La nostra ricerca all’interno delle parole bibliche fondamentali ci sta conducendo, dall’inizio della Quaresima, lungo le strade del peccato, dell’espiazione, del perdono. Abbiamo usato intenzionalmente l’immagine del percorso perché si è già spiegato che i vocaboli del peccato evocano un perdere la via giusta per deviare lungo sentieri pericolosi. Nel libro dei Proverbi, per esempio, il maestro ammonisce così il discepolo: «La sapienza ti salverà dalla via del male…, da coloro che abbandonano i retti sentieri per camminare nelle vie delle tenebre…, nei sentieri tortuosi, nelle strade distorte» (2,12-15). Se, dunque, peccare è smarrire la retta via, la conversione è il ritorno su di essa, ed è signi‡cativo che i due verbi «tornare e convertirsi» in ebraico si esprimano con un unico termine, shûb, che si incontra per ben 1.060 volte nell’Antico Testamento. Tuttavia la raffi‡gurazione più incisiva ce l’ha offerta Gesù nella celebre parabola del fi‡glio prodigo (Luca 15,11-24). Costui, infatti, richiesta al padre l’eredità, «partì per un paese lontano», abbandonando la casa paterna. Quando, però, dopo le sue dissolutezze, la fame lo aveva attanagliato, egli «ritornò in se stesso» e decise: «Mi alzerò e ritornerò da mio padre». E subito dopo «si alzò e tornò da suo padre».

È per questo che spesso ritroviamo nei profeti l’esortazione al ritorno-conversione a Dio: «Su, convertitevi (shûb) dalla vostra condotta perversa, correggete le vostre vie e le vostre opere» (Geremia 18,11). Già nel libro del Deuteronomio Mosè si rivolgeva a Israele con questo invito: «Se ti convertirai (shûb) al Signore, tuo Dio, e obbedirai alla sua voce, tu e i tuoi figli, con tutto il cuore e con tutta l’anima, secondo quanto oggi ti comando, allora il Signore convertirà (shûb) la tua sorte, avrà pietà di te e ti raccoglierà di nuovo da tutti i popoli in mezzo ai quali il Signore, tuo Dio, ti aveva disperso» (30,2-3).

È interessante il gioco di parole che Mosè crea attraverso lo stesso verbo shûb: la conversione del cuore e dell’anima crea una conversione dallo stato di infelicità in cui il popolo si trova. Convertirsi è fonte di rinascita e di gioia, tanto è vero che il verbo shûb viene usato per indicare anche il ritorno festoso del popolo ebraico dall’esilio di Babilonia: «Quando il Signore convertì (shûb) la sorte di Sion, ci sembrava di sognare… Converti (shûb), Signore, la nostra sorte!» (Salmo 126,1.4).

La conversione non è, quindi, solo penitenza. Certo, essa comprende un mutare strada e abitudini, esige un taglio con il vizio, un distacco dal male: «L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri, ritorni (shûb) al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona» (Isaia 55,7). Ma, proprio in queste parole del profeta, si intuisce che l’approdo finale è luminoso, è l’abbraccio rinnovato con il Signore.

Un altro profeta, Geremia, ribadisce lo stesso concetto promettendo la ripresa di una nuova alleanza tra Dio e Israele convertito: «Saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio, se torneranno (shûb) a me con tutto il cuore» (24,7). È importante la sottolineatura del «cuore», che per la Bibbia è sinonimo di «coscienza». Per questo l’appello costante è a «convertirsi (shûb) al Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima» (Deuteronomio 30,10).