Dobbiamo recuperare un senso diverso della colpa, nella direzione indicata da S. Agostino.

di Gilberto Borghi
1 Febbraio 2025
Per gentile concessione di
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Nella teologia morale classica, la colpa è caratterizzata da due elementi essenziali: ciò che la costituisce e il grado della sua gravità. Sul primo elemento essa si compone di tre dati. Primo, la responsabilità individuale sull’azione commessa, che emerge rispondendo alla domanda: “chi ha fatto questo?”. In secondo luogo l’intenzione che ha prodotto quell’azione, che si scopre rispondendo alla domanda: “cosa volevi ottenere facendo questo?”. In terzo luogo il danno arrecato, che si ritrova guardando gli effetti dell’azione, introdotto dalla domanda retorica: “vedi cosa hai fatto?”.

Sul secondo elemento, la suddivisione tra colpa grave e colpa lieve (peccato mortale e peccato veniale) si gioca, anche qui, su tre fattori: percezione piena di ciò che si fa (consapevolezza), effettiva libertà di fare ciò che si fa (consenso) e la cosiddetta “materia grave”, cioè fare qualcosa che attiene a quelle aree dell’esistenza umana in cui si giocano i valori più importanti. Tradizionalmente la materia grave è stata individuata nelle aree coperte dai dieci comandamenti.

Col procedere della storia del cristianesimo, l’impostazione giuridico oggettivista della morale, ha finito per produrre, nella maggioranza dei cattolici, una percezione etica in cui la colpa è diventata sinonimo di responsabilità sul danno, a prescindere dalla presenza o meno dell’intenzione, mettendo in ombra le condizioni personali soggettive dell’atto. E la distinzione peccato mortale/veniale è stata tradotta spesso solo rispetto alla materia grave. Anche perché, come ben sappiamo, è quasi impossibile valutare oggettivamente il grado di consapevolezza e l’effettiva libertà di azione della persona

L’effetto combinato di ciò è stato l’espansione del senso di colpa nei singoli fedeli, anche su quelle azioni in cui la consapevolezza e il consenso non sono così ampi, ma che attengono alla materia grave. Ciò ha fatto sì che il senso di colpa abbia quasi sostituito il senso di peccato, quando invece sono molto diversi tra loro.

Il senso di colpa è uno stato d’animo più o meno pesante, in cui la persona si sente oppressa dal male commesso e avverte la difficoltà o l’impotenza ad uscirne, quasi fosse sotto sequestro, perché quel male e i suoi effetti non si possono più cancellare, soprattutto quando l’intenzione personale non era così grave come il danno arrecato. Questo blocca la persona nel suo possibile sviluppo etico e spirituale, perché è un “autogiudizio” negativo, che nasce quando la coscienza che si relaziona solo a sé stessa e non con Dio.

Il senso di peccato, invece, è la percezione della “mancanza” del bene possibile non realizzato più che del male commesso. Questo perché lo sguardo chiuso del peccatore che, nel senso di colpa guarda sé stesso, qui si lascia incrociare ancora dallo sguardo di Dio che lo viene a cercare per perdonarlo, benché lo senta lontano e irraggiungibile. Nel senso di peccato, perciò, il dolore del male commesso, pur se percepito, non sequestra emotivamente la persona, perché egli non si avverte da solo di fronte al suo peccato.

Questo mostra che l’impostazione giuridica oggettivista della morale non aiuta, di fatto, la liberazione dal peccato e lo sviluppo spirituale. Dobbiamo recuperare un senso diverso della colpa, nella direzione indicata da S. Agostino: “Nessuno fa il male se non inseguendo qualcosa che considera un bene” (De natura Boni – 35), in cui la colpevolezza non scompare, ma diventa l’inseguimento di qualcosa di buono, però in modo scorretto, non adeguato all’ordine dell’amore. La colpa perciò resta dentro la dinamica dell’amore, pur se in modo malato, e ciò rende possibile il recupero del senso di peccato.

Il giubileo è una occasione formidabile per operare questa conversione, per non rinchiuderci nell’impotenza e nella disperazione del senso di colpa, permettendo così a Dio di continuare a raggiungerci nel senso di peccato.