1. Consacrazione

“La consacrazione è la libera iniziativa con cui Dio va incontro all’uomo per santificarlo, unirlo a sé e affidargli un incarico a favore dei suoi simili. Non esiste consacrazione che non sia ordinata ad una missione; ed è esercitando che si vive e si attualizza la consacrazione”1.

Nella Regola di Vita sono usati due termini per esprimere il concetto di consacrazione, che sono presi dal linguaggio bilico teologico (RV 20).

Consacrare è l’azione di Dio che opera nella creatura, ne prende possesso e la trasforma, imponendole il suo Sigillo e costituendola sua esclusiva proprietà. Il termine «consacrazione» riferito alla persona umana che è consacrata da Do, designa una azione divina che unisce a Dio stesso mediante un vincolo tanto stretto che la persona rimane separata dal suo mondo e da ciò che possedeva, e riservata al Signore. Da qui deriva il duplice aspetto della consacrazione: l’uno negativo, di rottura; l’altro positivo, cioè la persona è riservata a Dio e per Dio, destinata in modo particole al suo culto e servizio.

Consacrarsi è l’atto con il quale la persona, attratta e abilitata dal dono di grazia che Dio le fa, si consegna totalmente a Lui, cioè si mette nelle mani di Dio e si lascia prendere da Lui in modo tale che dal quel momento non appartiene più a se stessa, ma si considera totalmente espropriata di se stesa e totale possesso di Dio, in piena e totale disposizione sua.

Per tanto, in ogni consacrazione sono presenti due aspetti convergenti o sinergetici: l’aspetto divino e quello personale.

L’aspetto divino indica l’iniziativa e l’azione di Dio, che prende possesso della persona e la fa particolarmente partecipe di «Qualcosa di se stesso», del suo Mistero, il cui effetto è la trasformazione della stessa persona, che risulta così «consacrata» o «sigillata».

L’aspetto umano consiste in quelle azioni che il consacrato pone liberamente e responsabilmente (= accettazione, gratitudine, libertà, capacità, consegna di sé, accettazione di una missione da compiere, ecc.), con la finalità di corrispondere alla consacrazione nelle opzioni concrete della vita.

È chiaro che questi due aspetti sono sinergetici, cioè, concorrono ambedue simultaneamente nel dinamismo della consacrazione.

Il primo aspetto è il più importante nello stesso tempo caratteristico della religione biblica, la quale non consiste in uno sforzo da parte dell’uomo per mettersi in contatto e raggiunger Dio; ma è Dio che gratuitamente, per puro amore, viene a cercare l’uomo e si offre a lui, per salvarlo, per consacrarlo, per santificarlo e farlo strumento del suo amore misericordioso. Per tanto, nel contesto cristiano la consacrazione indica, anzitutto ed essenzialmente, il movimento discendente che viene da Dio e va verso l’uomo, e non quello ascendente, che va dall’uomo verso Dio.

Vista con questa ottica biblica, la consacrazione particolare di un cristiano, che ha le sue radici nella consacrazione battesimale, è chiamata Vita Consacrata.

Tuttavia il primato assoluto dell’iniziativa divina non elimina la collaborazione dell’uomo, che è ugualmente necessaria e diviene effettiva per mezzo della vita ascetica. Infatti, essendo l’uomo intelligenza e libertà non esiste consacrazione personale se essa non chiama in causa l’intelligenza e la libertà dell’uomo. Il risultato è che l’uomo possiede Dio nello stesso tempo in cui si trova posseduto da Lui e destinato a fare della sua vita un atto di culto e di servizio al Signore.

La collaborazione dell’uomo nella consacrazione si basa nell’esercizio della virtù della religione, per mezzo della quale la creatura umana dà a Dio l’omaggio interno ed esterno, che gli è dovuto in quanto è suo Principio e suo Fine. Quando nel parlare o nel vissuto della consacrazione si mette l’accento sull’esercizio della virtù della religione, allora si parla di Vita Religiosa, la quale costituisce un esercizio eminente, ufficiale e permanente della virtù della religione. Per questo nel linguaggio tradizionale il termine «Religione» designa un Ordine o Congregazione (“entrare in Religione”) e la parola «Religioso» designa i suoi membri.

2. Consacrazione e missione

La consacrazione, con il suo aspetto di rinuncia, in nessun modo significa il disprezzo o il disinteresse per gli altri uomini, perché la stessa luce di Dio, che ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, illumina il cuore del consacrato e gli fa vedere il mondo e soprattutto l’uomo nella sua dignità e valore definitivo; ma non come un mezzo necessario per andare verso Dio, ma come termine o oggetto di un amore che scaturisce dalla pienezza dell’esperienza di Dio. Donarsi totalmente a Dio significa entrare con tutte le proprie capacità nel dinamismo dell’amore divino che ha come meta la salvezza di tutti gli uomini. Ed è precisamente per questo motivo che la consacrazione di se stesso a Dio, sommamente amato, è nello stesso tempo un consentire incondizionatamente a convertirsi in sacramento del suo amore per gli altri, cioè, un consacrarsi al servizio della realizzazione della volontà salvifica di Dio. La libera donazione che il consacrato fa di se stesso a Dio, che lo unisce più strettamente a sé per farlo strumento della sua salvezza, lo mette nella condizione di no appartenere più a se stesso, ma di appartenere all’Altro, al cui servizio si mette, per raggiungere gli obiettivi della missione che gli affida.

Pertanto, non è possibile contrapporre consacrazione e missione, giacché la missione entra nella consacrazione e la consacrazione condiziona la missione. No esiste consacrazione senza missione, come non esiste missione senza consacrazione; la consacrazione è sempre inerente alla missione e quando si parla sottolineando la missione, è sempre presupposta la consacrazione. La vita del consacrato si caratterizza per un movimento bipolare: verso Dio e verso gli uomini. Non deve dimenticare Dio quando si dedica agli uomini, né deve perdere di vista le necessità degli uomini quando si dà a Dio. Il vero amore di Dio e il vero amore degli uomini non sono antagonistici, perché sono il riflesso dello stesso amore. È impossibile amare cristianamente il prossimo senza amare Dio, e amare cristianamente Dio senza che questo stesso amore si riversi sul prossimo. Le due espressioni di un unico amore si incontrano, si armonizzano e crescono assieme, una mediante l’altra, in modo tale che amando il prossimo ci uniamo a Dio e mando Dio non si può rimanere indifferenti o ostili verso il prossimo. Ciò di cui si ha bisogno è imparare ad amare non solo a parole ma con i fatti ed in modo realistico (cf. 1Gv 3, 18; cf. anche «El ministerio presbiteral, A. Fafale, pp. 252 e 244).

Tuttavia in ordine di importanza e non di tempo, il primo movimento essenziale e fondamentale è la consacrazione totale all’amore di Dio, esperimentato come valore supremo ed unico, sufficiente e beatificante. Dio chiede al consacrato di rinunciare a tutto e vivere di Lui e per Lui solo, lasciandolo libero di inviarlo a servire dove e come Lui voglia, e non come vorrebbe lo stesso consacrato.

D’altro lato, la consacrazione comporta rinuncia a beni che in generale sono mezzi per lo sviluppo normale della persona umana, e il vuoto che il loro sacrificio crea, può essere colmato solo da Dio. Perciò, se Dio non è esperimentato come l’unico necessario e sufficiente, no si può rinunciare a tutto il resto, , che secondo la normale provvidenza divina è necessario per raggiungere Lui stesso (Cf Regole 1871, Cap. X).

Per tanto ridurre la consacrazione ad un semplice mezzo per dare più efficienza all’attività missionaria e assumerla in virtù del suo valore funzionale, costituisce un errore di prospettiva, che risulta in una diffamazione dello stesso Dio da parte del consacrato. Difatti, «la vita di un uomo, che in modo assoluto e perentorio viene a rompere tutte le relazioni col mondo e con le cose più care secondo la natura, …. Se non avesse un forte sentimento di Dio ed un vivo interesse alla sua gloria…», vista da quelli di fuori, avvalla l’idea che l’apostolato è lo sfruttamento infame di un uomo da parte del suo Dio: un Dio austero che fustiga il suo eletto, imponendogli uno stato di vita e ritmi di lavoro che sterilizzano la sua vita nelle dimensioni più vitali.

Nella vita consacra ciò che viene prima non è tanto il progetto di fare qualcosa, ma il sentirsi attratto da Qualcuno e consegnarsi a Lui nella fede, mettendosi a sevizio del progetto del suo amore sull’umanità.

Quando si parla di consacrazione personale nell’ambito della vita religiosa, si vuol dire che la persona è totalmente presa, sequestrata ed espropriata; per tanto, è evidente che non può esistere nessun progetto che giustifichi una tal cosa, se non c’è al centro una relazione ed un incontro personale con lo stesso Dio; caso contrario, si verifica che la persona è finalizzata e strumentalizzata per un progetto e, perciò, alienata; e questo neppure Dio può farlo ne chiederlo a qualcuno.

Per tanto, la consacrazione comporta un consegna incondizionata a Dio in un progetto che Lui mi indica e che mi va rivelando progressivamente, perché Dio è Vita infinita e perciò novità continua ed io sono una creatura sua con capacità di crescita aperte all’infinito…

La consacrazione mai può essere un progetto, anche se di origine divina, nel quale io penso di realizzarmi autonomamente; se fosse così, invece di mettermi a disposizione di Dio per la realizzazione del suo Progetto, metto ed uso il Progetto di Dio come mezzo per la mia realizzazione personale.

3. Vita consacrata e pratica dei consigli evangelici

La specificità della Vita Consacrata si concretizza e si rende visibile nella pratica dei consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza.

La materia dei consigli evangelici è comune a tutti i cristiani come mezzo per raggiungere la perfezione della carità verso di Dio e verso il prossimo.

Tuttavia, questi impegni comuni, nella vita consacrata, sono chiamati consigli riguardo al modo o allo stile di viverli, che è uno stile più radicale ed effettivo, che appare nei Vangeli e nelle prime comunità cristiane.

È vero che la Vita Consacrata nelle sue varie forme di realizzazione, compresa la Vita Religiosa, non si fonda in un testo determinato del Vangelo, ma nasce dal contesto evangelico, cioè, dalla dottrina e dall’esempio del divino Maestro (LG 43), così che la sua unica fonte e regola suprema è la sequela di Cristo, così come è proposta nel Vangelo (PC 2a).

Allo stesso modo, la distinzione tra precetti e consigli evangelici non si trova espressamente nei Vangeli, ma è una distinzione reale ed attuale, e ha come fondamento la Tradizione della Chiesa, e che costituisce uno sforzo per comprendere la vita cristiana perfetta (cf. Eb 6,1), la quale «maggiormente conforma il cristiano al genere di vita verginale e povera, che Cristo Signore si scelse per sé che la Vergine Madre sua abbracciò» (LG 46b).

Infatti, il Vangelo non ci propone una teoria di vita cristiana, ma cose concrete o fatti di vita, dai quali nascono le esigenze radicali della sequela di Gesù. La chiamata di Gesù è sempre una parola che impegna l’uomo nella sua totalità ed esige una obbedienza radicale. Tutte le volte che l’unità profonda della vita del cristiano è minacciata, che il suo cuore corre il rischio di rimanere diviso, gli è chiesto e non consigliato che compia gesti radicali: «Strappati l’occhio…, tagliati la mano…, va’ e vendi tutto…, ecc.». Poco a poco non mediante una riflessione astratta ma attraverso l’esperienza spirituale, la Chiesa ha dedotto dall’insieme della dottrina evangelica e ha messo in risalto le grandi linee di uno stile di vita cristiana, nel quale questi atteggiamenti radicali sono liberamente assunti come una situazione o forma di vita permanete. È in questo senso che si può parlare di «consigli evangelici».

Di fatto, Gesù ha voluto che un piccolo gruppo dei suoi discepoli, i Dodici, entrassero con Lui in un genere di vita così radicale. E questo gruppo divenne per la Chiesa nascente un segno e prototipo di vita al seguito di Gesù secondo i consigli. Il Libro degli atti degli Apostoli presenta i primi cristiani che cercano di introdurre nella loro nuova situazione la vita di comunione, che avevano vissuto i Dodici con il loro Maestro e che comportava una via di comunione fraterna, la partecipazione nella frazione del pane, e la condivisione dei beni (cf. At 2,42; 4,32-34). Una lettura attenta degli Atti fa capire anche che queste descrizioni non corrispondo esattamente alla realtà vissuta, ma esprimono un ideale che si proponevano di raggiungere (At 5,1-11; 6,1-6).

Tuttavia, è di somma importanza ill fatto che l’ideale di vita della prima comunità cristiana sia stato concepito secondo questo modo radicale di vivere il Vangelo. È per questoo che tutte le volte che la vita consacrata cominciò o ha dovuto essere riformata, si è fissata sempre in questo esempio (cf. PC 1; 2; Regole del 1871, Cap. I).

Fin dalla prima generazione cristiana troviamo la presenza di vergini e di asceti in diverse chiese locali. Gi Atti (21, 8-9) ci parlano delle quattro figlie di Filippo «evangelista», che erano vergini e profetesse e vivevano nella casa paterna. Si tratta di un genere di vita che si ispira al Vangelo e che si va diffondendo sempre più nella Chiesa. Uno stile di vita così radicale fu assunto nelle origini del cristianesimo anche dalle vedove (1Tim 5, 3-15).

Questo stile di Vita Consacrata comporta sempre la chiamata di Dio e il progetto del consacrato di centrare la sua vita in Dio per Cristo Gesù mediante la pratica dei consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza (= dimensione teologale-ascetica) e la missione evangelica nel mondo (= dimensione ecclesiale e di servizio). In questo stile di vita la persona o le persone che lo assumono, organizzano il modo di vivere la loro vita cristiana come consacrati dentro la comunione ecclesiale e, per tanto, è uno stile aperto a molte forme, secondo l’impulso dello Spirito Santo e le aspirazioni e sensibilità religiose delle persone che lo accolgono.

La Vita Consacrata è chiamata religiosa, quando lo stile di vita consacrata è sigillata con la Professione pubblica dei consigli evangelici e con l’accettazione di una Regola di Vita, che incarna e regola questa professione nella Chiesa. Così alla dimensione teologale-ascetica e missionaria della Vita Consacrata si aggiunge la dimensione ecclesiale-istituzionale.

In virtù del suo versante pubblico la Vita Religiosa, nell’interno della Chiesa e in mezzo al mondo, è destinata a essere una catechesi in atto della vita battesimale e le comunità religiose dovrebbero essere motivo di attrazione per tutti i credenti, chiamando tutti alla propria responsabilità cristiana e stimolandoli a vivere la sequela di Gesù Signore in pienezza.

Questo versante pubblico ha necessariamente una dimensione di solidarietà con i poveri, che sono i preferiti di Dio, e di ricerca della giustizia anche con rischio della vita (povertà); di comunione con gli oppressi che anelano al liberazione e per i quali l’obbedienza non è precisamente una virtù, ma costante imposizione dei poteri di questo mondo; e di impegno di amore verso tutti i solitari di questo mondo, verso tutti coloro che si sentono disprezzati, non valorizzati, non amati, non comprsi. A tuti loro il religioso non solo li aiuta con efficacia e la dedicazione, ma gli ricorda anche che c’è un Regno in cui i poveri saranno saziati, in cui non sarà più necessario prendere né moglie né marito, perché Dio sarà tutto in tutte le cose e tutti si sentiranno pienamente amati e saziati in Dio e da Dio (Religioso e Sacerdote, M. G., Ballester, Supplemento “Vida Nueva”, 26).

Per il fatto di essere qualcosa di straordinario e pubblico, la Vita Consacrata Religiosa vuole ricordare a tutti che il Battesimo è la consacrazione fondamentale e comporta un servizio illimitato del Signore, fondato nel fatto dell’apparenza esclusiva a Lui.

La «perfezione della carità», che i religiosi pretendono perseguire, ha la stessa finalità, cioè, i Religiosi si impegnano nella consecuzione della perfezione della carità non per distinguersi dagli altri cristiani, ma per ricordare a tutti, per mezzo di una “lezione pratica”, le esigenze della santità e dell’impegno apostolico, che derivano dal Battesimo, che tutti hanno ricevuto.

La vita comunitaria dei Religiosi supera certamente le possibilità ordinarie della vita cristiana, tuttavia la sua finalità profonda consiste nel sottolineare il fatto che la vita cristiana è insignificante, se non esiste una unione vitale di tutti in un solo corpo, nel quale ciascuno, secondo le sue possibilità, è artefice di comunione e partecipazione.

I Religiosi si presentano anche come gli specialisti della preghiera e dell’apostolato, per ricordare a tutti i cristiani che debbono mantenere continuamente vivo il loro sacerdozio battesimale nell’esercizio dell’adorazione e del ministero della evangelizzazione e della umanizzazione del mondo.

4. Vita Consacrata missionaria religiosa

Vita Religiosa e Vita Missionaria sono due carismi distinti, ciascuna con il proprio dinamismo, ma sono anche interdipendenti, fino alla perfetta integrazione nella persona del missionario religioso o del religioso missionario.

Infatti, ogni battezzato può ricevere il dono della vocazione missionaria “Ad gentes”, essendo la vocazione cristiana per sua natura anche vocazione all’apostolato.

Il religioso ha obblighi missionari specifici più stretti e impegnativi degli altri cristiani, perché la sua vita è centrata in modo peculiare sull’esperienza di Dio e sulla sua volontà salvifica. Il religioso, in virtù della sua pressione, partecipa di Dio, il Grande Povero, l’«Amore fontale», che si riversa su tutte le creature; vive con Cristo (Mc 13, 14), sposò il Signore (2Cor 14, 2) e lo serve (Mc 15, 41 Lc 23, 49). Per questo deve conformare il suo cuore alle ispirazioni profonde del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; la Professione religiosa è essenzialmente missionaria e partire “ad gentes” è una conseguenza logica del suo dinamismo interno. È vero che non tutti i Religiosi sono chiamati a realizzare la loro missionarietà “partendo”; tuttavia ogni Religioso è chiamato a vivere costantemente la tensione missionaria universale, che è iscritta nel suo essere per la duplice ragione di essere battezzato e di essere religioso. Sia che parta “ad gentes” sia che rimanga nella sua Chiesa di origine, l’anelo missionario universale deve imbibire la vita di ogni Religioso.

Per tanto punto di partenza della Vita Missionaria può essere la propria Vita Religiosa, in quanto attuazione della consacrazione, che sempre è missione: nasce così la Vita consacrata religiosa missionaria, che costituisce una possibilità in tutti gli Istituti Religiosi.

Ma accade anche che la visione dl campo di lavoro con mancanza di operai, susciti nel cristiano la Vocazione missionaria “ad vitam”: nasce così la Consacrazione missionaria nell’ambito di uno stile di Vita consacrata personale o comunitaria, ma senza Professione pubblica dei consigli evangelici.

È il caso di Daniele Comboni dell’Istituto per le Missioni dell’Africa, da lui stesso fondato.

«Negli scritti di Comboni la consacrazione è indissolubilmente unita alla missione. La consacrazione è la radice da cui scaturisce l’impegno individuale e comunitario fino al martirio per la “rigenerazione del la Nigrizia” (Regole 1871, c IV). Significative al riguardo le seguenti parole del rapporto di Comboni al card. Barnabò (Roma 2.3.1872):

“Nell’Istituto dei Missionari si inculca profondamente e si cerca di imprimere e di ben radicare nell’anima dei candidati il vero e preciso carattere dei Missionari della Nigrizia, il quale deve essere una perpetua vittima di sacrificio destinata a lavorare sudare morire senza forse vedere alcun frutto delle sue·faticihe. Essi si formano a questa disposizione essenzialissima col tener sempre fissi gli occhi in Gesù Cristo, amandolo teneramente e procurando di intendere ognor meglio cosa voglia dire un Dio morto in croce per la salvezza delle anime, e rinnovando spesso l’offerta di se medesimi e della sanità e della vita, in certe circostanze di maggior fervore fanno tutti insieme in comune una formale ed esplicita consacrazione a Dio di se stessi esibendosi ciascuno con umiltà e confidenza nella sua grazia anche al martirio” (S 2892)»2.

Infine, il desiderio di vivere con radicalità la consacrazione missionaria, può portare ad assumere la Vita Religiosa: nasce così la Vita Missionaria Religiosa, nella quale missione e consacrazione sono interdipendenti ed inseparabili negli Istituti Missionari Religiosi.

Questa radicalità era presente nella mente e nel cuore di Daniele Comboni.

Infatti, « questa consacrazione, secondo il desiderio del Fondatore, trovava la sua espressione giuridica in un giuramento per missionari sacerdoti e fratelli (cf S 5824). In una lettera al padre gesuita Boetman, rettore del Seminario Apostolico di Tornout, Comboni scriveva: ‘Voi sapete che la mia piccola Congregazione è sul modello delle Missioni Estre di Parigi e che coloro che vi fanno parte devono avere tutte le virtù dei religiosi e quella di essere ad ogni momento esposti alla morte per la salvezza dei Neri” (Scritti di D. Comboni, VII, p 2643). Si vede chiaramente come a Comboni interessasse in maniera particolare il contenuto della consacrazione religiosa, che da sempre nella storia della spiritualità era indicata come un secondo martirio.

Quello che Comboni rifiutava della struttura religiosa era “la mentalità fratesca” (lettera 22.1.1871 a Mons di Canossa), di cui aveva esperimentato una certa tendenza ad anteporre l’interesse della Congregazione al bene della gente e della missione, ed una endemica allergia alla collaborazione intercongregazionale. Tutto ciò non. gli impediva di riconoscere che: “Gli ordini e le congregazioni religiose sono la milizia eletta della Chiesa” (S 2181). Inoltre, come abbiamo visto nella citazione del Sogaro era certamente desiderio di Comboni che i Gesuiti assumessero la responsabilità della formazione dei suoi missionari»3.

La semente della consacrazione religiosa seminata da Comboni divenne albero per mezzo della trasformazione in Congregazione Religiosa dei Missionari per l’Africa, per il fatto che il contesto particolare in cui venne a trovarsi la missione suggerì di entrare nel cammino del radicalismo della consacrazione missioaria.

Di fatto, Mons Sogaro, successore di Daniele Comboni, «arrivò a Khartoum il 31 marzo 1883, quando le missioni fondate da Comboni erano già investite dalla rivoluzione mahdista e i missionari e le missionarie sotto posti a prove eccezionali, incluso il martirio. Egli si convinse che per perseverare in quella situazione fosse necessario che i missionari avessero una formazione, una spiritualità e una struttura giuridica che potessero prima prepararli e poi sostenerli nell’urto con le difficoltà ambientali, morali e sociali della missione. La forma religiosa della vita avrebbe assicurato ciò.

La ”consacrazione” nella sua forma giuridica è diventata parte della nostra storia, perché imposta dalla missione. Perciò il Capitolo straordinario dei FSCJ del 1969 scriveva: “Già come Istituto secolare senza voti era segno di quella fraternità in Cristo che caratterizza la Chiesa: secondo il disegno del fondatore, infatti, l’Istituto doveva essere come un ‘Cenacolo di Apostoli’ che sprigionasse i suoi raggi al centro dell’Africa. Ma quando esso assunse la forma di Congregazione religiosa con voti semplici, la sua realtà di ‘segno’ apparve in maniera ancora più manifesta. Resi più stabili e visibili i vincoli di fraternità; divenuta più impegnativa la pratica personale e comunitaria delle beatitudini evangeliche, che sono mirabilmente sintetizzate nei voti di castità, obbedienza e povertà, l’Istituto vuole essere una ‘famiglia riunita nel nome del Signore’ (PC 15), capace di realizzare ‘la più grande Famiglia’ in mezzo ai pagani.

A tale nostra ‘vita religiosa’, però, si addice una fisionomia particolare: sorta come esigenza della missione, è alla missione che deve continuamente riferirsi. (…) Lungi dal costituire un ostacolo per l’apostolato, la nostra ‘vita religiosa’ si qualifica in esso; anziché costituirci come gruppo separato dalla Chiesa missionaria, deve inserirci in essa in maniera più efficace: l’apostolato missionario, infatti, non è qualcosa che ad essa si aggiunge dal di fuori, ma rientra nella sua stessa natura e ne costituisce l’intima essenza (PC 8)” (Documenti Capitolari FSCJ 1969; ediz. ital. p 11-12)»4.

5. Missionari religiosi, Sacerdoti e Fratelli

Nella Chiesa risono stili di vita, carismi e ministeri diversi. Ma qualunque sia l’ufficio, modo di vivere o carisma di ciascuno, l’unica cosa importante e decisiva non sta lì, ma nella santità, alla quale siamo chiamati tutti i cristiani senza distinzione, come dice con molta chiarezza il Concilio Vat. II:

«Se nella Chiesa non tutti vanno per la stessa via, tutti però sono chiamati alla santità e hanno ugualmente la bella sorte della fede per la giustizia di Dio» (LG 32c).

Nella santità sta la gioia piena dell’uomo, la sua pienezza e la sua perfezione, come dice ancora il Concilio: «È chiaro dunque a tutti, che tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità» (LG 40b).

Infatti, Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza, l’ha fatto suo interlocutore, con capacità per il divino; impresse nell’uomo una scintilla di eternità che gli è congeniale e che mai lo abbandona. Perciò c’è nell’uomo un dinamismo insaziabile, un vuoto che solo l’Assoluto può colmare. Si spiega così il fatto che il cuore dell’uomo è inquieto finché non riposa in Dio.

In questo cammino verso la santità, Dio chiama ciascuno con il proprio nome, cioè, vuole stabilire una relazione unica, come unico è l’amore di un padre per ciascuno dei suoi figli, anche se chiama tutti loro a vivere nella sua casa, nell’unità della famiglia; la risposta può essere soltanto personale ed è logico che in ciascuno si concretizzi e si viva in modo diverso, secondo il proprio genio, capacità, carattere, formazione, usanze e situazioni di vita. Nella Chiesa tutti sono chiamati a percorre lo stesso cammino. Perciò il Concilio ribadisce:

«Nei vari generi di vita e ne vari uffici un’unica santità è coltivata da quanti sono mossi dallo Spirito di Dio e seguono Cristo» (LG 41a).

Il sacerdozio ministeriale è a servizio di questo cammino verso la santità, alla quale sono chiamati tutti i cristiani.

Il sacerdozio ministeriale «è la visibilizzazione o la rappresentazione sacramentale dell’unica potestà con cui Cristo continua a generare e a fortificare il sacerdozio profetico e regale dei fedeli, mediante il servizio della Parola, dei sacramenti e della guida della comunità, cui sono resi idonei i ministri della Chiesa attraverso il rito dell’imposizione delle mani» (PO 2cd; A. Favale, Il ministero presbiterale, LAS – Roma 1989, p. 229).

L’efficacia di questo ministero è indipendente della santità del ministro, giacché il Sacerdote è costituito in funzione del suo ministero.

Tuttavia, in virtù dell’imposizione delle mani, riceve un “carisma”, un dono dello Spirito santo, per mezzo del quale entra in una personalissima relazione ontologica-sacramentale con Cristo, capo del Corpo Mistico, dalla quale è abilitato ad attualizzare nel tempo la sua consacrazione e missione. Questa relazione agisce nel più intimo della persona del ministro e diviene fonte di tuta la sua vita spirituale e centro propulsore, che nel piano psicologico ed operativo lo stimola a configurarsi con Cristo, ad appropriarsi dei suoi sentimenti, a imitare il suo esempio, a rivivere i suoi atteggiamenti, nel contempo che rende visibile il suo sacerdozio profetico e reale. Infatti, i Sacerdoti, donando la loro vita per il Signore e per i fratelli, si vanno conformando all’immagine di Cristo e così rendono testimonianza di fedeltà e di amore generoso (cf. Prefazio della Messa del crisma).

Se il desiderio e la buona volontà del Sacerdote sono tali che non pongono ostacoli alla grazia trasformante del suo cuore di sacerdote allora il processo di appartenenza e di conformazione a Cristo trova un cammino privilegiato di sviluppo, incarnandosi in uno stile di vita consacrata, così che sia sempre più “segno” e trasparenza del Signore risorto con una luminosità di vita capace di condurre verso lo stesso Gesù e non sottragga niente al suo potere assoluto.

Così la consacrazione religiosa diviene per il missionario Sacerdote una scuola di vita cristiana intensa, che lo porta a lasciarsi rinnovare costantemente dallo Spirito Santo, ricevuto nell’ordinazione sacerdotale, con la su condotta, esempio di vita; perché sia sempre più capace di essere consapevole di ciò che realizza e imitare ciò che commemora; e conformare la sua vita al mistero della croce di Cristo (cf. Rituale della Ordinazione).

Così la consacrazione religiosa diviene per il missionario Sacerdote in cammino di totale dedizione alla missione universale della Chiesa, così che facia dell’evangelizzazione la ragione della sua vita sacerdotale, perché l’annuncio del Vangelo arrivi a tutta la terra, e tutti i popoli, riuniti in Cristo, formino il polo santo di Dio (cf. Rituale della Ordinazione).

Analoga considerazione si può fare riguardo al missionario Fratello.

Sembra che ci sia una tendenza a considerare i missionari Fratelli come un gruppo specializzato al servizio ella missione nel versante della promozione umana o nella struttura amministrativa dell’Istituto; si nota la tendenza a identificare il Fratello come «un professionista».

Certamente questa visione contiene aspetti incontestabili e preziosi riguardo l’identità del missionario Fratello. Tuttavia, quando si sottolinea unilateralmente, porta a rovesciare la relazione di reciprocità tra consacrazione e missione, mettendo la prima come condizione per una migliore realizzazione della seconda, o sottolineando in tal modo la seconda che la consacrazione sparisca dall’orizzonte del missionario Fratello, che viene così ridotto a semplice funzionario della missione attraverso l’Istituto.

Questo capovolgimento costituisce uno svuotamento della originalità della consacrazione missionaria, perché consacrazione e missione sono entrambe necessarie e assolutamente inseparabili; inoltre, mettendo l’efficienza professionale come unico criterio decisivo della vita del missionario Fratello, questa va perdendo il suo significato nella misura in cui ci si trova alle prese con una professionalità debole.

Il missionario Fratello vive in pienezza la sua vocazione nella misura in cui armonizzi la sua consacrazione con le sue attività professionali.

Infatti, la vita religiosa e la vita missionaria “ad gentes” sono due realtà distinte, perché un cristiano può essere religioso senza attività missionaria diretta, o missionario senza vita religiosa. Tuttavia, la missione postula sempre la consacrazione, e la consacrazione religiosa non fa altro che sviluppare queste due realtà, che sono esistenzialmente implicate reciprocamente, in tal modo che le due finalità (= vita centrata in Dio per Cristo e annuncio evangelico) siano intrinseche l’una all’altra e si relazionino una mediante l’altra e non sovrapponendosi.

Quando un gruppo di cristiani si propongono di vivere i propri compiti ecclesiali nel dinamismo della consacrazione religiosa, non c’è posto per confronti, non ha senso l’emulazione e meno ancora la rivalità. Se ciò avviene, bisogna domandarsi se non siamo davanti ad un segno che la nostra risposta al dono della consacrazione si è debilitato, e allora si sente il bisogno ricercare altre soddisfazioni umane.

Nelle Congregazioni clericali nelle quali ci sono anche Fratelli, sono apparse e ancora possono esistere malumori e clima di lotta di classe, che posso produrre complessi di inferiorità nei religiosi laici, e soprattutto spirito di superiorità dei religiosi Sacerdoti, considerandosi gli unici veri missionari.

Comunque sia, rivalità di questo genere rivelano la mancanza di una ecclesiolgia di comunione e partecipazione nella corresponsabilità, la mancanza di docilità allo Spirito Santo e la dimenticanza da parte degli uni e degli altri della loro vocazione, ridotta forse inconsapevolmente a puro utilitarismo, riferendola soprattutto al mercato del lavoro, con le esigenze di produttività o con lo sviluppo delle attitudini oggettive del Sacerdote o del Fratello.

Il cammino per dare una risposta a questo conflitto, si trova nel fatto che la vocazione missionaria «non nasce dall’orbita degli uffizi strettamente Sacerdotali: è l’adempimento dell’ingiunzione fatta da Cristo ai suoi discepoli di predicare il Vangelo a tutte le genti» (Regole 1871, Cap. I); che la consacrazione religiosa sia per il Sacerdote come per i Fratello è forma e dinamismo della missione, è mistero previo dell’amore di Dio, che al comunicarsi diviene capacità operativa nel missionario; è lo specifico del missionario, che rivela la Sorgente da cui nasce la donazione incondizionata di se stesso a Dio per il servizio missionario (cf. Regole 1871, Cap. X).

Palo VI, nella sua Esortazione apostolica “Evangelii nutiandi”, offre un apporto decisivo per dare una soluzione a questo conflitto, quando afferma che i religiosi «con la stessa natura del loro essere si collocano ne dinamismo della Chiesa, assettata dell’Assoluto di Dio, chiamata alla santità. Di questa santità essi sono testimoni. Incarnano la Chiesa in quanto desiderosa di abbandonarsi al radicalismo delle beatitudini. Con la loro vita sono il segno della totale disponibilità verso Dio, verso la Chiesa, verso i fratelli» (96a).

Né i Sacerdoti né i Fratelli siamo chiamati a cercare oggi il fomento delle “opere” per il nostro prestigio, per competere con i poteri umani (socio-politici, economici, ecc,…) e per soddisfare il nostro “individualismo competitivo” all’interno della comunità ecclesiale e religiosa, siamo invece chiamati a cercare di essere presenti come “comunità di fratelli” in mezzo ai gruppi umani o comunità cristiane come coloro che servono: «Io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22, 27).

Gesù, infatti, non rimane fuori dalla vita di coloro che lo amano e lo annunciano al mondo. Sta in mezzo a loro, perché così arriva a tutti. Tutti si relazionano con Lui, stabilendo vincoli di unità e di uguaglianza, che fa di essi ۫«un piccolo Cenacolo di Apostoli, un punto luminoso che manda fino al centro della Nigrizia altrettanti raggi quanti sono i zelanti e virtuosi missionari che escono dal suo seno; e questi raggi che splendono insieme e riscaldano, necessariamente rivelano la natura del Centro da cui emanano (Regole 1871, Cap. I).

Per tanto, la consacrazione a Dio per il servizio missionario esige l’accettazione della complementarietà dei carismi. In realtà, nella Chiesa, tutti abbiamo qualcosa di tutti. Il mio non è solo e prima di tutto mio; è anche degli altri e soprattutto degli altri (cf 1Cor 12, 7). E al rovescio: nel carisma o nel ministero dell’altro io riconosco una parte del mio io. C’è una fondamentale complementarietà e solidarietà nel Corpo della Chiesa perché questa è comunione e partecipazione. Nell’opzione e nel lavoro dell’altro, distinti dai miei, io non vedo una posizione rivale, a in essa riconosco una nostalgia nascosta del mio io. L’altro è sensibile a determinati compiti e necessità che sono anche mie, sia perché mi sono complementari sia perché mi esprimono in un’altra situazione.

Lo stesso unico Spirito è colui che anima tutti i compiti ecclesiali. Perciò tutti possiamo riconoscerci nel lavoro dell’altro: l’altro opera con lo stesso Spirito che opera in me. C’è diversità di funzioni, ma uno è lo Spirito (1Cor 12, 4-6), lo Spirito che ci unisce tutti nello stesso corpo (1Cor 12, 13). Da qui che nessuno può dire a nessuno: “Non ho bisogno di te” (1Cor 12, 21ss), giacché chi dice questo o agisce in modo marginante, lascia di essere membro del corpo.

Viene così scartato dalla radice il fondamento di ogni comparazione, che nasconda gelosie o rivalità. Nella Chiesa tutte le funzioni sono necessarie e tutte tendono allo stesso fine: anticipare il Regno di Dio in questa terra con la speranza di viverlo un giorno in pienezza.

Per tutto questo, missionario religioso, Sacerdote o Fratello, e religioso anzitutto, ma valorizzando in tutta la sua importanza il ministero sacerdotale e i ministeri laicali. Religioso anzitutto, perché l’essere religioso non è altro che un modo di vivere la vita cristiana, e il primo compito è essere cristiano. Ancora di più, è il più importante, l’unico decisivo. Infatti, Gesù non lo si incontra per il fatto di essere missionario, Sacerdote o Fratello, anzi ha senso soltanto la vita missionaria sacerdotale o laicale di colui che l’ha incontrato e ha centrato la sua vita in Lui. La vita religiosa è una iniziativa gratuita di Dio, con la quale chiama, trasforma, fortifica ed invia; questa iniziativa per chi la riceve con libertà e gratitudine, diviene una scuola per imparare ad essere cristiano, cioè, per incontrare il Signore, stare con Lui ed essere da Lui inviato al mondo.

Religioso anzitutto, perché ciò che viene prima e formare parte del Corpo di Cristo, del “Cenacolo di Apostoli”, e ciò si esprime adeguatamente mediante la vita comunitaria, nella quale i fratelli si accettano con dono del Signore. I fratelli nella comunità nessuno se li sceglie; si incontrano, vengono all’incontro. E ciò che per prima cosa ci chiede il Signore che ci con-voca, è vivere unanimi e concordi come figli dello stesso Padre. La comunità viene sempre prima delle funzioni che in essa nascono.

Religioso anzitutto, perché le comunità sono segno dell’umanità nuova nata dallo spirito. In effetti, lo Spirito agisce nella comunione. L’ambiente naturale mediante il quale lo Spirito agisce, prima ancora che l’autorità, è l’ascolto dei fratelli, il contrasto di opinioni e la ricerca di un consenso tra coloro che pensano in modo distinto, ma cercano di agire con un cuore concorde. Di fatto, il mezzo del quale si serve lo Spirito per suscitare “autorità”, è la comunità.

Entrare in un ministro ordinato o no, non elimina né assorbe la potenzialità di crescita spirituale del ministro (missionario), ma esige il suo sviluppo, che radica nei sacramenti dell’iniziazione cristiana e presuppone un’esperienza personale con Cristo e la adesione al suo Vangelo.

1 Agostino Favale, Il ministero presbiterale, LAS – ROMA 1989, p. 249.

2 Consiglio Generale, Lettera per il Centenario delle Prime Professioni religiose 1887-1987, Parte I, n.3

3 Consiglio Generale, Lettera per il Centenario delle Prime Professioni religiose 1887-1987, Parte I, n. 3

4 Consiglio Generale, Lettera per il Centenario delle Prime Professioni religiose 1887-1987, Parte I, n. 2