Come abbiamo fatto a colorare di fatica e sacrificio, la costruzione mentale che da significato al giubileo?

di Gilberto Borghi
1 Marzo 2025
Per gentile concessione di
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Nel vocabolario classico del giubileo la parola “gioia” è, praticamente, quasi inesistente. Eppure, nell’origine ebraica del giubileo, l’anno sabbatico, la gioia era il tono di fondo che dominava la scena dei testi e delle “azioni” che lo celebravano.

Era una gioia che nasceva essenzialmente perché le sofferenze, le fatiche, i dolori della vita venivano interrotti: si parlava di liberazione degli schiavi (Es 21, 2-6), cancellazione dei debiti (Dt 15, 1-11), riposo condiviso (Dt 16, 13-15), rinnovata fiducia nel Dio che provvede alle necessità umane (Lv 25, 1-7). Lo scampato pericolo che la vita fosse essenzialmente sofferenza e finisse nella morte, generava nell’animo degli ebrei la sensazione liberatoria di leggerezza ed energia vitale che caratterizza sempre la gioia.

Ma con Cristo questa emozione prende un altro colore, ben più potente. Non solo viene confermata l’esperienza liberatoria degli ebrei (Lc 4, 16-21), ma si annuncia e si realizza la possibilità della pienezza della vita. A partire dalla sua nascita (“vi annunzio una grande gioia” – Lc, 2.10), attraverso l’esperienza della conversione (“vi sarà più gioia in cielo per un solo peccatore che si converte” – Lc 15,7), fino all’imprevedibile e insperato annuncio della resurrezione (“abbandonato in fretta il sepolcro con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l’annunzio ai suoi discepoli” – Mt 28, 8), l’uomo viene proiettato nella possibilità di dare pienezza ai propri desideri, in una misura davvero impensabile.

Perché proprio la pienezza di vita è l’obiettivo dell’amore di Cristo per noi: “io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10); “io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete.” (Gv 6,35); “in Cristo abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi avete tutto pienamente in lui” (Col 2,9).

Per questo, ad Emmaus, i due discepoli incontrando Cristo, fanno della gioia l’elemento distintivo della fede: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino?” (Mt 24,32). Il carceriere di Paolo che accede alla fede “si rallegrava con tutta la sua famiglia per aver creduto in Dio” (At 16,34). L’intera comunità a cui Pietro scrive è ricolma di gioia, perché ama Cristo, senza averlo visto: “e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa” (1Pt 1,8).

E pure nella sofferenza, questo tono di fondo emotivo non si perde: “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate” (Mt 5, 11-12); “Considerate perfetta gioia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove” (Gc 1,2).

Fino a Paolo che considera la gioia uno dei primi frutti dell’azione dello Spirito Santo in noi: “Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace” (Gl 5,22); “Il regno di Dio non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” (Rm 14.17).

Come abbiamo fatto, allora, a colorare di fatica, sacrificio, a volte anche di sofferenza, la costruzione mentale che da significato al giubileo? Chi ha sperimentato davvero il giubileo per ciò che è, racconta, invece, proprio un senso di gioia, di leggerezza e di pienezza di vita possibile, come cifra emotiva della propria esperienza. Perciò dovremmo davvero inserire questa parola nel vocabolario del giubileo e farne la cartina di tornasole della verità della nostra esperienza giubilare.