Sarebbe ora di smettere di utilizzare questa parola, nel designare il contenuto dell’indulgenza

di Gilberto Borghi
22 Febbraio 2025
Per gentile concessione di
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Merito
“Acquistare meriti” è una espressione che, nell’immaginario di molti cattolici, si collega con il concetto di indulgenza. L’idea sarebbe che l’ottenimento dell’indulgenza si realizza nel poter disporre, per sé o per altri, di parte del contenuto del “tesoro della Chiesa”, cioè dei meriti infiniti che Cristo ci ha “acquistato” (unitamente a quelli di Maria e dei santi). Le azioni previste dalle regole del giubileo e le disposizioni interiori necessarie, consentirebbero al fedele di attingere a questi meriti, cioè di “acquistarli”.
Come abbiamo già visto, questo modo di concepire l’indulgenza non è in linea con l’idea evangelica della salvezza offerta da Dio gratis e accolta nella fede da noi. Ma la parola “merito”, ben più di altre, tradisce molto l’impostazione giuridico economica del rapporto con Dio. Perciò, mentre altre parole possono essere rilette dentro ad una cornice di amore gratuito, questa difficilmente può subite questa ritraduzione.
Allora non è casuale che, sia la “Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025”, sia il testo sulle “Norme sulla Concessione dell’Indulgenza”, non usino mai il termine merito e il verbo meritare.
D’altra parte il “Catechismo della Chiesa Cattolica” dedica sei numeri al termine “merito” (n. 2006-2011). Ma leggendoli si percepisce nettamente il tentativo del testo di rendere il termine inutilizzabile dentro ad una prospettiva giuridico economica del rapporto con Dio. “Nei confronti di Dio, in senso strettamente giuridico, non c’è merito da parte dell’uomo. Tra lui e noi la disuguaglianza è smisurata, poiché noi abbiamo ricevuto tutto da lui, nostro Creatore” (n. 2007).
E continua: “Nessuno può meritare la grazia prima, quella che sta all’origine della conversione, del perdono e della giustificazione. Sotto la mozione dello Spirito Santo e della carità, possiamo in seguito meritare per noi stessi e per gli altri le grazie utili per la nostra santificazione” (2010). Ma è “la carità di Cristo in noi la sorgente di tutti i nostri meriti davanti a Dio (…). I santi hanno sempre avuto una viva consapevolezza che i loro meriti erano pura grazia” (n. 2011).
Perciò sarebbe davvero giunto il momento di smettere di utilizzare questa parola, nel designare il contenuto dell’indulgenza. Nella relazione di amore libero e gratuito di Dio verso l’uomo, noi possiamo soltanto rispondere altrettanto liberamente e gratuitamente a Dio. Non ci sono né obblighi, né doveri, né da parte di Dio, né da parte dell’uomo.
Questo disabilita fin dal principio l’idea che in questo tipo di relazione ci possano essere dei “meriti”. L’unico merito che l’uomo ha è che “Dio ha liberamente disposto di associare l’uomo all’opera della sua grazia” (n. 2008). Perciò possiamo solo rispondere al suo amore dicendo: “Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome da gloria, per la tua fedeltà, per la tua grazia” (Sl 114, 1).
Lo spazio della nostra libera scelta, con cui rispondiamo a Dio, è riempito solo dal mantenimento del nostro atto di fiducia a Dio. Tutti gli sforzi che la nostra volontà può fare, in ordine alla salvezza, sono solo quelli di mantenere salda la nostra fede nel suo amore per noi. Paolo, al termine della sua vita lo dice chiaramente. La battaglia che ha compiuto è consistita tutta e solo nel poter dire “ho conservato la fede” (2 Tm 4,7), a cui fa eco il Sl 115: “Ho creduto anche quando dicevo: «sono troppo infelice».” (v. 10)
Il resto, le opere buone sono frutto solo dell’amore di Dio in noi, come il Catechismo ricorda bene: “La preparazione dell’uomo ad accogliere la grazia è già un’opera della grazia. Questa è necessaria per suscitare e sostenere la nostra collaborazione alla giustificazione mediante la fede. Dio porta a compimento in noi quello che ha incominciato” (2001).