, consentendomi cosi di poter vedere di nuovo chiaramente le immagini del dipinto. Non appena il custode, un giovane dall’aria grave con berretto e uniforme di tipo militare vide quello che stavo facendo, si arrabbiò molto per l’impudenza che avevo avuto di prendere la sedia e di spostarla da un altra parte. Venendo verso di me, mi ordinò, con un fiume di parole in russo e con gesti universali, di rimettere la sedia a posto. In risposta, indicai il sole e la tela, cercando di spiegargli perché l’avessi spostata. I miei sforzi non ebbero successo. Così rimisi a posto la sedia e sedetti invece sul pavimento. Ma questo innervosì ancora di più il custode. Dopo ulteriori animati tentativi per ottenere la sua comprensione per il mio problema, mi disse di sedere sul calorifero sotto la finestra, da dove avrei avuto una buona vista. Ma, la prima guida turistica che passava con un gruppo numeroso mi venne incontro e mi disse severamente di scendere dal calorifero e di sedere su una delle sedie di velluto. Al che, il custode si arrabbiò molto con la guida e le disse con una profusione di parole e gesti che era stato lui a farmi sedere sul calorifero. La guida non sembrava soddisfatta, ma decise di rivolgere di nuovo la sua attenzione ai turisti che stavano guardando il Rembrandt e si interrogavano sulla dimensione delle figure.

Pochi minuti dopo, Alexei venne da me a vedere come me la passavo. Immediatamente il custode andò da lui e tutti e due iniziarono una lunga conversazione. Il custode cercava ovviamente di spiegare ciò che era successo, ma la discussione durò così a lungo che mi domandavo con una certa ansia a cosa avrebbe portato. Poi, improvvisamente, Alexei se ne andò. Per un momento mi sentii in colpa per aver causato un tale scompiglio e pensai di aver fatto arrabbiare anche Alexei. Dieci minuti dopo, comunque, Alexei ritornò portando una grossa e comoda poltrona con una tappezzeria di velluto rosso e le gambe dipinte d oro. Tutta per me! Con un largo sorriso, mise la sedia di fronte al dipinto e mi pregò di mettermi comodo. Alexei, il custode ed io sorridemmo. Quella sedia era mia e nessuno poteva più obiettare nulla. Improvvisamente tutta la scena sembrò molto comica. Tre sedie vuote che non potevano essere toccate e una poltrona sontuosa portata lì da qualche altra stanza del palazzo d’inverno e a me offerta per spostarla a mio piacimento. Elegante burocrazia! Mi chiesi se qualcuno dei personaggi del dipinto, che avevano assistito all’intera scena, stesse sorridendo con noi. Non lo saprò mai.

Nel complesso, trascorsi più di quattro ore con il Figlio prodigo, prendendo nota di ciò che sentivo dire dalle guide e dai turisti, di ciò che vedevo mentre il sole si faceva più forte e poi man mano si affievoliva, e di ciò che provavo nella parte più segreta di me stesso, mentre diventavo sempre più parte della storia che un giorno Gesù aveva raccontato e che Rembrandt un tempo aveva dipinto. Mi chiedevo se e come quelle ore preziose all’Ermitage avrebbero mai portato dei frutti.

Quando lasciai il dipinto, andai dal giovane custode e cercai di esprimere la mia gratitudine per avermi sopportato così a lungo. Quando guardai dentro i suoi occhi sotto il grosso berretto russo, vidi un uomo come me: impaurito, ma con un grande desiderio di essere perdonato. Il suo giovane viso senza barba si illuminò di un sorriso assai gentile. Sorrisi anch’io e tutti e due ci sentimmo rassicurati.

L’evento

Alcune settimane dopo aver visitato l’Ermitage di San Pietroburgo, arrivai a L’Arche Daybreak di Toronto per viverci e lavorare come guida spirituale della comunità. Sebbene mi fossi preso un anno intero per chiarire la mia vocazione e discernere se Dio mi stesse chiamando ad una vita con gli handicappati mentali, mi sentivo assai timoroso e ansioso: sarei riuscito a viverla bene? Prima non avevo mai prestato molta attenzione a persone con handicap mentali. Al contrario, mi ero invece concentrato sempre più sugli studenti universitari e sui loro problemi. Avevo imparato come si fanno conferenze, come si scrivono libri, come si spiegano le cose in modo sistematico, come si fanno titoli e sottotitoli, come si argomenta e si analizza. Perciò non avevo idea, se non vaga, di come comunicare con uomini e donne che parlano a stento e, se parlano, non sono interessati a ragionamenti logici o a opinioni ben argomentate. Sapevo ancor meno come si potesse annunciare il Vangelo di Gesù a persone che ascoltavano più con il cuore che con la mente ed erano molto più sensibili a ciò che vivevo che a quello che dicevo.

Arrivai a Daybreak nell’agosto del 1986 convinto di aver fatto la scelta giusta, ma con il cuore ancora pieno di trepidazione per ciò che mi aspettava. Nonostante questo, ero convinto che, dopo più di venti anni di insegnamento, era venuto il tempo di credere che Dio ama in modo del tutto speciale i poveri in spirito e che anche se potevo aver poco da offrire loro essi avevano molto da offrire a me.

Una delle prime cose che feci dopo il mio arrivo fu di cercare un posto adatto per appendere il mio poster del Figlio prodigo. Il luogo di lavoro che mi fu assegnato si dimostrò ideale. Ogni volta che mi sedevo per leggere, scrivere o parlare con qualcuno, potevo vedere quell’abbraccio misterioso tra padre e figlio che era diventato una parte intima del mio itinerario spirituale. Dopo la mia visita all’Ermitage mi ero fatto più attento alle quattro figure, due donne e due uomini, che stanno intorno allo spazio luminoso dove il padre accoglie il figlio che ritorna. Il loro modo di guardare induce a chiedere quali siano i loro pensieri e sentimenti su ciò che stanno osservando. Questi astanti, o osservatori, consentono ogni tipo di interpretazione.

Quando rifletto sul mio itinerario, sono sempre più consapevole di quanto a lungo io abbia giocato il ruolo di osservatore. Per anni ho istruito studenti sui diversi aspetti della vita spirituale, cercando di aiutarli a cogliere l’importanza di viverla. Ma io ho mai veramente osato andare verso il centro, inginocchiarmi e lasciarmi accogliere da un Dio che perdona? Il semplice fatto di essere capace di esprimere un opinione, di impostare una discussione, di difendere una posizione e di chiarire un punto di vista mi ha dato, e ancora mi dà, un senso di sicurezza. E generalmente mi sento molto più sicuro nel provare un senso di controllo su una situazione indefinibile che nell’affrontare il rischio di lasciare che quella situazione controlli me. Certamente c’erano state, nella mia vita, molte ore di preghiera, molti giorni e mesi di ritiro spirituale e innumerevoli conversazioni con direttori spirituali, ma non avevo mai completamente abbandonato il ruolo di osservatore.

Anche se ho sempre nutrito il desiderio di essere dalla parte di chi sta dentro e guarda fuori, tuttavia ho continuato a scegliere la posizione di chi sta fuori e guarda dentro. Talvolta questo guardare dentro era un guardare curioso, talaltra un guardare geloso, altre volte un guardare ansioso e, ogni tanto, anche un guardare amoroso. Ma abbandonare la posizione, in qualche modo sicura, dell’osservatore critico mi appariva come un grande salto in un territorio totalmente sconosciuto. A tal punto volevo mantenere un qualche controllo sul mio itinerario spirituale, per essere in grado di prevedere almeno una parte del risultato, che rinunciare alla sicurezza dell’osservatore per la vulnerabilità del figlio che ritorna, mi sembrava praticamente impossibile.

Insegnare agli studenti, trasmettere loro le tante interpretazioni date nel corso dei secoli alle parole e ai gesti di Gesù, e mostrare loro i tanti itinerari spirituali che le persone hanno scelto nel passato era proprio come prendere il posto di uno dei quattro personaggi che facevano corona all’abbraccio divino. Le due donne che stanno dietro al padre a distanze diverse, l’uomo seduto che guarda fisso nel vuoto senza guardare nessuno in particolare e l’uomo alto che sta in piedi e osserva in modo critico l’evento che si sta svolgendo sulla pedana dinanzi a lui tutti costoro rappresentano modi diversi di non essere coinvolti. In loro c’è indifferenza, curiosità, un sognare a occhi aperti e uno scrutare attentamente; c’è un fissare lo sguardo, un osservare con distacco, un guardare con cura e un dare una fuggevole occhiata; c’è un rimanere nello sfondo, un appoggiarsi ad un arcata, uno stare seduto con le braccia incrociate e uno stare in piedi con le mani in mano. Ognuna di queste posizioni interiori ed esteriori mi è fin troppo familiare. Alcune sono più comode di altre, ma sono tutte dei modi di non essere coinvolti direttamente.

Passare dall’insegnamento a studenti universitari a una vita con persone handicappate mentali era, almeno per me, un passo verso la pedana dove il padre abbraccia il figlio inginocchiato. È il luogo della luce, il luogo della verità, il luogo dell’amore. È il luogo dove desidero tanto stare, ma dove ho tanta paura di rimanere. È il luogo dove riceverò tutto ciò che desidero, tutto ciò che ho sempre sperato, tutto ciò di cui potrò aver bisogno, ma è anche il luogo dove devo abbandonare tutto ciò a cui più di tutto voglio rimanere attaccato. È il luogo che mi mette di fronte al fatto che accettare veramente l’amore, il perdono e la pacificazione interiore è spesso molto più difficile che darli. È il luogo al di là del lucro, del merito e della ricompensa. È il luogo dell’abbandono e della fiducia totali.

Non appena arrivai a Daybreak, Linda, una donna giovane e bella con la sindrome di Down, mi gettò le braccia al collo e disse: «Benvenuto». Fa così con ogni nuovo arrivato, e lo fa ogni volta con convinzione e amore senza riserve. Ma come ricevere un abbraccio del genere? Linda non mi aveva mai incontrato. Non aveva la minima cognizione di come ero vissuto prima di andare a Daybreak. Non aveva mai avuto occasione di incontrare il mio lato oscuro, né di scoprire i miei angoli di luce. Non aveva mai letto nessuno dei miei libri, non mi aveva mai sentito parlare né mai aveva avuto una qualche conversazione con me. Avrei dovuto solo sorridere, definirla graziosa e passare oltre come se niente fosse accaduto? Oppure anche Linda stava in qualche modo sulla pedana e con il suo gesto diceva: «Avanti, non essere scontroso, tuo Padre vuole trattenere anche te!». Sembra così ogni volta che devo fare una scelta tra spiegare questi gesti o semplicemente accettarli come inviti a salire più sù e più vicino si tratti del benvenuto di Linda, la stretta di mano di Bill, il sorriso di Gregory, il silenzio di Adam o le parole di Raymond.

Gli anni a Daybreak non sono stati facili. C è stata molta lotta interiore e c’è stata sofferenza mentale, emotiva e spirituale. Niente, assolutamente niente, faceva pensare di essere arrivati. Comunque il trasferimento da Harvard a L’Arche si è rivelato solo un piccolo passo da spettatore a partecipante, da giudice a peccatore pentito, da insegnante dell’amore a persona amata come il prediletto. Non avevo nemmeno la più vaga idea di quanto sarebbe stato difficile il viaggio. Non mi rendevo conto di quanto fosse profondamente radicata la mia resistenza e quanto sarebbe stato doloroso rientrare in me, piegarmi sulle ginocchia e lasciar scorrere le lacrime liberamente. Non mi rendevo conto di quanto sarebbe stato difficile diventare veramente parte del grande evento che il dipinto di Rembrandt ritrae. Ogni piccolo passo verso il centro sembrava come una richiesta impossibile, una domanda che esigeva da parte mia, ogni volta, di lasciar perdere di voler stare al controllo, di abbandonare il desiderio di prevedere la vita, di morire alla paura di non saper dove tutto questo mi avrebbe condotto e di arrendermi ad un amore che non conosce limiti. E ancora, sapevo che non sarei mai stato capace di vivere il grande comandamento dell’amore lasciandomi amare senza condizioni o requisiti essenziali. Passare dall’insegnare l’amore al permettere a me stesso di essere amato si è rivelato un itinerario molto più lungo di quanto potessi immaginare.

La visione

Molto di quanto è avvenuto dopo il mio arrivo a Daybreak è annotato in diari e taccuini ma, da come è scritto, ben poco può essere condiviso con altri. Le parole sono troppo crude, troppo violente, troppo sanguinanti e troppo nude. Ma ora è venuto il momento in cui è possibile guardare indietro a quegli anni di confusione e descrivere, con più obiettività di quanto prima non fosse possibile, il luogo a cui tutta quella lotta mi ha portato. Non sono ancora libero abbastanza da lasciarmi avvolgere completamente dall’abbraccio sicuro del Padre. In molti modi mi sto ancora spostando verso il centro. Sono ancora come il figlio prodigo: in viaggio, mentre preparo discorsi, mentre cerco di immaginare che cosa accadrà quando alla fine raggiungerò la casa di mio Padre. Ma sono veramente sulla via di casa. Ho lasciato il paese lontano e comincio a sentire la vicinanza dell’amore. E così, ora sono pronto a condividere la mia storia. In essa si può trovare un po di speranza, un po di luce e un po di consolazione. Molto di quanto ho vissuto negli ultimi anni sarà parte di questa storia, non come espressione di confusione o di disperazione, ma come momenti del mio viaggio verso la luce.

Il dipinto di Rembrandt mi è rimasto molto vicino durante questo periodo. L’ho spostato molte volte: dal mio ufficio alla cappella, dalla cappella al soggiorno del Dayspring (la casa di preghiera a Daybreak) e dal soggiorno del Dayspring di nuovo alla cappella. Ne ho parlato molte volte dentro e fuori la comunità di Daybreak: ad handicappati e ai loro assistenti, a pastori e sacerdoti, a donne e uomini di diversa provenienza sociale. Più parlavo del Figlio prodigo e più riuscivo a vederlo in qualche modo come il mio dipinto personale, il dipinto che conteneva non solo il cuore della storia che Dio vuole raccontarmi, ma anche il cuore della storia che io voglio dire a Dio e al popolo di Dio. Lì c’è tutto il Vangelo. Lì c’è tutta la mia vita. Lì c’è la vita di tutti i miei amici. Il dipinto è diventato una finestra misteriosa attraverso la quale posso accedere al Regno di Dio. È come un enorme cancello che mi permette di trasferirmi dall’altro lato dell’esistenza e da lì guardare indietro allo strano assortimento di persone ed eventi che costituiscono la mia vita quotidiana.

Per molti anni ho cercato di carpire un barlume di Dio guardando attentamente ai molteplici aspetti dell’esperienza umana: solitudine e amore, dolore e gioia, risentimento e gratitudine, guerra e pace. Ho cercato di capire gli alti e i bassi dell’animo umano, di discernervi una fame e una sete che solo un Dio il cui nome è Amore potrebbe soddisfare. Ho cercato di scoprire ciò che è duraturo al di là dell’effimero, ciò che è eterno al di là del transitorio, l’amore perfetto al di là di tutte le paure inibitorie e la consolazione divina al di là della desolazione dell’angoscia e dell’estrema sofferenza umane.

Ho cercato costantemente di puntare oltre la qualità mortale della nostra esistenza verso una presenza più grande, più profonda, più ampia e più bella di quanto possiamo immaginare, e di parlare di quella presenza come di una presenza che può essere già vista, sentita e toccata da coloro che sono disposti a credere.

Comunque, durante il tempo trascorso qui a Daybreak, sono stato condotto in un luogo interiore dove non ero stato prima. È il luogo dentro di me dove Dio ha scelto di dimorare. È il luogo in cui mi sento al sicuro nell’abbraccio di un Padre tutto amore che mi chiama per nome e mi dice: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto». È il luogo in cui posso assaporare la gioia e la pace che non sono di questo mondo. Questo luogo era sempre esistito. Ero sempre stato consapevole che fosse fonte di grazia. Ma non ero stato capace di entrare in esso e di viverci veramente.

Gesù dice: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14). Queste parole mi hanno sempre colpito profondamente. Io sono la casa di Dio! Ma era sempre stato molto difficile sperimentare la verità di queste parole. Sì, Dio dimora nel mio essere più intimo, ma come posso aderire all’appello di Gesù: «Rimanete in me e io in voi» (Gv 15,4)? L invito è chiaro e inequivocabile. Dimorare dove Dio dimora, questa è la grande sfida spirituale. Ma mi sembrava un compito impossibile. Con i miei pensieri, sentimenti, emozioni e passioni, ero costantemente lontano dal luogo dove Dio aveva scelto di dimorare.

Tornare a casa e stare dove Dio dimora, ascoltare la voce della verità e dell’amore, quello era veramente il viaggio che temevo di più perché sapevo che Dio è un amante geloso che vuole ogni parte di me, sempre. Quando sarei stato pronto ad accettare questo tipo di amore? Dio stesso mi ha mostrato la via. Le crisi psicologiche e fisiche che hanno interrotto la mia intensa vita di lavoro a Daybreak mi hanno costretto con forza violenta a tornare a casa e a cercare Dio dove Dio può essere trovato nel mio stesso santuario interiore. Non posso dire di esservi arrivato; non sarà mai in questa vita, perché la via verso Dio si prolunga molto al di là del confine della morte. E un viaggio lungo e molto faticoso, ma è anche pieno di sorprese meravigliose poiché ci offre spesso un assaggio della meta ultima.

Quando ho visto il dipinto di Rembrandt per la prima volta, la casa di Dio che è dentro di me non mi era così familiare come lo è ora. Nondimeno, la mia intensa risposta all’abbraccio del padre col figlio mi ha detto che ero alla ricerca disperata di quel luogo interiore dove anch’io potevo essere tenuto così al sicuro come il giovane uomo del dipinto. A quel tempo non prevedevo quanto ci sarebbe voluto per avvicinarmi di qualche passo a quel luogo. Sono contento di non aver saputo in precedenza ciò che Dio stesse progettando per me. Ma sono felice anche per il posto nuovo che è stato aperto in me attraverso tutto il dolore interiore. Ora ho una nuova vocazione. È la vocazione a parlare e scrivere da quel luogo ai molti luoghi della mia vita inquieta e di quella di altre persone.

Mi devo inginocchiare davanti al Padre, mettere l’orecchio contro il suo petto e ascoltare, senza interruzione, il battito del cuore di Dio. Solo allora potrò dire con precisione e molto dolcemente ciò che sento. Adesso so di dover parlare dall’eternità al tempo, dalla gioia perenne alle realtà provvisorie della nostra breve esistenza in questo mondo, dalla casa dell’amore alle case della paura, dalla dimora di Dio alle dimore degli esseri umani. Sono ben consapevole dell’enormità di questa vocazione. Tuttavia sono sicuro che per me è l’unica strada. La si potrebbe chiamare visione profetica: guardare le persone e questo mondo attraverso gli occhi di Dio.

È una possibilità realistica per un essere umano? O meglio ancora: è una vera opzione per me? La domanda non è astratta. È una interrogazione sulla vocazione. Sono chiamato a entrare nel santuario interiore del mio essere dove Dio ha scelto di dimorare. L’unica via a quel luogo è la preghiera, la preghiera incessante. Molte lotte e molto dolore possono aprire la strada, ma sono certo che solo la preghiera continua può consentirmi di entrare in essa.