di Gilberto  Borghi
15 Marzo 2025
Per gestire concessione di
http://www.vinonuovo.it

In un’interpretazione popolare abbastanza diffusa nel mondo cattolico, questa parola ha un valore positivo perché segnala l’intenzione e la capacità della persona di forzare la propria natura istintiva per conformarsi a ciò che la regola segnala come buono. Se non c’è sforzo non c’è sacrificio; se la volontà non si impone contro l’istinto, non c’è sacrificio.

In passato questa idea sembrava centrale nella spiritualità cattolica. Ma ancora oggi c’è chi sostiene che se le azioni del giubileo, non sono un po’ “forzate”, non richiedono un certo grado di opposizione della volontà all’istinto, non hanno valore.

L’idea che ci sta dietro suppone che per conformarsi alla volontà di Dio, alla sua natura, sia necessario opporsi alla spontanea inclinazione della natura umana. Come se la dinamica divina e quella umana fossero di per sé incompatibili. E quando queste due dinamiche entrano in contatto, la natura divina non possa fare altro che “contrastare” quella umana.

Come l’antropologia culturale ci segnala, questo modo di pensare era molto diffuso nelle forme religiose, cosiddette, naturali. La divinità che appariva o entrava in contatto con l’umano rischiava di distruggere le persone. Il tono emotivo di fondo che presiedeva al rapporto tra uomini e dei era quello della paura. Il sacro si definiva così come trascendenza “spaventosa”.

Per placare quello “strapotere” l’uomo pensava che fosse necessario “contrastare” la propria natura, fino ad accettare di “sacrificare” parti di sé, per essere accettati dalle divinità. “Sacrificio” significa, alla lettera, “fare diventare sacro”. Si pensava così, che ciò che veniva sacrificato diveniva sacro, cioè gradito a Dio. I sacrifici umani (già vietati nella bibbia, Lv 18,21) erano la traduzione più estrema di questa idea.

Ma il vangelo non è così. Dio entra dentro l’umano senza distruggerlo, senza provocare paura (anzi si parla di gioia Lc 1, 14) e da dentro i limiti dell’umano inizia un cammino di innalzamento dell’uomo, senza che l’umano ne venga stravolto. Nel cristianesimo, il rapporto tra la natura umana e quella divina è regolato dal dogma dell’incarnazione (Calcedonia, 451 d.C.), in cui si afferma la compresenza delle due nature nella persona di Cristo.

In quel testo si dice che le due nature stanno assieme “senza confusione, senza cambiamento, senza divisione, senza separazione; la distinzione delle nature non è affatto eliminata dall’unione, ma piuttosto le proprietà di ciascuna natura rimangono integre”. L’idea che quando Dio raggiunge l’umano, questo venga sconvolto o debba essere negato o distrutto non appartiene al cristianesimo.

Resta vero che il peccato originale incrina la natura umana e rovina il rapporto con Dio, ma la natura dopo il peccato “non è totalmente corrotta” (Catechismo n. 405) e resta ancora ad immagine di Dio (Catechismo n. 1701), capace di vivere il desiderio naturale di Lui (Catechismo n. 27). A dire che l’uomo è ancora in grado di far funzionare anche istintivamente, pur se in modo parziale e a livello solo umano, la tendenza all’amore, come traduzione effettiva dell’essere ad immagine di Dio.

Il senso cristiano della parola sacrificio, allora, resta solo quello di togliere ciò che blocca il fluire istintivo del nostro desiderio di amare, affinché lo Spirito Santo possa produrre effetti dentro di noi. La spiritualità del cristiano è fatta di sottrazione non di addizione. All’uomo non viene chiesto di aggiungere di suo, sforzandosi, azioni che lo facciano avanzare nel cammino spirituale, ma di sottrarre i blocchi che fermano il suo istinto ad amare, su cui lo Spirito Santo si appoggia per innalzarci all’amore di Dio.

Allora l’impegno primo per vivere il giubileo sarebbe quello di smettere di fare le cose per “sforzo” e di impegnarsi ad amare solo liberamente, spontaneamente. Se siamo stati davvero afferrati da Cristo, nel nostro istinto lui agisce e ci farà sentire attraente ciò che è secondo l’ordine dell’amore, non secondo il senso del dovere.