21 martiri copti egiziani, uccisi in Libia nel 2015

21 martiri copti egiziani, uccisi in Libia nel 2015


In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 
«A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Da’ a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro.
E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro.
Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi.
Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso.
Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio».

(Letture: 1 Samuele 26,2.7-9.12-13.22-23; Salmo 102; 1 Corinzi 15, 45-49; Luca 6, 27-38).

«Sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene».
S. Agostino

Equilibristi sul filo della vita
Passiamo la vita come funamboli sospesi nel vuoto, con l’ansia di precipitare, concentrando tutte le nostre energie per rimanere in equilibrio. Cerchiamo di non cadere mai dalla parte sbagliata, ci teniamo in equilibrio con i compromessi, diventiamo esperti di diplomazia, prestiamo attenzione a non assumere posizioni che potrebbero diventare compromettenti.
Perdiamo gran parte del nostro tempo a valutare la corretta reciprocità dei comportamenti degli altri nei nostri confronti: le relazioni diventano visite di cortesia, gli incontri si trasformano in affari diplomatici, le feste assumono l’aspetto di circoli di ragionieri pronti a valutare se quanto è stato speso valesse davvero la pena. C’è gente che, prima di partecipare a un regalo di compleanno, cerca in archivio il pregresso del festeggiato nei suoi confronti. Vale la pena o non vale la pena?

La libertà di precipitare
Le letture di questa domenica, al contrario, potrebbero essere lette come un richiamo forte a spezzare l’equilibrio.
Nel racconto del primo libro di Samuele, davanti alla possibilità di uccidere Saul, l’interpretazione di Abisai è chiara e si ammanta di motivi religiosi: «Dio ti ha messo nelle mani il tuo nemico» (1Sam 26,8).
Ma la risposta di Davide è l’espressione di chi si sottrae alla logica della vendetta, anche se questo significa rimetterci in prima persona. Se anche Dio avesse messo Saul nelle mani di Davide, Davide lo riconsegna nelle mani di Dio. Quante volte invece giustifichiamo le nostre rivendicazioni additando considerazioni spirituali che nascondono in realtà le nostre logiche interiori più perverse.
Ogni volta siamo messi davanti all’alternativa di assecondare chi ci fa del male o sottrarci a quella logica e giocare su un piano diverso. Se giochiamo la partita di chi ci percuote con i suoi giudizi, di chi ci strappa la nostra dignità, di chi ci prende la vita senza il nostro permesso, allora diventiamo conniventi nel male. A volte, l’unica cosa che possiamo prendere per stare meglio, come diceva Lucy dei Peanuts, sono le distanze. A volte possiamo solo tirarci indietro, non seguire l’altro sulla sua strada.
L’amore è molto concreto e coinvolge tutto il nostro corpo. Per Gesù amare vuol dire fare (coinvolge le nostre mani), benedire (la nostra bocca), pregare (il nostro cuore).

La reciprocità è il surrogato dell’amore
Gli equilibristi sono in genere gli uomini della reciprocità. Abbiamo fatto della reciprocità un valore portante della nostra cultura, dell’educazione, delle buone maniere, ma certamente la reciprocità non è un concetto evangelico. Gesù ci invita ogni volta a uscire da queste dinamiche da partita doppia, da questa mentalità da ragionieri, in cui la mia risposta è sempre misurata su quello che ho ricevuto io dall’altro. Alla reciprocità Gesù sostituisce l’eccedenza. Rimanere sul piano della reciprocità significa rimanere in una logica pienamente umana, precludendosi la via del Vangelo.
Saremo degni di gratitudine quando avremo stappato la partita doppia, quando non ci aspetteremo più dall’altro risposte adeguate a quello che noi abbiamo investito, quando prima del rispetto dei nostri diritti, ci impegneremo nel compiere il nostro dovere: «E come volete gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro» (Lc 6,31). Come volete, non come fanno. Trasformiamo il nostro desiderio verso noi stessi in azione nei confronti degli altri, spezziamo l’equilibrio, giochiamo d’anticipo!

Dio con me non fa l’equilibrista
Il criterio di questo stile di amore ovviamente non lo trovo in me, ma si tratta di diventare consapevoli dell’amore che prima di tutto io stesso ho ricevuto da un altro: Dio non mi tratta secondo i miei meriti: «Non ci tratta secondo i nostri peccati, non ci ripaga secondo le nostre colpe» (Sal 102,10).
Ignazio di Loyola invita negli Esercizi spirituali a contemplare con meraviglia il fatto di essere stati salvati senza meritarlo. È da questa consapevolezza che nasce la forza per spezzare l’equilibrio. Dio infatti con me non ha ragionato in termini di reciprocità: «Qui sarà domandare vergogna e umiliazione per me stesso, vedendo quanti si sono dannati per un solo peccato mortale, e quante volte io avrei meritato di essere condannato in eterno per i miei tanti peccati» (Esercizi spirituali 48).
Se usciamo dalla dinamica della reciprocità, saremo i primi a beneficiarne. Siamo noi infatti che ci esponiamo al giudizio, alla condanna, all’accusa quando accettiamo di entrare in queste dinamiche: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati» (Lc 6,37-38).
Se il cammino del Vangelo ci conduce a somigliare a Dio, si tratta allora di un cammino che possiamo percorre solo se precipitiamo dalla corda dell’equilibrista, la misericordia di Dio infatti è eccedenza, senza reciprocità: «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro» (Lc 6,36).

Leggersi dentro
– Nelle tue relazioni sei particolarmente attento al modo in cui gli altri si comportano con te?
– Se Dio ti volesse trattare secondo il criterio della reciprocità, cosa dovrebbe fare nei tuoi riguardi?

Versione originale su http://www.clerus.va

Gesù ha appena proiettato nel cielo della pianura umana il sogno e la rivolta del Vangelo. Ora pronuncia il primo dei suoi “amate”. Amate i vostri nemici . Lo farai subito, senza aspettare; non per rispondere ma per anticipare; non perché così vanno le cose, ma per cambiarle.
La sapienza umana però contesta Gesù: amare i nemici è impossibile.
E Gesù contesta la sapienza umana: amatevi altrimenti vi distruggerete. Perché la notte non si sconfigge con altra tenebra; l’odio non si batte con altro odio sulle bilance della storia. Gesù vuole eliminare il concetto stesso di nemico. Tutti attorno a noi, tutto dentro di noi dice: fuggi da Caino, allontanalo, rendilo innocuo. Poi viene Gesù e ci sorprende: avvicinatevi ai vostri nemici, e capovolge la paura in custodia amorosa, perché la paura non libera dal male.
E indica otto gradini dell’amore, attraverso l’incalzare di verbi concreti: quattro rivolti a tutti: amate, fate, benedite, pregate; e quattro indirizzati al singolo, a me: offri, non rifiutare, da’, non chiedere indietro.
Amore fattivo quello di Gesù, amore di mani, di tuniche, di prestiti, di verbi concreti, perché amore vero non c’è senza un fare.
Offri l’altra guancia, abbassa le difese, sii disarmato, non incutere paura, mostra che non hai nulla da difendere, neppure te stesso, e l’altro capirà l’assurdo di esserti nemico. Offri l’altra guancia altrimenti a vincere sarà sempre il più forte, il più armato, e violento, e crudele. Fallo, non per passività morbosa, ma prendendo tu l’iniziativa, riallacciando la relazione, facendo tu il primo passo, perdonando, ricominciando, creando fiducia. «A chi ti strappa la veste non rifiutare neanche la tunica», incalza il maestro, rivolgendosi a chi, magari, non possiede altro che quello. Come a dire: da’ tutto quello che hai. La salvezza viene dal basso! Chi si fa povero salverà il mondo con Gesù (R. Virgili). Via altissima. Il maestro non convoca eroi nel suo Regno, né atleti chiamati a imprese impossibili. E infatti ecco il regalo di questo Vangelo: come volete che gli uomini facciano a voi
così anche voi fate a loro. Ciò che desiderate per voi fatelo voi agli altri: prodigiosa contrazione della legge, ultima istanza del comandamento è il tuo desiderio. Il mondo che desideri, costruiscilo. «Sii tu il cambiamento che vuoi vedere nel mondo» (Gandhi).
Ciò che desideri per te, ciò che ti tiene in vita e ti fa felice, questo tu darai al tuo compagno di strada, oltre l’eterna illusione del pareggio del dare e dell’avere. È il cammino buona della umana perfezione. Legge che allarga il cuore, misura pigiata, colma e traboccante, che versa gioia nel grembo della vita.

Avvenire 

Alla proclamazione delle beatitudini, nel vangelo secondo Luca come in quello secondo Matteo, segue da parte di Gesù un discorso indirizzato a quella folla che era venuta ad ascoltarlo quando era disceso con i Dodici dalla montagna (cf. Lc 6,17). In Luca questo insegnamento è più breve e ha una tonalità diversa. In esso non è più registrato il confronto, anche polemico, con la tradizione degli scribi di Israele, ma emerge piuttosto la “differenza cristiana”che i discepoli di Gesù devono saper vivere e mostrare rispetto alle genti, ai pagani in mezzo ai quali si collocano le comunità alle quali è rivolto il vangelo.

“A voi che ascoltate, io dico…”. Sono le prime parole di Gesù, che introducono una domanda, un comando, un’esigenza fondamentale: “Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano”. Certo, queste parole sono collegate alla quarta beatitudine indirizzata ai discepoli perseguitati (cf. Lc 6,22-23), ma appaiono rivolte a ogni ascoltatore che vuole diventare discepolo di Gesù. L’amore dei nemici non è dunque soltanto un invito a un’estrema estensione del comandamento dell’amore del prossimo (cf. Lv 19,18; Lc 10,27), ma è un’esigenza prima, fondamentale, che appare paradossale e scandalosa. I primi commentatori del vangelo con ragione hanno giudicato questo comando di Gesù una novità rispetto a ogni etica e sapienza umana, e gli stessi figli di Israele hanno sempre testimoniato che con tale esigenza Gesù andava oltre la Torah.

Per questo dobbiamo chiederci: è possibile per noi umani amare il nemico, chi ci fa del male, chi ci odia e vuole ucciderci? Se anche Dio, secondo la testimonianza delle Scritture dell’antica alleanza, odia i suoi nemici, i malvagi, si vendica contro di loro (cf. Dt 7,1-6; 25,19; Sal 5,5-6; 139,19-22; ecc.) e chiede ai credenti in lui di odiare i peccatori e di pregare contro di loro, potrà forse un discepolo di Gesù vivere un amore verso chi gli fa del male? Diamo troppo per scontato che questo sia possibile, mentre dovremmo interrogarci seriamente e discernere che un amore simile può solo essere “grazia”, dono del Signore Gesù Cristo a chi lo segue. Anche nel nostro vivere quotidiano non è facile relazionarci con chi ci critica e ci calunnia, con chi ci fa soffrire pur senza perseguitarci a causa di Gesù, con chi ci aggredisce e rende la nostra vita difficile, faticosa e triste. Ognuno di noi sa quale lotta deve condurre per non ripagare il male ricevuto e sa come sia quasi impossibile nutrire nel cuore sentimenti di amore per chi si mostra nemico, anche se non ci si vendica nei suoi confronti.

Con questo comando, che lui stesso ha vissuto fino alla fine sulla croce chiedendo a Dio di perdonare i suoi assassini (cf. Lc 23,34), Gesù chiede ciò che solo per grazia è possibile e, significativamente, è sempre Luca a testimoniare che con questo sentimento dell’amore verso i nemici è morto il primo testimone di Gesù, Stefano, il quale ha chiesto a Gesù suo Signore di non imputare ai suoi persecutori la morte violenta che riceveva da loro (cf. Lc 7,60). Gesù dunque qui rompe con la tradizione e innova nell’indicare il comportamento del discepolo, della discepola: ecco la giustizia che va oltre quella di scribi e farisei (cf. Mt 5,20), ecco la fatica del Vangelo, ecco – direbbe Paolo – “la parola della croce” (1Cor 1,18). Amare (verbo agapáo) il nemico significa andare verso l’altro con gratuità anche se ci osteggia, significa volere il bene dell’altro anche se è colui che ci fa del male, significa fare il bene, avere cura dell’altro amandolo come se stessi. E Gesù fornisce degli esempi, indica anche dei comportamenti esteriori da assumere, espressi alla seconda persona singolare: non fare resistenza a chi ti colpisce e neppure a chi ti ruba il mantello; dona a chi tende la mano, chiunque sia, conosciuto o sconosciuto, buono o cattivo, e non sentirti mai creditore di ciò che ti è stato sottratto. Ciò non significa però assumere una passività, una resa di fronte a chi ci fa il male, e Gesù stesso ce ne ha dato l’esempio quando, percosso sulla guancia dalla guardia del sommo sacerdote, ha obiettato: “Se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (Gv 18,23).

A questo punto Gesù formula la “regola d’oro”, che riporta il discorso alla seconda persona plurale: “Come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro”. Regola formalizzata in positivo, nella quale la reciprocità non è invocata come diritto e tanto meno come pretesa, ma come dovere verso l’altro misurato sul proprio desiderio: “fare agli altri ciò che desidero sia fatto a me”. Pochi anni prima del ministero di Gesù rabbi Hillel affermava: “Ciò che non vuoi sia fatto a te, non farlo al tuo prossimo”. Ma Gesù conferisce a tale istanza una forma positiva, chiedendo di fare tutto il bene possibile al prossimo, fino al nemico.

Solo così, amando gli altri senza reciprocità, facendo del bene senza calcolare un vantaggio e donando con disinteresse senza aspettare la restituzione, si vive la “differenza cristiana”. In questo comportamento c’è il conformarsi del discepolo al Dio di Gesù Cristo, quel Dio che Gesù ha narrato come amoroso, capace di prendersi cura dei giusti e dei peccatori, dei credenti e degli ingrati. Se Dio non condiziona il suo amore alla reciprocità, al ricevere una risposta, ma dona, ama, ha cura di ogni creatura, anche il cristiano dovrebbe comportarsi in questo modo nel suo cammino verso il Regno, in mezzo all’umanità di cui fa parte.

Dopo aver ribadito il comandamento dell’amore dei nemici, Gesù fa una promessa: ci sarà “una ricompensa (misthós) grande” nei cieli ma già ora in terra, qui, i discepoli diventano figli di Dio perché si adempie in loro il principio “tale Padre, tale figlio”. Imitare Dio, fino a essere suoi figli e figlie: sembra una follia, una possibilità incredibile, eppure questa è la promessa di Gesù, il Figlio di Dio che ci chiama a diventare figli di Dio. Se nella Torah il Signore chiedeva ai figli di Israele in alleanza con lui: “Siate santi, perché io sono Santo” (Lv 19,2), e questo significava essere distinti, differenti rispetto alla mondanità, in Gesù questo monito diventa: “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso”. Nella tradizione delle parole di Gesù secondo Matteo il comando risuona: “Siate perfetti (téleioi) come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,48). Qui invece ciò che viene messo in evidenza è la misericordia di Dio; d’altronde, già secondo i profeti, la santità di Dio era misericordia, si mostrava nella misericordia (cf. Os 6,6; 11,8-9). La misericordia, l’amore viscerale e gratuito del Signore che è “compassionevole e misericordioso” (Es 34,6), deve diventare anche l’amore concreto e quotidiano del discepolo di Gesù verso gli altri, amore illustrato da due sentenze negative e due positive.

Innanzitutto: “Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati”, perché nessuno può prendere il posto di Dio quale giudice delle azioni umane e di quanti ne sono responsabili. Si faccia attenzione e si comprenda: Gesù non ci chiede di non discernere le azioni, i fatti e i comportamenti, perché senza questo giudizio (verbo kríno) non si potrebbe distinguere il bene dal male, ma ci chiede di non giudicare le persone. Una persona, infatti, è più grande delle azioni malvagie che compie, perché non possiamo mai conoscere l’altro pienamente, non possiamo misurare fino in fondo la sua responsabilità. Il cristiano esamina e giudica tutto con le sue facoltà umane illuminate dalla luce dello Spirito santo, ma si arresta di fronte al mistero dell’altro e non pretende di poterlo giudicare: a Dio solo spetta il giudizio, che va rimesso a lui con timore e tremore, riconoscendo sempre che ciascuno di noi è peccatore, è debitore verso gli altri, solidale con i peccatori, bisognoso come tutti della misericordia di Dio.

Al discepolo spetta dunque – ecco le affermazioni in positivo – di perdonare e donare: per-donare è fare il dono per eccellenza, essendo il perdono il dono dei doni. Ancora una volta le parole di Gesù negano ogni possibile reciprocità tra noi umani: solo da Dio possiamo aspettarci la reciprocità! Il dono è l’azione di Dio e deve essere l’azione dei cristiani verso gli altri uomini e donne. Allora, nel giorno del giudizio, quel giudizio che compete solo a Dio, chi ha donato con abbondanza riceverà dal Signore un dono abbondante, come una misura di grano che è pigiata, colma e traboccante. L’abbondanza del donare oggi misura l’abbondanza del dono di Dio domani. La “differenza cristiana” è a caro prezzo ma, per grazia del Signore, è possibile.

http://www.monasterodibose.it

Un messaggio inaudito, sconvolgente, al di là di ogni logica! Eppure Gesù ce lo propone -anzi lo comanda!- nel Vangelo di oggi: “Amate i vostri nemici… fate del benebeneditepregate per coloro che vi maltrattano” (v. 27-28). Il comando è unico -amare e perdonare il nemico- che Gesù sottolinea con quattro verbi sinonimi. Questi comandi di Gesù nel suo discorso inaugurale non nascono da teorie, sono elementi autobiografici, momenti della vita di Gesù: Egli ha sperimentato l’amore e il perdono al nemico. Per questo ce ne ha dato anzitutto l’esempio, oltre all’invito a imitarlo. Basti pensare a Gesù che sulla croce prega il Padre per i suoi crocifissori: “Padre, perdonali…” (Lc 23,34). Gesù continua a farci scoprire il suo autoritratto. Aveva iniziato nel discorso programmatico delle Beatitudini (Vangelo di domenica scorsa), parlando di sé stesso: povero, perseguitato… Oggi Egli sviluppa lo stesso tema, mettendo in evidenza fino a che punto ha amato -e bisogna amare- i nemici.

Un messaggio impossibile, improponibile? Assolutamente sì, se non ci fossero l’esempio di Cristo, l’aiuto della sua grazia e la testimonianza di cristiani -più numerosi di quanto si conosca- che sono stati capaci di perdonare e di rispondere al male con il bene. Siamo di fronte ad una novità qualitativa del Vangelo, che supera i contenuti delle altre religioni. Infatti l’amore del nemico e il perdono non si riscontrano presso le culture dei popoli; sono autentiche novità missionarie del Vangelo. Il gesto di Davide che risparmia la vita del re Saul (I lettura) è certamente magnanimo, ma si limita a non fare del male al nemico. Gesù ci invita ad andare oltre: amate… fate del bene a coloro che vi odiano (v. 27). Va sottolineato il motivo per cui Davide compie il suo gesto di clemenza: rispettare il “consacrato del Signore” (v. 9.23). Ogni persona è immagine di Dio, anche se deturpata. Quindi, va rispettata!

Il messaggio di Gesù sull’amore e il perdono al nemico rivela il volto autentico di Dio: “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro” (v. 36). Sono parole da leggersi in parallelo con quelle di Matteo: “Siate perfetti, come il Padre…” (Mt 5,48). Però con una differenza e novità importanti: Matteo si rivolge ad un pubblico di giudeo-cristiani che avevano esperienza della legge e del suo compimento ‘perfetto’. Luca invece parla a persone provenienti dal mondo pagano e sceglie il termine ‘misericordia’ per designare il volto di Dio: Padre “ricco di misericordia” (Ef 2,4).

Gesù ha opposto un rifiuto totale, energico, alla violenza! Di qualunque tipo! Insegna a risolvere i conflitti con i metodi pacifici, nonviolenti: i metodi di Dio, amante della vita e della pace. Gesù non comanda di sentire ‘simpatia’ per chi ci fa del male, e neppure di ‘dimenticare’: due atteggiamenti psicologici ed emotivi che non dipendono da un atto di volontà. Il suo messaggio va oltre. Raccomanda il dialogo a varie istanze e non esclude neppure legittime sanzioni (Mt 18,15-17). Indica soprattutto cammini nuovi, quali il perdono e la preghiera: “pregate per coloro che vi maltrattano” (v. 28-30).

Con la preghiera l’uomo entra nel mondo di Dio, sintonizza con il modo di pensare e di agire di Dio; capisce che il Padre misericordioso non rifiuta mai nessuno e perdona tutti, sempre. “Perdonare” vuol dire “iper-donare”, donare di più, in eccedenza: cosa propria di Dio e di chi vive come Lui. L’uomo impara da Dio a perdonare e riceve da Lui la forza per farlo. Amare e perdonare il nemico sarebbero valori improponibili, se fossimo lasciati a noi stessi. Occorre un supplemento di energia, che solo Dio ci può dare. Perdonare è un dono che purifica il cuore e libera dall’aggressività; perdonare è una grazia che Dio dà a chi gliela chiede; perdonare è possibile per chi ha fatto prima l’esperienza dell’amore gratuito e universale di Dio. Lo dimostra la vita di tanti personaggi legati alla storia missionaria.

  • – A cominciare dal primo martire della Chiesa: il diacono Santo Stefano, a Gerusalemme, sottoposto a una grandinata di sassi, pregava in ginocchio per i suoi assassini (At 7,60).
  • – Agli inizi dell’evangelizzazione del Giappone, il gesuita S. Paolo Miki, mentre moriva crocifisso assieme a 25 compagni sulla collina di Nagasaki (1597), dichiarò: “Io volentieri perdono all’imperatore e a tutti i responsabili della mia morte, e li prego di volersi istruire intorno al battesimo cristiano”.
  • S. Giuseppina Bakhita, africana del Sudan, venduta cinque volte come schiava, alla fine della vita (1947) affermava di non aver mai conservato rancore verso quelli che le avevano fatto del male.
  • – La B. Clementina Anuarite, giovane suora congolese (24 anni), ebbe la forza di dire al capo dei ribelli ‘simba’ che la stava uccidendo (Isiro, 1964): “Io ti perdono”.
  • -La B. Leonella Sgorbati, italiana di 66 anni, missionaria della Consolata in Somalia, colpita a morte (2006) mentre andava a lavorare in ospedale, ripeté tre volte: “Perdono, perdono, perdono”.
  • – Ricordiamo tutti il gesto di perdono di S. Giovanni Paolo II verso il suo aggressore, Alì Agcà (1981).

Questi testimoni -ma anche tanti altri meno conosciuti- hanno scoperto la vetta delle Beatitudini: la forza, la gioia di perdonare!