Mese di Marzo:
Per meditare sulla figura di San Giuseppe,
a partire dalla storia del patriarca Giuseppe …

Giuseppe, guida dei fratelli


Convito di Giuseppe con i fratelli, 1550-1553. Disegno e cartone di Agnolo

Gli ultimi 14 capitoli del libro della Genesi raccontano la storia di Giuseppe. In un certo senso egli non è uno dei patriarchi, ma piuttosto il figlio ideale e perfetto dei patriarchi. La storia di Giuseppe, la sua vita travagliata e insieme gloriosa, i suoi atteggiamenti, le sue scelte, descrivono la santità che Dio propone al suo popolo Israele e, in modo ancora più preciso, è anticipo e profezia della vocazione di Gesù di Nazareth, quale Messia e Salvatore di tutta l’umanità.

Giuseppe è un uomo di fede, come lo sono stati i suoi padri Abramo, Isacco e Giacobbe. La sua fede viene espressa come “timore di Dio”: “Io temo Dio” (Gen 42,18). Eppure, la storia di Giuseppe si distingue per la sua “laicità” e “secolarità”. Il timore di Dio che accompagna l’intera sua esistenza non è motivato da un intervento o manifestazione particolare da parte di Dio. Lo “straordinario”, il “miracolo” della storia di Giuseppe sta nella sua “ordinarietà”.

Dio parla spesso ad Abramo, un poco meno ad Isacco e a Giacobbe, e non parla mai a Giuseppe; ma nella storia di lui Dio è presente sempre, non come uno spettatore inattivo, ma come protagonista. Lo afferma lo stesso Giuseppe, alla fine del libro, rivolto ai suoi fratelli: “Non temete, sono io forse al posto di Dio? Se voi avete pensato del male verso di me, Dio ha pensato di farlo servire ad un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso. Dunque non temete, io provvederò al sostentamento per voi e per i vostri bambini” (Gen 50, 19-21).

Giuseppe è una figura poliedrica e complessa. La sua storia si snoda attraverso una molteplicità di situazioni e di avventure che esigono di essere decifrate. Ancora più importante è individuare una chiave di lettura teologico-spirituale che lega insieme la complessità del personaggio e le vicende che lo riguardano. In quest’ottica, la storia di Giuseppe può essere letta come l’intrecciarsi di due elementi: la discesa e la risalita che configurano un grande disegno, un disegno pasquale.

Discesa e risalita sono descritte in stretta connessione tra loro e prefigurano un elemento essenziale della storia della salvezza, così come sarà sperimentata dal popolo di Dio e, nella pienezza dei tempi, dal Messia. Per la Bibbia, quindi, Giuseppe è colui che discende e risale e nella sua persona prefigura il destino di Israele e di Gesù di Nazaret, Messia e Salvatore del mondo.

La storia della salvezza è ancora nella sua fase iniziale, siamo al tempo delle promesse. Ma proprio in questo tempo in cui sono date le promesse e i compimenti sono solo attesi, già è data una premonizione dello sviluppo completo del viaggio che il popolo di Dio, Israele, compirà e che troverà il suo compimento con il Messia. La storia di Giuseppe, quindi, è promessa, anticipazione e sguardo profetico della discesa e della risalita nelle quali l’intero progetto di salvezza di Dio si esprimerà e si compirà.

La discesa

La discesa si svolge nei cc. 37-42 e si articola in quattro fasi: la persecuzione, la schiavitù, la prigionia, l’autorinnegamento.

a) La persecuzione.

Giuseppe viene presentato come una persona molto dotata. Ha qualità fuori dal comune. La sua acutezza d’intelletto e la grande sensibilità lo qualificano come una personalità geniale. Ma è anche molto presuntuoso. I suoi difetti sono macroscopici. Sembra che egli faccia di tutto per stimolare l’antipatia dei fratelli. Giacobbe, suo padre, ha un debole per lui, lo ama più di tutti gli altri figli e gli ha confezionato una tunica dalle lunghe maniche. Proprio per questo i fratelli lo detestano.

Giuseppe è un sognatore. Oltre alla predilezione da parte del padre, ci sono i sogni che Giuseppe racconta sia al padre che ai fratelli con una certa sfrontatezza. In questi sogni egli ha sempre un ruolo dominante sui fratelli e anche sul padre, come se tutti dovranno inchinarsi davanti a lui. Ma i sogni rivelano in lui la presenza di una sapienza singolare che lo rende capace di guardare oltre il velo delle situazioni umane. Questa è una qualità tipica dei profeti.

Nel suo sognare Giuseppe è dotato di acutezza profetica che rivela il suo carisma particolare, dono proveniente da Dio. Proprio questo dono carismatico gli è contestato nella famiglia, anche perché Giuseppe stesso non si mostra capace di custodire quel dono nel modo giusto ed equilibrato. Il risentimento dei fratelli non si esprime semplicemente nei confronti di un giovanotto saputello, che sta alzando la testa, tentando di assumere un ruolo di spicco, benché sia il più piccolo; il risentimento dei fratelli riguarda proprio il carisma di Giuseppe, il suo dono peculiare.

La discesa inizia nel momento in cui il carisma affidatogli da Dio è rifiutato dai suoi. Il dramma scoppia quando Giuseppe è buttato nella cisterna dai fratelli. Con questo gesto, i fratelli intendono  liberarsi di lui e prendersi gioco e calpestare il dono che Dio gli ha fatto. Giuseppe è un uomo solo, rifiutato, buttato via e venduto. E’ vero che prima Ruben e poi Giuda intervengono per contenere l’ira degli altri fratelli. Ruben vorrebbe far passare un po’ di tempo e poi liberare il fratello; Giuda, invece, suggerisce di venderlo. In effetti Giuseppe viene venduto.

Quando, poi, devono comunicare la notizia al padre, i fratelli si trovano tutti concordi nell’ingannarlo presentandogli  la tunica di Giuseppe insanguinata, quale segno di un incidente. “Poi mandarono al padre la tunica dalle lunghe maniche e gliela fecero pervenire con queste parole: L’abbiamo trovata; verifica se è o no la tunica di tuo figlio. Egli la riconobbe e disse: E’ la tunica di mio figlio! Una bestia feroce l’ha divorato. Giuseppe è stato sbranato. Giacobbe si stracciò le vesti, si pose un  cilicio intorno ai fianchi e fece lutto sul figlio per molti giorni” (Gen 37,32-34).

Giuseppe non è morto, ma l’effetto che i fratelli producono nell’animo del padre è devastante: Giacobbe, infatti, considera morto il figlio. I fratelli non hanno ucciso il fratello, ma è come se avessero ucciso Giacobbe. “Tutti i suoi figli e le sue figlie vennero a consolarlo ma egli non volle essere consolato dicendo: “No, io voglio scendere in lutto dal figlio mio nella tomba. E il padre suo lo pianse” (Gen 37,35).

Il pianto di Giacobbe rimarrà sullo sfondo di tutta la vicenda successiva. I fratelli hanno rifiutato Giuseppe e con lui hanno rifiutato anche il padre. Hanno perso il fratello e hanno perso il  padre. La persecuzione ha questo effetto devastante: manda in frantumi tutti i rapporti, anche i più cari. Ormai i fratelli sono estranei l’uno nei confronti dell’altro. E’ come se non fossero più figli dello stesso padre. Tutto è sfasciato.

La storia di Giuseppe è anche la storia di una famiglia devastata dalla divisione e dal fallimento. La discesa è di Giuseppe, ma è anche  la progressiva distruzione di una famiglia perché sono rifiutati la Parola di Dio, la benedizione di Dio  e il suo dono. Questo rifiuto non è mai innocuo: là dove un dono di Dio è rifiutato, lo sfascio è alle porte! Giuseppe discende, e questa è la prima fase della sua discesa: ha sperimentato la gelosia dei fratelli, ha subito l’invidia, è stato gettato nella cisterna e poi ripudiato come fratello e venduto. E’ un uomo solo, un uomo sradicato.

b) La schiavitù.

Il rifiuto subito dai fratelli ha tolto a Giuseppe la possibilità di conoscersi e di discernere il suo carisma. I fratelli si sono sottratti al compito di interlocutori nel discernimento, ed egli non sa più chi è veramente. Adesso è soltanto uno schiavo in Egitto. L’Egitto è la terra della schiavitù e Giuseppe è schiavo. La sua condizione di schiavo, nel racconto biblico è sottolineata dai frequenti richiami al suo essere “ebreo”. Per gli egiziani l’ebreo è un uomo che non conta, non vale, non ha diritti.

Giuseppe, l’ebreo, è appunto schiavo nella casa di Potifar, dove per anni fa l’inserviente. Ma piano piano, anche nella nuova condizione di schiavo, Giuseppe dimostra le sue qualità e il padrone si affeziona a lui e lo fa maggiordomo della casa. Giuseppe risale, ma questa risalita è solo apparente. Ne è prova l’episodio con la moglie di Potifar che si innamora di lui e gli propone di intrecciare una relazione; ma Giuseppe non cede, perché è rispettoso verso il padrone.

La moglie allora si vendica: tenendo  in pugno la sua veste, lo accusa davanti al marito: “Quel servo ebreo, che tu ci hai condotto in casa, mi si è accostato per divertirsi con me. Ma appena io ho  gridato e ho chiamato, ha abbandonato la veste presso di me ed è fuggito fuori. Il padrone, all’udire le parole che sua moglie gli ripeteva: “Proprio così mi ha fatto il tuo servo”, si accese d’ira (Gen 39,17-19).

Giuseppe non conta nulla. Basta una parola menzognera della donna, perché l’ira del padrone diventi un giudizio inappellabile. Giuseppe perde ancora una volta la sua veste. Aveva già perduta la tunica, adesso perde la veste. E’ sempre più nudo e sprofonda sempre più in basso, dalla cisterna all’Egitto, la terra degli schiavi, la terra nella quale si è esposti alle ingiustizie e alle sopraffazioni più arbitrarie.

c) La prigionia.

“Il padrone di Giuseppe lo prese e lo mise in prigione, dove erano detenuti i carcerati del re. Così egli rimase là in prigione” (Gen 39,20). In prigione Giuseppe è un uomo svergognato. Nella casa di Potifar aveva dato sfoggio delle sue qualità, era riuscito a fare carriera, ma tutto gli si era voltato contro, ingiustamente. Egli sa di essere innocente, ma è costretto a condividere la sorte dei colpevoli. Si trova dalle parte  dei disgraziati e dei perduti. E’ un uomo che condivide la vergogna. Ma anche in prigione, dopo un certo periodo, Giuseppe si ambienta e riesce ad attirare su di sé la simpatia del capo carceriere.

Si verifica a questo punto l’episodio dell’interpretazione di un sogno. Due ufficiali della corte del faraone vengono imprigionati per una congiura al palazzo. I due sognano e Giuseppe interpreta i loro sogni. Dice ad uno dei ministri che il suo partito sarà sconfitto, mentre all’altro annuncia la prossima vittoria politica e la sua riabilitazione. Così avviene: uno dei due è eliminato e l’altro viene richiamato a corte. Ma il povero Giuseppe rimane in prigione, perché dimenticato: “Il capo dei coppieri non si ricordò di Giuseppe e lo dimenticò”, dice il testo (Gen 40,23).

d) L’autorinnegamento.

Giuseppe è tirato fuori dalla prigione in occasione del sogno del faraone. Il sogno delle sette vacche grasse inghiottite da altre sette vacche magre. Viene condotto a corte e qui dà un’ottima prova di sé. Interpreta il sogno del faraone e questi gli dà credito e potere incaricandolo di gestire l’amministrazione. Gli da un nome egiziano: Safnat-Panèach, e una moglie Asenat, figlia del sacerdote Potifera. Giuseppe fa carriera fino a diventare Gran Visir cioè Primo Ministro, secondo solo al faraone. Dunque si è alzato? No! Il suo successo è solo un’apparenza. In realtà, il suo essersi risollevato nasconde una discesa ancora più abissale.

“Intanto nacquero a Giuseppe due figli, prima che venisse l’anno della carestia; glieli partorì Asenat, figlia di Potifera, sacerdote di On. Giuseppe chiamò il primogenito Manasse, “perché –disse- Dio mi ha fatto dimenticare ogni affanno e tutta la casa di mio padre” E il secondo lo chiamò Efraim, “perché –disse – Dio mi ha reso fecondo nel paese della mia afflizione” (Gen 41,50-52). I nomi dei figli dichiarano apertamente che Giuseppe ha dimenticato la casa di suo padre e ha rinnegato il suo passato di afflizione. Praticamente Giuseppe rifiuta il padre e i fratelli. Più in basso di così non poteva scendere: ha dimenticato le sue radici e ne è fiero e soddisfatto.

Giuseppe, così, diventa un egiziano. Non è più una vittima, ma un protagonista: l’Egitto  diventa la sua terra e la mentalità del potere e la visione egiziana delle cose, gli entra nella mente e nel cuore. Rinnegando le sue radici, Giuseppe rinnega se stesso. E’ un disadattato, ma non lo sa. Mentre procede trionfale sulla strada dei successi, si mette alle spalle tutta la sua storia ripudiandola con un colpo si spugna.

Potremmo dire che Giuseppe non è stato soltanto venduto, ma lui stesso si è venduto. Non è stato soltanto gettato, ma egli stesso si tuffa, quasi preso dalla smania di perdersi e di consumarsi. Tutto questo avviene mentre le apparenze esteriori sono brillanti e affascinanti, e il brivido del successo lo inebria. Intanto la carestia imperversa in Egitto e nel paese di Canaan.

“Giacobbe seppe che in Egitto c’era il grano, perciò disse ai figli… Ho sentito dire che vi è grano in Egitto. Andate laggiù e compratene per noi, perché possiamo conservarci in vita e non morire. Allora i dieci fratelli di Giuseppe scesero per acquistare il frumento in Egitto. Ma quanto a Beniamino, fratello di Giuseppe, Giacobbe non lo mandò con i fratelli, perché diceva: “Non gli accada qualche disgrazia!” Arrivarono dunque i figli  d’Israele per acquistare il grano, in mezzo ad altri che pure erano venuti, perché nel paese di Canaan c’era la carestia.

Ora Giuseppe aveva autorità sul paese e vendeva il grano a tutto il popolo del paese. Perciò i fratelli di Giuseppe vennero da lui e gli si prostrarono davanti con la faccia a terra. Giuseppe vide i suoi fratelli e li  riconobbe, ma fece l’estraneo verso di loro, parlò duramente e disse loro: “Di dove siete venuti? Risposero: “Dal paese di Canaan per comprare viveri”. Giuseppe riconobbe dunque i fratelli, mentre essi non lo riconobbero. Si ricordò allora Giuseppe dei sogni che aveva avuti a loro riguardo e disse loro: “Voi siete  spie! Voi siete venuti a vedere i punti scoperti del paese” (Gen 42,1-9)

Giuseppe si comporta da estraneo verso i fratelli. Il termine “estraneo”, in un certo senso,  ricapitola tutto quello che è successo fin qui. Nel momento in cui pensa di aver raggiunto l’apice della gloria, incontra i fratelli e questo incontro gli fa prendere consapevolezza di essere, in realtà, uno straniero. Riconoscendo i fratelli, si rende conto di essere straniero in Egitto, ed estraneo a se stesso e alla sua vera identità. Qui Giuseppe raggiunge realmente il fondo della sua discesa: i fratelli non lo conoscono ed egli stesso non si conosce, non sa chi è realmente. Ma dal  fondo di questa condizione, ha inizio per Giuseppe la risalita.

La risalita

Perché Giuseppe non si dichiara immediatamente ai fratelli? Proprio perché qui inizia il cammino della  sua risalita ed egli comprende che non può risalire da solo. Giuseppe non può risalire facendo pesare sui fratelli il suo prestigio, tutto il potere che ha acquistato. Un tale comportamento lo farebbe slittare ancora più in basso.

Ma non c’è un “più in basso” rispetto alla condizione in cui egli si trova. Incontrando i fratelli, si rende conto di essere diventato un uomo potente ma, soprattutto, di aver perso le sue radici profonde; si rende conto di essere uno straniero a loro, ma prima ancora a se stesso. Così diventa consapevole che non risalirà dal fondo dell’abisso se non in compagnia dei suoi fratelli.

Da questo momento egli mette in atto una serie di interventi di carattere pedagogico verso i fratelli. E’ come se Giuseppe, prima di farsi riconoscere, ha  bisogno di comunicare loro qualche cosa di importante che riguarda il grande valore dei legami di fraternità che li accomuna tutti. Prima di rivelare la sua identità, ha bisogno di verificare quali sentimenti, quale relazione profonda lega lui ai fratelli e i fratelli a lui.

“Gli risposero: “No, signore mio, i tuoi servi sono venuti per acquistare viveri. Noi siamo tutti figli di un sol uomo. Noi siamo sinceri. I tuoi servi non sono spie|. Ma egli disse loro: “No, voi siete venuti a vedere i punti scoperti del paese!”  Allora essi dissero: “Dodici sono i tuoi servi, siamo fratelli, figli di uno stesso uomo, nel paese di Canaan; ecco il più giovane è ora presso nostro padre e uno non c’è più.

Giuseppe disse loro: “Le cose stanno come vi ho detto: voi siete spie. In questo modo sarete messi alla prova: per la vita del faraone, non uscirete da qui  se non quando vi avrà raggiunto il vostro fratello più giovane. Mandate uno di voi a prendere il vostro fratello; voi  rimarrete prigionieri. Siano così messe alla prova le vostre parole, per sapere se la verità è dalla vostra parte. Se no, per la vita del faraone, voi siete spie!”. E li tenne in carcere per tre giorni”. ( Gen 42,10-17).

I fratelli incalzati da Giuseppe si difendono. Sono trascorsi tanti anni dal dramma di Sichem e nel loro cuore riaffiora il senso di colpa per quanto avevano fatto al fratello. E’ gente appesantita e affaticata, è gente dolente quella che Giuseppe si trova davanti. Alla fine, Giuseppe trattiene Simeone, gli altri prendono il grano e tornano da Giacobbe. Quando aprono i sacchi trovano il denaro con cui avevano pagato, e vengono presi da un grande timore.

E il padre Giacobbe disse loro: “Voi mi avete privato dei figli! Giuseppe non c’è più, Simeone non c’è più e Beniamino me lo volete prendere. Tutto ricade su di me!” (Gen 42,36). Giuseppe ha imposto ai fratelli di ritornare con Beniamino quale prova che non sono dei mentitori. Ma il padre rifiuta, perché ha paura. Interviene un fatto nuovo, Ruben si fa avanti e rassicura il padre: “Allora Ruben disse al padre: “Farai morire i miei due figli, se non te lo ricondurrò. Affidalo a me e io te lo restituirò”. Ma egli rispose: “Il mio figlio non verrà laggiù con voi, perché suo fratello è morto ed egli è  rimasto solo. Se gli capitasse una disgrazia durante il viaggio che volete fare, voi fareste scendere con dolore  la mia canizie negli inferi” (Gen 42,37-38).

La carestia continua a infierire e arriva il momento in cui la provvista di grano si esaurisce, per cui bisogna prendere dei provvedimenti, bisogna ritornare in Egitto. Giacobbe non può più opporsi. “Giuda disse a Israele suo padre: “Lascia venire il giovane con me; partiremo subito per vivere e non morire, noi, tu e i nostri bambini. Io mi rendo garante di lui: dalle mie mani lo reclamerai. Se non te lo ricondurrò, se non te lo riporterò, io sarò colpevole contro di te per tutta la vita. Se non avessimo indugiato, ora saremmo già di ritorno per la seconda volta” (Gen 43,8-10).

Dopo Ruben anche Giuda si fa avanti come garante: i due fratelli si muovono a garantire per il più piccolo. In questa scena appaiono come rinsaldati i legami di responsabilità e di solidarietà tra i fratelli. E’ la prima volta che questo accade nella famiglia di Giacobbe. I figli di Giacobbe ritornano in Egitto e portano con loro il fratello più giovane, Beniamino. Giuseppe li accoglie in casa sua e li ospita alla sua tavola. E’ un momento di grande emozione per lui: vedendo Beniamino, è scosso da un fremito indicibile e da un sentimento intensissimo; qualcosa di totalmente nuovo riesplode nel suo cuore: un sentimento di tenerezza fraterna che pensava aver dimenticata per sempre.

“Quando Giuseppe arrivò a casa, gli presentarono il dono che avevano con sé, e si prostrarono davanti a lui con la faccia a terra. Egli domandò loro come stavano e disse: “Sta bene il vostro vecchio padre, di cui mi avete parlato? Vive ancora?” Risposero: “Il tuo servo, nostro padre, sta bene, è ancora vivo”. E si inginocchiarono prostrandosi.

Egli alzò gli occhi e guardò Beniamino, suo fratello, il figlio di sua madre, e disse: “E’ questo il vostro fratello più giovane, di cui mi avete parlato?” e aggiunse: “Dio ti conceda grazia, figlio mio!” Giuseppe uscì in fretta, perché era commosso nell’intimo alla presenza di suo fratello e sentiva il bisogno di piangere;  entrò nella sua camera e pianse. Poi si lavò la faccia, uscì e, facendosi forza, ordinò: “Servite il pasto”. Fu servito per lui a parte, per loro a parte e per i commensali Egiziani a parte, perché gli Egiziani non possono  prendere cibo con gli ebrei: ciò sarebbe per loro un abominio.

Presero posto davanti a lui dal primogenito al  più giovane, ciascuno in ordine di età ed essi si guardavano con meraviglia l’un l’altro. Egli fece portare loro  delle porzioni prese dalla propria mensa, ma la porzione di Beniamino era cinque volte più abbondante di  quella di tutti gli altri. E con lui bevvero fino all’allegria” (Gen 43,26-34).

Quando fanno ritorno verso casa, Giuseppe fa in modo che nel sacco di Beniamino sia chiusa la sua coppa. Poi li fa inseguire  e viene ritrovata la coppa, per cui sono riportati indietro nella costernazione generale. Giuseppe sentenzia che Beniamino resterà in Egitto: “L’uomo trovato in possesso della coppa, lui sarà mio schiavo; quanto a voi, tornate in pace da vostro padre” (Gen 44,17). Ecco il punto: che cosa faranno i fratelli, in una situazione così difficile? Di fronte ad una disgrazia così grande, cosa faranno per Beniamino? Soprattutto, che cosa faranno per il padre?

In tutta la vicenda Giuseppe svolge un ruolo pedagogico efficacissimo: si tratta di verificare se i fratelli si comportano realmente da fratelli. Ed è appunto quello che avviene: di fronte alla minaccia di dover lasciare Beniamino in Egitto, tutti gli altri fratelli non solo sono spaventati, ma sono pronti a fare qualsiasi cosa. Giuda fa un bel discorso, in cui si offre al posto di Beniamino, proprio per non far morire di dolore il padre Giacobbe. Esclama: “Lascia che il tuo servo rimanga invece del giovinetto come schiavo del mio signore e il giovinetto torni lassù con i suoi fratelli! Perché come potrei tornare da mio padre senza avere con me il giovinetto? Che io non veda  il male che colpirebbe mio padre!”

Allora Giuseppe non poté più contenersi dinanzi ai circostanti e gridò: “Fate uscire tutti dalla mia presenza!” Così non restò nessuno presso di lui, mentre Giuseppe si faceva conoscere ai suoi fratelli. Ma diede in un grido di pianto e tutti gli Egiziani lo sentirono e la cosa fu risaputa nella casa del faraone. Giuseppe disse ai fratelli: “Io sono Giuseppe! Vive ancora mio padre? (Gen 44,33-45). Giuseppe si fa riconoscere solo adesso, perché solo adesso può essere riconosciuto come fratello.

Se si faceva conoscere nelle vesti di Gran Visir del Faraone, come uomo di successo e rivestito di potere, i fratelli lo avrebbero temuto senza sentirlo loro “fratello”. Ma anche lui riconosce i suoi fratelli, perché nell’incontro con loro si è reso conto che dal momento in cui aveva dimenticato le sue “radici” egli era solo uno “straniero” in questo mondo. Questo è il momento decisivo della risalita, perché Giuseppe non risale senza i fratelli. Giuseppe risale nel momento stesso in cui è riconosciuto nella sua qualità di fratello e, a sua volta, li riconosce come fratelli suoi.

“Ma i suoi fratelli non potevano rispondergli, perché atterriti dalla sua presenza. Allora i Giuseppe disse ai  fratelli: “Avvicinatevi a me!” Si avvicinarono e disse loro: “Io sono Giuseppe, il vostro fratello, che voi avete  venduto per l’Egitto. Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi  ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita e per salvare in voi la vita di molta gente.

Dunque non  siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio ed egli mi ha stabilito padre per il faraone, signore su tutta la sua casa e  governatore di tutto il paese d’Egitto. Affrettatevi a salire da mio padre e ditegli: Dice il suo figlio Giuseppe:  Dio mi ha stabilito signore di tutto l’Egitto: Vieni quaggiù presso di me, non tardare. Abiterai nel paese di Gosen e starai vicino a me tu, i tuoi figli e i figli dei tuoi figli, i tuoi greggi e i tuoi armenti e tutti i tuoi averi.  Là io ti darò il sostentamento, poiché la carestia durerà ancora cinque anni, e non cadrai nell’indigenza tu, la  tua famiglia e quanto possiedi.

Ed ecco, i vostri occhi lo vedono e lo vedono gli occhi di mio fratello Beniamino: è la mia bocca che vi parla! Riferite a mio padre tutta la gloria che io ho in Egitto e quanto avete visto: affrettatevi a condurre quaggiù mio padre”. Allora egli si gettò al collo di Beniamino e pianse. Anche  Beniamino piangeva stretto al suo collo. Poi baciò tutti i fratelli e pianse stringendoli a sé. Dopo, i suoi fratelli  si misero a conversare con lui. (Gen 45,3-15).

Qui è la svolta di tutto: Giuseppe ha ritrovato i fratelli e i fratelli hanno ritrovato lui. Tutto quello che è avvenuto è stato disposto dalla sapiente opera di Dio, affinché i fratelli imparino a riconoscersi e a vivere da fratelli. Anche noi, nel cammino faticoso della vita, possiamo fare tante esperienze di discese, di smarrimenti, di fallimenti. La nostra risalita avviene sempre grazie alla vicinanza, alla solidarietà e al sostegno dei fratelli. Ma autore primo di questo itinerario di salvezza è sempre Lui, Dio!

Aurelio Antista
Intervento da ‘I mercoledì della Bibbia’

Per gentile concessione di
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