In questa meditazione vogliamo riflettere sul cap. quarto di Marco, detto il « capitolo delle parabole ». Esso ne comprende principalmente tre:

1) La parabola del seminatore, con la spiegazione che segue;

2) La parabola del seme che cresce da solo;

3) La parabola del grano di senape.

Questi sembrano essere i tre elementi costituenti la più antica unità letteraria da cui si è sviluppato il cap. 4. In seguito sono state aggiunte altre due brevi parabole – quella della lucerna sotto il moggio e quella della misura -. evidentemente per raggrupparle tutte insieme.

Ci chiediamo: lungo l’itinerario dei Dodici con Gesù, a quale momento corrisponde l’insegnamento delle parabole? A quale problema intende venire incontro? Quale momento del cammino degli apostoli con il Signore, viene a segnare?

Sembra molto probabile che gli insegnamenti delle parabole del cap. 4 corrispondano ad un momento di crisi del ministero di Gesù. Occorre quindi:

A) prima di tutto, e brevemente, analizzare la crisi del ministero di Gesù ;”

B) vedere, poi, come essa si rifletta, e continui ad operare nella crisi del catecumeno che, nella Chiesa primitiva, legge questo Vangelo;

C) considerare come questa crisi può rispecchiarsi in noi;

D) infine, vedere in qual modo le parabole intendono dare un insegnamento e venire incontro a tale momento di crisi, momento necessario per la formazione dei Dodici nella sequela di Gesù.

a) Crisi del ministero galilaico di Gesù

Gli esegeti sono d’accordo nel ritenere che, dopo i primi momenti di successo, c’è stato nel ministero di Gesù un momento di crescente difficoltà. Questa difficoltà è accennata in varie parti di Marco. Dapprima si tratta di una difficoltà di rapporti con i suoi compaesani, annunciata in Me 6, 3ss, dove Gesù è respinto dai Nazaretani che si scandalizzano di Lui. Poi la cosa si allarga; non vale soltanto per Nazareth. Ad un certo momento Gesù è indotto a reazioni come questa: «… gemendo nel suo spirito disse: Perché questa generazione chiede un segno? In verità vi dico che non le sarà dato nessun segno … e se ne andò al di là del lago » (8, 12).

È chiaramente un momento di urto, quasi di ira del Cristo che non viene capito. Il suo messaggio non viene accolto e Gesù addirittura se ne va, si allontana.

Del resto neppure gli stessi apostoli lo capiscono a fondo e pochi versetti dopo, in un brano che abbiamo già letto, Gesù può ripetere amaramente: «Ma non capite, non intendete, siete accecati? Non avete più nella mente quando spezzai 5 pani per i cinquemila uomini, quante ceste piene di pezzi ne portaste via? ‘” ancora non intendete? » (8, 17-21).

Ciò vuol dire che Gesù non passa di trionfo in trionfo, ma piuttosto, dopo la prima grande ondata di entusiasmo, che è notata espressamente in 3, 7 dove si parla di « molta folla», di una grande massa di gente, gradualmente questo entusiasmo va calando per vari motivi.

Intanto è chiaro, da diverse espressioni di Gesù, che parecchia gente che lo segue non è della qualità che Gesù vuole; è gente che va dietro per motivi esteriori e non sa vedere in fondo alle cose. Questo spiega l’insistenza di Gesù: «Chi ha orecchi per intendere ascolti» (4, 9); perché è gente çhe non sa capire bene, è gente che vede e non intende, ascolta e non comprende e quindi non si converte e non viene perdonata. .

Gesù fatica a far capire il suo messaggio; la gente viene attirata all’inizio dai segni strepitosi, ma poi, quando si tratta di venire al dunque, parecchi si tirano indietro. Abbiamo così altre affermazioni – in capitoli seguenti – abbastanza negative e pessimistiche:

« … questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me » (7, 6).

Affermazioni più ampie, che si riferiscono a molti altri uditori, le abbiamo in 9, 19: «O generazioni incredule! Fino a quando sarò presso di voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? ». Esse indicano che Gesù, nel suo ministero, non aveva sempre consolazioni. 

Oppure la dura rampogna di 8, 38: «Chi si vergognerà di me e delle mie parole in mezzo a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui … ».

Assistiamo, dunque, a partire dalla une del cap. 3 di Marco, ad un declino del prestigio personale di Gesù. Egli viene gradualmente contestato e respinto, e già anzi in 3, 6 si comincia a volerlo togliere di mezzo. L’opposizione parte dai Farisei, ma poi si allarga alla gente semplice sino a diventare opposizione completa. Nella parabola dei vignaioli – Marco 12,1 ° – Gesù parla ormai di sé come della pietra che è respinta dai costruttori. Egli sente che la sua vita si avvia a terminare in un insuccesso, che essa viene rifiutata e respinta. Il rifiuto sarà gridato in 15, 14, quando Pilato chiederà cosa ha fatto di male, e la gente urlerà sempre più forte: crocifiggilo!

Il Vangelo di Marco, quindi, non tace per nulla che la via di Gesù, dopo un primo momento di entusiasmo e di successo, ha dovuto contrastare con una diffidenza crescente, con il distacco e l’allontanamento di parecchi, sempre più numerosi, sino ad essere completamente respinto dalla maggioranza della sua gente.

Tale esperienza i Dodici la condividono a partire dal giorno in cui, con entusiasmo, solenne, sono stati chiamati dalla folla per seguire Gesù. Essa si ripercuote nel Vangelo: anch’essi partecipano in maniera dolorosa alla crisi del ministero di Gesù. Quando Pietro, per esempio, in 8, 32 incomincia a rimproverare il Signore, mostra di soffrire veramente perché non può, non riesce a capire il senso delle cose che accadono, e lo fa presentando lui e tutti gli altri apostoli quasi dicessero: Ma così non va, non ti abbiamo seguito per questo, era altra la realtà che ci promettevi o almeno che sembravi promettere. Lo stesso sgomento si ritrova in 9, 32, quando Gesù parla della sua prossima Passione ed essi non capiscono nulla di quel discorso e hanno paura di interrogarlo.

Analogamente in lO, 32, quando Gesù: precedendoli va verso Gerusalemme. Essi. «Di ciò si meravigliano e avevano paura». Appare quindi chiaro che anche gli apostoli sono presi da un senso di sgomento e di disagio; stanno ancora con Lui, ma si domandano perché le cose vanno così, cosa sta succedendo; non si aspettavano questo.

b) La crisi del catecumeno nella Chiesa primitiva

Il catecumeno che legge questo Vangelo e trova in esso descritta la via che lo attende nella sequela del Signore, come sente in sé ripercossa la crisi che si è verificata nel ministero galilaico di Gesù?

Diciamo subito che anche il catecumeno, nella Chiesa primitiva, dopo aver risposto generosamete alla prima chiamata, analoga alla chiamata presso il lago, attraversa la sua crisi; crisi necessaria.

Quali sono le cause che creano la crisi del catecumeno, dopo il primo momento di entusiasmo? Possiamo immaginario facilmente pensando alla situazione del catecumeno che dal mondo pagano, ricco di tutta una sua tradizione, di una sua cultura, di una struttura sociale ben compaginata, entra nel piccolo gregge dei credenti in Cristo e si domanda: perché così pochi credono e si convertono? Perché questa parola di Dio – se è veramente parola di Dio – non travolge il mondo, non lo cambia in un baleno?

C’è poi la domanda che si ponevano con più dolore, amarezza e sgomento gli ebrei convertiti: perché il popolo non ha accettato la Parola? Perché non c’è una conversione in massa come ci aspettavamo dalle promesse? È il problema che angosciava anche san Paolo, il quale era continuamente tentato e agitato da questo pensiero: ma perché la parola di Dio se è parola di Dio – non cambia, non converte il cuore di tutto il popolo?

E per i giudei e per i pagani insieme, altri problemi che affiorano nelle lettere di Paolo: Perché un Messia crocifisso? Perché un messaggio così oscuro, così dolorante, così diverso da quello offerto dal nostro ambiente?

Vediamo quindi come, nella Chiesa primitiva, il catecumeno – dopo aver acconsentito alla sequela di Gesù – passa anch’egli attraverso una prova di fede, analoga a quella per la quale è passato Gesù stesso e sono passati gli apostoli. Essa consiste fondamentalmente nel domandarsi: ma perché la parola di Dio non sconvolge immediatamente il mondo, non lo trasforma subito?

c) La nostra crisi

Ecco, allora; che in questa luce possiamo riflettere sulle prove della nostra fede, quelle per le quali devono necessariamente passare tutti coloro che presso il lago o sul monte hanno sentito la chiamata e l’hanno ascoltata. Credo che le prove attraversate dalla nostra fede siano analoghe a quelle di Gesù, dei suoi, di coloro che erano con Gesù, dei cristiani primitivi e di tutti coloro che lo seguono.

Le domande che possiamo farei dal punto di vista personale sono: perché Dio non mi fa migliore? Perché dopo tanti anni di vita ascetica, di impegno, di preghiera, di meditazione, siamo sempre gli stessi, con gli stessi piccoli difetti, con le stesse piccole difficoltà, quasi fossimo agli inizi della vita spirituale?

Perché la parola di Dio non ei ha trasformato?

E poi, guardandoci attorno, ei possiamo chiedere: perché il Vangelo non cambia il mondo? Perché così poco frutto dal mio apostolato? Perché il nostro messaggio non è attraente, non ha un’immediata rispondenza nella gente, in modo da essere subito capito, assimilato e messo in pratica? Perché non c’è corrispondenza immediata tra la parola pastorale bene annunciata e la rispondenza della gente? Perché pastoralmente non è possibile programmare in modo da vedere presto una risposta che ci permetta di fare, in crescendo, un ulteriore programma con nuove risposte sempre migliori?

Altre domande ei vengono poi, in momenti particolari della vita, nei momenti drammatici: perché la sofferenza? Perché questa morte, lo stroncamento di un apostolato che produceva tanto frutto? Perché Dio sembra non aver bisogno di persone all’acme dell’attività e del rendimento?

Tutte situazioni nelle quali possiamo ripetere: Perché il Regno di Dio va così; perché non c’è un’immediata rispondenza tra potenza della Parola e sua attuazione?

Ecco alcune ripercussioni di questa perenne purificazione della fede che si attua nei Dodici, nella Chiesa primitiva e in ciascuno di noi.

d) La risposta in parabole

Vediamo ora, come quarto punto della nostra riflessione, in che modo il capitolo delle parabole risponde a questa situazione di crisi.

Le tre parabole – che hanno come protagonista comune il seme – ci danno, ciascuna con ‘un messaggio diverso, la risposta alla domanda fondamentale: perché la parola di Dio non fa frutto subito e non trasforma il mondo, non trasforma gli altri, me stesso, ecc.

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La prima parabola, quella del seminatore, è portatrice, in sostanza, di questo insegnamento: la parola di Dio non fa frutto automaticamente.

La parola di Dio di per sé, è buona e, se presentata bene, farebbe frutto; ma esso non dipende solo dalla parola, dipende anche dalle diverse situazioni del terreno, dalle diverse risposte. Questo è un punto essenziale del mistero del Regno di Dio, il quale non è un mistero da interpretare secondo categorie di efficienza. Si pongono, cioè, in opera un certo numero di mezzi e si ottengono adeguati risultati. Esso è un mistero di dialogo in cui viene fatta una proposta che può essere accettata o trascurata e appena considerata o respinta. È un mistero che gli apostoli sono chiamati a vivere stando con il Signore. Verificare, giorno per giorno, che il Regno di Dio va avanti attraverso questa umile proposta, la quale, proprio perché è proposta, ha in sé insito tutto il rischio della negligenza, trascuranza, non accettazione, opposizione. E gli apostoli devono vivere con Gesù questo mistero dell’umiltà del seme del Regno, il quale, pur essendo parola di Dio, – e quindi la cosa più perfetta, più santa e più strapotente che esista – si adatta ad essere accolta dalle pietre, dalle spine, dal terreno sbagliato e accetta tali situazioni nelle quali non può fare frutto.

Potremmo forse domandarci, con la Chiesa primitiva,. nella spiegazione più ampia della parabola del seminatore, quali sono le situazioni che impediscono di fare frutto.

La parabola ne elenca tre: il seme che viene mangiato dagli uccelli, quello che cade tra le pietre e non ha radici, quello che cade tra le spine e che viene soffocato. Vengono notate le tre grandi difficoltà nelle quali incorre continuamente la predicazione evangelica che, pur essendo santa, buona e presentata pastoralmente bene, spesso non fa frutto.

a) La prima difficoltà – il seme divorato dagli uccelli – viene spiegata con la menzione di satana:

« Subito satana viene e toglie la parola seminata in loro ». Cosa significa questa venuta di satana? Se noi ci riferiamo alla figura di satana, in altri passi di Marco, per es. quando Pietro in 8, 33 viene rimproverato da Gesù, vediamo che satana porta nel cuore l’incomprensione delle vie di Dio. L’incapacità a comprendere la via della croce e, quindi, il desiderio del crescente successo. Il catecumeno, che accetta il cristianesimo come un modo di essere di più, di valere di più, di avere più prestigio, più autorità è come il seme mangiato dagli uccelli. Dovrà accorgersi che la via non è quella, che ha sbagliato strada, e tornare indietro.

b) La seconda difficoltà – il seme senza radici descrive la situazione nella quale la parola è stata accettata solo esteriormente. È stata accolta per un certo gusto estetico della parola stessa, per una certa forma di snobbismo, forse, non è stata accolta con quella profondità di adesione a Cristo, con quell’amore personale per Lui che soltanto permette di conservarla, senza scandalizzarsi di Lui. Questo radicarsi in Cristo (di cui parla san Paolo in Col 2, 7) potrebbe essere il modo con cui la Chiesa primitiva spiegava le sue radici: bisogna essere profondamente radica ti in Lui e nell’amore di Lui per poter fare della ricerca di Lui non la moda del momento, ma un qualcosa di permanente e di profondo, che non tema lo scandalo.

c) La terza difficoltà – il seme soffocato – è di moltissimi. Le preoccupazioni della vita presente, l’attrazione esercitata dall’avere, dal potere, dal possedere. Per moltissimi la preoccupazione del guadagnare è ostacolo alla parola stessa. Tali preoccupazioni della vita presente hanno d’altronde una applicazione molto vasta, se pensiamo che nel rimprovero fatto a Marta, che pure si stava occupando del pasto di Gesù, ritorna la stessa parola: «Marta, ti preoccupi di troppe cose» (Lc 10, 41). Il giudizio, quindi, sull’influsso negativo delle preoccupazioni eccessive – se vogliamo dare veramente senso e valore alle parole usate da Gesù – è molto severo.

In conclusione, la parola non fa frutto automaticamente ma umilmente e, pur essendo divina, si adatta alle condizioni del terreno, o meglio, accetta le risposte che il terreno dà e che spesso -sono negative. Casi Gesù, spiega agli apostoli perché Lui predica e la sua parola non è efficace. Non è, in realtà, inefficace la sua parola, ma è l’accoglienza che manca. Questa parabola vuole essere la giustificazione di Gesù di fronte ai suoi, che vorrebbero un suo maggiore, quasi automatico, successo.

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La seconda parabola – il seme che cresce da solo – è, come spesso avviene nel Vangelo, in certo mqdo il rovescio della precedente. La prima ci ha detto che la parabola non fa frutto da sola; qui, al contrario, si afferma: «spontaneamente» da sola (4, 28).

Vuole dire agli apostoli, che temono perché la parola è respinta, che la parola fa frutto a suo tempo Bisogna avere fiducia, perché la parola seminata va avanti da sola. Buttatela quindi con coraggio, non tenetevi indietro dicendo che il terreno non va e bisogna aspettare condizioni migliori, non crediate di essere voi i padroni della parola. Voi sparge tela e poi andate pure a dormire; non pensateci più, ed essa da sola porterà frutto.

Mentre la prima parola esprime un insegnamento di realismo, questa ci presenta un insegnamento di fiducia assoluta che la parola, da sola, fruttificherà.

Basta seminarla con coraggio, con pazienza e con perseveranza.

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La terza parabola – quella del granello di senape – è anch’essa adattata a questa situazione.

Gli apostoli che sono attorno a Gesù vedono, ad un certo punto, che il loro gruppo rimane un piccolo gruppo, non si sviluppa, molta gente non prende seriamente il Maestro. Ed egli risponde ai loro muti interrogativi con la parola del grano di senapa, del piccolo seme. Non abbiate paura – dice – il Regno di Dio comincia con poco. Non vogliate pretendere chissà quali risultati; lasciate che le cose si sviluppino gradualmente: da piccoli semi, da invisibili inizi, nascerà il grande successo del Regno di Dio.

Gesù chiede, in sostanza, agli apostoli una cambiale in bianco; chiede fiducia assoluta in Lui: venitemi dietro! Voi vedete che le cose non vanno bene, vi immaginavate di avere un Maestro trascinatore di folle, vedete invece che non lo sono. Questo non dipende da me, dipende dal fatto che il Regno ha la struttura di proposta di una persona ad un’altra persona; però il Regno di Dio è potenza di Dio e quindi si sviluppa certamente. Dal poco, Dio produrrà il molto; dal pochissimo, si svilupperanno cose immense.

Gesù educa i suoi – e la Chiesa primitiva ripete questo insegnamento ai catecumeni – a chiudere gli occhi su ciò che sembra realtà perché si vede e ad aprirli su ciò che è; cioè, sulla realtà misteriosa del Regno di Dio che sta fruttificando silenziosamente, mentre noi non ce ne accorgiamo, e darà frutto a suo tempo.