di Gilberto  Borghi
8 Marzo 2025
Per gentile concessione di
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Nella spiritualità diffusa nella Chiesa fino alla fine degli anni ’70 circa, era una  parola molto importante. Addirittura, in alcuni estremi, si arrivava a sostenere che la sofferenza era lo strumento principale per la redenzione dal peccato. Dopo la metà degli anni ’80 sono iniziate alcune spiritualità che hanno quasi rifiutato la sofferenza, come fosse qualcosa che non poteva appartenere al cammino di fede del cristiano autentico.

Sono due estremi che ancora oggi albergano un po’ nella Chiesa, ma che non colgono la sostanza profonda del senso della sofferenza per il cristiano, e soprattutto “sfocano” il ruolo di questa parola nel contesto del giubileo.

Il Catechismo dichiara apertamente che Dio, “in alcun modo”, vuole la sofferenza (n. 310-311). Ciò significa che non esiste qualcosa che agli occhi di Dio possa giustificare come buona l’esistenza della sofferenza, nemmeno una sua eventuale dimensione “educativa”. Perché Dio sa bene che non è col dolore che le persone si convertono, crescono e migliorano, ma solo e quando avvertono di essere amate gratuitamente, al di là dei loro meriti.

In Lc 15, il figlio minore della parabola non si converte quando sente la fame e non ha che le ghiande da mangiare. In quel momento egli fa un pensiero egoistico: mi conviene ritornare da mio padre, almeno lì posso sfamarmi! Non è la conversione all’amore di Dio, ma il riconoscimento del proprio fallimento. Perciò, la sofferenza, di per sé, non converte, ma mostra solo il limite dell’uomo. Può essere un preludio alla conversione, ma anche chi non soffre può convertirsi, crescere e migliorarsi. Dobbiamo essere chiari su questo. La salvezza cristiana è opera di amore, quello che Dio ha per noi e che genera la nostra risposta di amore a Lui. La sofferenza, di per sé, non salva nessuno.

Quando l’amore ci raggiunge, però, anche la sofferenza viene investita da qualcosa che la cambia. A questa condizione, e solo a questa condizione, si apre per il cristiano la possibilità di una lettura positiva della sofferenza.

Intanto nella forza dell’amore posso accoglierla e farle spazio, perché so che l’orizzonte di vita che mi si è dischiuso è ben più radicalmente positivo di ciò che sto vivendo nella sofferenza. Siamo destinati alla vita e alla gioia, non a soffrire. Quindi posso decidere di caricarmela sulle spalle e attraversarla consapevolmente, smettendo di accanirmi contro di essa per cercare di cambiare ciò che, per ora non si può cambiare.

A questo punto posso, allora, provare a cogliere la verità che la sofferenza svela di me stesso. A cosa il mio cuore si attacca? A cosa non sono disposto a rinunciare? Cosa può rendermi ancora più libero dai vincoli del peccato? Qual è davvero la mia effettiva scala di valori con cui giudico la mia vita? Quali paure ancora devo attraversare? Dal momento che la sofferenza c’è, ed è investita dall’amore, possiamo provare ad imparare qualcosa, ma non può essere considerato cristiano l’atteggiamento di chi cerca per sé, o infligge ad altri una sofferenza, al fine di educare.

Per ultimo, poi, è possibile anche il livello più elevato di atteggiamento cristiano di fronte alla sofferenza: offrire anche essa, dentro alla consegna complessiva della mia vita a Dio, come atto di amore restitutivo a Lui, di tutto ciò che sono. E questo è un atto che si sostanzia nel lasciare andare la sofferenza, un atto di apertura del nostro cuore con il quale lasciamo che essa faccia il suo percorso, si muova spontaneamente verso il Signore della vita.

Nel giubileo, il ruolo vero della sofferenza si sostanzia solo di questo cammino appena descritto, e mai come strumento sacrificale per ottenere da Dio l’indulgenza. Possiamo vivere questo periodo come occasione speciale per accettare, significare e offrire la sofferenza che c’è già nella vita, senza andare a cercarne altra.