
L’itinerario spirituale dei Dodici
card. Carlo M. Martini
Seconda meditazione
L’ignoranza dei discepoli
La meditazione che intendo proporre vuole aiutarci nell’approfondimento del senso della penitenza. Chiediamo, quindi, al Signore la grazia di purificazione interiormente.
Come appare, nel Vangelo di Marco, questa esperienza di purif1.cazione? Utilizziamo uno dei passi fondamentali in cui Marco, al capitolo quarto, vuol fare comprendere il mistero del Regno: «A voi è dato il mistero del Regno; a quelli di fuori tutto avviene in parabole» (4, 11).
Lo scopo di tutta la catechesi marciana è di far passare da una situazione al di fuori, in cui il mistero del Regno appare da angolature sociologiche o fenomenologiche, ma non è colto nella sua sostanza, alla situazione al di dentro.
Nel Nuovo Testamento ricorre spesso l’espressione al di fuori per indicare chi non partecipa alla conoscenza interiore del mistero del Regno, cioè della fede, come per esempio i pagani. Per esempio: nella prima lettera ai Corinti, parlando ‘dei giudizi che devono aversi all’interno della comunità, Paolo dice: « ‘” tocca forse a me giudicare quelli di fuori? … » (1 Cor 5, 12-13); e ancora, nella lettera ai Colossesi: «Camminate nella sapienza per riguardo a quelli di fuori» (Col 4, 5); cioè, a quelli che non partecipano al dono del Vangelo e stanno a vedere, e vi guardano giudicandovi da un punto di vista esteriore. Nella prima lettera ai Tessalonicesi, poi, troviamo: «… affinché camminiate in maniera degna, per riguardo a quelli di fuori» (1 Ts 4, 12).
L’espressione è, quindi, abbastanza nota nel Nuovo Testamento e designa la categoria di coloro che non hanno ancora capito il mistero del Regno. Oggi essa comprende non solo i non battezzati, ma, di fatto, tutti coloro per i quali i misteri del Regno di Dio e della Chiesa sono ancora qualcosa di esteriore a cui non si partecipa dall’interno, con cui non ci si identifica, al punto che tutto appare enigmatico. Si vede la Chiesa fare certe cose, compiere certe azioni sacre o agire in determinati modi, ma tutto sembra come una grande parata di cui non si capisce il significato.
Bisogna allora entrare con coraggio all’interno di questo mistero per identificarsi con esso. Ecco la via catecumenale: da un di fuori in cui i segni appaiono enigmatici, verso un interno in cui essi si identificano con la realtà. Questa via è appunto descritta al capitolo quarto in cui si cita un passo dell’Antico Testamento: «Affinché vedendo non vedano, ascoltando non odano, per paura che si convertano e venga loro perdonato» (Mc 4, 12: cito 1s 6, 9-10).
Si è discusso a l,ungo su questo versetto per indicare se è mai possibile che ci sia, da parte di Dio, una volontà di non farsi capire. In realtà si tratta di un modo espressivo per dire cosa succede a chi chiude gli occhi, ed è un versetto molto istruttivo se lo rovesciamo cogliendone l’aspetto positivo, Cioè se ci chiediamo: qual è la via del catecumeno? È la via di colui che vuole aprire gli occhi così da vedere. Molti guardano le cose della Chiesa, ma non le vedono, non ne capiscono il senso. Molti, oggi in posizione di critica verso la Chiesa, sono spesso nell’atteggiamento del “guardare e non vedere, dell’ascoltare e non intendere. Bisogna, .invece, passare dal guardare al capire, dall’ascoltare al comprendere, in modo da convertirsi ed avere il perdono. Ecco la via positiva che le parole del V. 12 esprimono.
E si comprende meglio questo, quando si medita il ripetuto invito, nel Vangelo di Marco, ad aprire gli occhi, ad ascoltare e a comprendere. Possiamo, così, dedicare questa meditazione all’ignoranza del discepolo.
San Marco suppone che il punto di partenza della via catecumenale – e per gli stessi Dodici della loro intimità con Gesù – sia una riconosciuta situazione di ignoranza: di un non sapere e non capire, di un non vederci chiaro. Questa attitudine di ignoranza viene più volte ricordata da Gesù ai suoi discepoli, perché si convincano che non hanno ancora veramente visto né capito. Egli ribadisce che è necessario uscire da una tale situazione di sufficienza e mettersi invece in un atteggiamento di riconosciuta ed umile ignoranza, disposta ed attenta all’ascolto.
Ci sono dunque nella prima parte di Marco diversi accenni all’ignoranza del discepolo. Essa è supposta come il normale punto di partenza della catechesi; per i Dodici, poi, sarà il punto al quale si salderà, ad un certo momento, la chiamata di Gesù.
Nel capitolo quarto, oltre al già citato v. 12, abbiamo il v. 23 con l’invito: «Se qualcuno ha orecchi per intendere ascolti ». Al V. 24: «Guardate bene ciò che udite », e al v. 40: «Perché tanta paura? non avete ancora fede? »; cioè: Non intuite ancora? Vedremo poi, quanto il capitolo quarto sia fondamentale, perché segna un passo avanti nella conoscenza di Gesù.
Nel capitolo sesto ritorna lo stesso rimprovero: «Non avevano capito riguardo ai pani, essendo il loro cuore indurito» (6, 52).
Altro brano di insistenza sull’ignoranza del discepolo è al capitolo ottavo: «Perché state discutendo che non avete pane? Ancora non capite, non intendete (in greco letteralmente: non avete mente)? Avete il cuore indurito? Avendo occhi non vedete, avendo orecchi non udite? e non vi ricordate … » (8, 17). Ci sono presentati 5 rimproveri successivi che passano in rassegna tutti i sensi dell’uomo per fare intendere agli interlocutori che non hanno capito assolutamente niente.
E finalmente al capitolo nono troviamo l’ultimo brano riguardante l’incomprensione: «Ma questi non capivano la parola e avevano paura di interrogarlo » (9, 32).
Ecco dunque il punto di partenza per il cammino catecumenale. Tale stadio, anzi, accompagna per qualche tempo questo itinerario ed è caratterizzato dalla situazione di essere in qualche modo con l’animo ancora al di fuori del centro del messaggio; di intuire confusamente qualcosa, ma di non avere ancora capito il mistero. « A voi è dato il mistero … »(4, 11s); Ma questo mistero non viene inteso, non viene capito fino in fondo finché non si è percorso tutto il cammino che è segnato dal Vangelo di Marco. Dal capitolo quarto al capitolo nono si sottolinea che si è ancora molto indietro in questa strada.
È un atteggiamento che dovremmo suscitare in noi ogni volta che ci mettiamo di fronte al mistero di Dio. Dovremmo poter dire: ‘quanto poco conosciamo del mistero di Dio’. Perché è soltanto con questo atteggiamento che possiamo metterci in attentissimo ed umile ascolto, pronti a percepire ciò che Dio vuole comunicarci.
Il primo punto allora è il seguente: il Vangelo di Marco suppone, per un serio cammino catecumenale e per una vera sequela dei Dodici nei riguardi di Gesù, che si parta dalla constatazione dello stato di una certa ignoranza e incomprensione teorica e pratica del mistero di Dio.
Il secondo punto di questa meditazione vuole rispondere alla domanda: in che cosa consiste concretamente questa ignoranza? Dove si esplica negli apostoli, nei discepoli?
Occorre leggere tutto il Vangelo di Marco e vedere dove e come tale ignoranza affiora. Tra i vari passi che si potrebbero proporre ne ho ‘Scelti alcuni, tenendo presente che il Vangelo di Marco viene letto in una situazione di istruzione catecumenale. Ogni episodio di Marco in fondo, ha lo scopo, soprattutto nella prima parte di stigmatizzare l’ignoranza del discepolo e fargli capire cosa non va in lui affinché se ne avveda e cerchi di correggersi. Tutta la prima parte, quindi, ha uno scopo penitenziale. I passi che ora leggiamo contengono tutti un rimprovero di Gesù, rimprovero diretto o indiretto. Da essi si vede che viene sempre rimproverata al discepolo una situazione di nescienza e di incomprensione.
Nel capitolo secondo ci imbattiamo nell’episodio degli apostoli che stanno cogliendo le spighe di grano di sabato.
Che cosa viene stigmatizzato in esso? Ciò che si potrebbe chiamare l’ignoranza della vera libertà dei fio gli di Dio. « Non avete letto ciò che fece Davide quando era in necessità, come entrò nella casa di Dio e mangiò i pani della proposizione» (2, 25-26). Si tratta chiaramente di un rimprovero di Gesù: non avete letto le Scritture? non le capite? È condannato l’atteggiamento tipico di chi sta facendo faticosamente il passo dal di fuori verso il centro del mistero, ma continua ad attaccarsi alle leggi, alle norme, alle convenzioni, alle consuetudini come se fossero qualcosa di estremamente importante. Il catecumeno pagano era molto tentato di fare questo: di legarsi, cioè, a norme e leggi, quasi che in esse soltanto potesse salvarsi.
Gesù fa intendere che chi possiede questo atteggiamento di rigidità non ha ancora capito il mistero del Regno. Perché il mistero del Regno non si rivela davanti ad un tale attaccamento alle esteriorità legali, Gesù le rimprovera come un difetto ed. un errore, facendo notare che Davide era diverso e sapeva rendersi conto di ciò che era importante e di ciò che era accessorio, avendo egli superato lo stadio di una esteriore legalità.
Si attua in questo passo una profonda educazione degli apostoli esortati ad andare al di là di quella che è l’esteriorità del fenomeno, al di là di una pura legalità.
Un secondo rimprovero di Gesù lo troviamo, subito dopo, nel capitolo terzo. È un forte rimprovero; Gesù guarda intorno a sé con ira, profondamente rattristato per l’accecamento del loro cuore (3, 5).
Cosa suscita qui l’ira di Gesù? È la situazione dei farisei che gli stanno intorno nella sinagoga, mentre Egli si appresta a guarire di sabato un uomo. Essi non osano rispondere al quesito: «È lecito nel sabato fare del bene o del male? » (3, 4).
Si tratta di gente colta, venuta a spiarlo, e che sta lì a guardare, in posizione di critica; gente che non osa buttarsi; gente che non osa dire una parola per paura di compromettersi. E il Signore rigetta la paura dell’impegno. Questo è un atteggiamento comune a parecchi cristiani di oggi: lo stare a guardare la Chiesa, il Cristo, le cose della Chiesa, dal di fuori, pronti a giudicare, a programmare” forse, ma senza tuttavia buttarsi dentro e impegnarsi. È l’atteggiamento di comoda sufficienza critica di chi non vuole pagare di persona; di chi – anche battezzato – sta col cuore al di fuori; di chi giudica dall’alto la Chiesa, le persone di chiesa e il loro modo di agire, dicendo che non fanno come dovrebbero, ma che non vuole buttarsi dentro con il rischio di sbagliare.
Un tale atteggiamento suscita l’ira di Gesù e il suo profondo dolore, perché esprime il fatto che si discute, si disserta sul Regno di Dio in maniera anche dotta, in maniera apparentemente prudente, ma si ha paura a sporcarsi le mani, a buttarsi nella mischia.
Un atteggiamento successivo stigmatizzato da Marco lo troviamo nel medesimo capitolo terzo. Qui la situazione è capovolta, perché sono gli altri, che rimproverano Gesù. È una situazione paradossale, ironica, nella quale Marco vuol fare vedere a che punto si arriva quando si critica lo stesso Gesù. Perché? Vengono i suoi e vogliono prenderlo dicendo: «È fuori di sé» (3, 21). Altro atteggiamento tipico di chi crede di essere dentro al mistero, ma ne è ancora fuori.
È la paura di fare la fine di Gesù, cioè, di essere chiamati fanatici.
Molti vorrebbero avvicinarsi al mistero cristiano, parteciparvi in parte, ma non troppo, per la paura che la gente dica: ‘è matto’. In realtà non si vuole partecipare fino in fondo al mistero di Gesù, e questa paura non è rara anche all’interno della Chiesa stessa. Molti di noi vorremmo vivere il cristianesimo in un modo tale che la gente non pensi che siamo diversi, un po’ strani, che ci siamo esposti troppo, che in qualche ambiente non si dica che siamo dei fanatici.
Certamente non dobbiamo essere dei fanatici, ma tuttavia non dobbiamo aver paura che altri lo pensino; dobbiamo essere prudenti, equilibrati, discreti, ma non dobbiamo preoccuparci troppo che gli altri ci ritengano tali. Perché sarà difficile, se prendiamo il Vangelo alla lettera, che ad un certo punto qualcuno non dica di noi: ‘è fuori di sé, fa troppo, se la prende troppo’; dal momento che questa è stata la sorte di Gesù.
Un altro atteggiamento presentato come un errato punto di partenza per un itinerario catecumenale, lo troviamo descritto ampiamente nel capitolo quarto. In forma parabolica ed enigmatica nei VV. 4-7, dove si parla del seme mangiato dagli uccelli, calpestato sulla strada, soffocato dalle spine; spiegato poi nei vv. 14-19 attraverso le diverse applicazioni: il diavolo, le persecuzioni, i troppi affanni ed impegni. Vorrei qui insistere soprattutto su quanto ha origine nel cuore dell’uomo; cioè, i troppi affannosi impegni e le molteplici preoccupazioni.
Tutto ciò è indicato come una delle cause dell’impossibilità di comprendere la parola, e dell’incapacità di penetrare il mistero. Lo sappiamo per esperienza: questa è una delle cause più frequenti per cui gli uomini – anche i cristiani di una certa bontà d’animo – non arrivano a superare l’esteriorità. Presi da molte cose, invischiati in un continuo succedersi di eventi esteriori, sono incapaci di arrivare al cuore della realtà.
Questi sono gli atteggiamenti che colui il quale inizia la via della conoscenza di Gesù è chiamato a superare. E non dimentichiamo che le spine delle continue preoccupazioni – merimnai, come dice il testo greco – cioè delle angustie del momento presente, possono operare in qualunque situazione, in qualunque momento, anche quando si è molto avanti nella vita dello spirito e della conoscenza di Cristo.
L’accumularsi di preoccupazioni esteriori è il più grave pericolo nel quale possiamo incorrere, perché può veramente, ad ogni momento, soffocare ed ottundere lo spirito.
Un altro atteggiamento riprovato dal Signore lo trovo nel medesimo capitolo quarto: «Guardate ciò che ascoltate. Con quella misura con cui misurate sarà misurato a voi e vi sarà dato» (4, 24). È l’atteggiamento del cuore angusto, del cuore che non si apre; dà poco e allora poco riceve; del cuore che chiede al Vangelo quel tanto che basta e quindi riceve molto poco. Un chiudersi nel proprio limite, che qualche volta può diventare regola di vita: fare il meno possibile, accontentarsi di tutto ciò che ci mette al riparo dal troppo impegno, dalle esigenze di Dio; scegliere la mediocrità che conduce ad un vicolo cieco.
Un’ultima serie di rimproveri, di atteggiamenti da evitare perché rendono incapaci di conoscere il mistero, l’abbiamo infine nel capitolo settimo che è una piccola somma della catechesi morale della Chiesa primitiva: «… È dall’interno, cioè dal cuore degli uomini, che escono i pensieri cattivi: fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, frodi, lascivie, occhio cattivo, maldicenze, credere di essere qualcosa, stoltezza. Tutte queste cose cattive escono dall’interno e contaminano l’uomo» (7, 21-23). Questi versetti enumerano molti vizi e peccati.
Innanzitutto c’è l’affermazione evangelica fondamentale: è dall’uomo, dal suo interno che queste cose nascono e, di conseguenza, è soprattutto l’interno che occorre rinnovare; il problema non è solo della società, della struttura, del sistema, ma del cuore dell’uomo da cui tutto procede.
In secondo luogo va notato che oltre i peccati grossolani che parrebbero riguardare un peccatore che vuole convertirsi e non noi, ci sono degli atteggiamenti raffinati che vale la pena di considerare. C’è ad esempio, quello che viene chiamato l’occhio cattivo (ophtalmos poneros). Non è facile, a prima lettura, dire cosa si intende con occhio cattivo. Ma anche Matteo nella parabola dei lavoratori della vigna parla di occhio cattivo: «Non mi è permesso di fare ciò che voglio del mio? Ovvero l’occhio tuo è cattivo perché io sono buono? » (Mt 20,15). Possiamo forse concludere che venga stigmatizzato un atteggiamento di invidia e quasi di critica dei disegni di Dio.
Noi ci affatichiamo tanto e poi Dio, al di fuori di ciò che noi abbiamo fatto, opera cose migliori e più belle; per esempio: nei protestanti e nei pagani. Questo talora ci sconcerta, e suscita in noi un senso di smarrimento davanti al mistero di Dio: ‘Ma come, noi abbiamo tanto lavorato, operato e forse le persone migliori ci sono sfuggite! ‘.
Un ulteriore atteggiamento da respingere è indicato nella stoltezza (aphrosyne): è l’ultimo della serie precedente che, come abbiamo detto, costituisce una sorta di summula del catecumeno. Ci sono tanti modi di stoltezza, ma ci sembra di coglierne due che sono specificamente enunciati in due passi del Vangelo di Luca.
Al capitolo undicesimo, sono chiamati ‘stolti’ i farisei che purificano l’esterno del bicchiere e non si curano dell’interno che è pieno di furto e di cattiveria: «Stolti! Colui che ha fatto l’esterno non ha fatto anche l’interno? » (Le 11, 40). Stoltezza, in questo caso, è ogni incoerenza che si preoccupa degli atteggiamenti esteriori, che potendo essere visti, mettono in cattiva luce; mentre non ci si preoccupa degli atteggiamenti interiori.
Essa è una situazione nella quale è possibile essere coinvolti, perché è facile ritenere importanti quelle cose di cui tutti si preoccupano, e invece trascurare quelle cose che sono poco pubblicizzate o reclamizzate, ma che, davanti a Dio sono più serie e gravi.
Un’altra stoltezza (aphrosyne) la troviamo rimproverata al capitolo dodicesimo di Luca, al termine della parabola del ricco stolto, il quale, avendo un grande raccolto, pensa di organizzarsi costruendo un granaio. Il Signore gli dice: «Stolto (aphron)! questa notte chiedono da te la tua anima! » (Le 12, 20).
Viene qui stigmatizzato l’atteggiamento del dare troppa importanza alle cose esteriori. Ognuno di noi deve, nella vita realizzare delle cose esteriori: fare, costruire, amministrare… Bisognerebbe – ci dice il Vangelo – compiere tutte queste cose con l’indice o col dito mignolo della mano sinistra; perché anche se esse coinvolgono responsabilità, impegni, persone, il Regno di Dio è la cosa più importante. Tutto il resto vale ed aiuta, ma può esserci o non esserci; oggi c’è e domani viene distrutto. Basta un niente per dissolvere un’opera esteriore; invece ciò che conta è l’interiore adesione al Regno. .
Ancora un’indicazione, nella medesima serie, è la hyperephania: cioè quell’atteggiamento che – ci dice la Madonna nel Magnificat (Lc 1, 51) – Dio ha respinto: il credere di essere qualcuno. L’atteggiamento di superbia, che impedisce la conoscenza del Regno e rende ottusi alla intuizione della verità profonda del Vangelo.
Abbiamo delineato, attraverso sei testi di Marco, un quadro del come il catecumeno – nella Chiesa primitiva – veniva esortato ad esaminarsi, a confrontarsi con la sua realtà di peccato, per comprendere le radici della sua ignoranza del Regno. A questa ignoranza, riconosciuta ed umilmente accettata e confessata, Gesù porta una notizia buona e strabiliante. Tale lieto annunzio – ci dice Marco nei primi due capitoli – è soprattutto rivolto ai malati; a quelli, cioè, che si riconoscono affetti, in un modo o nell’altro, da qualunque di queste debolezze., Condizione essenziale, quindi, per riceverlo, è riconoscersi coinvolti in qualcuna di queste difficoltà. Altrimenti non si può essere in grado di ascoltare il Vangelo. Gesù dice: «Non hanno bisogno del medico i sani, ma quelli che stanno male; non vengo a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Me 2, 17).
Mentre da una parte questa situazione di ignoranza, di incompiutezza e di inadeguatezza del discepolo gli impedisce di capire il mistero del Regno, dall’altra parte il riconoscerla umilmente gli permette di ascoltare la parola del medico Gesù.
Il male ha dunque il rimedio. Il riconoscersi bisognosi è già passo necéssario verso la Parola. Nella prospettiva dell’educazione del catecumeno si comprendono, quindi, i primi due capitoli di Marco che mostrano Gesù abbondantemente occupato con i malati. Gesù il grande medico, Gesù che non trascura nessuna malattia, che non rifugge di fronte ad alcun limite dell’uomo. Questi versetti dovevano riempire di consolazione il catecumeno incerto e titubante dal momento che rivelavano la figura di Gesù-medico-universale, pronto a venire incontro a qualunque genere di malattia, di oppressione, di difficoltà. Marco dice: è venuto proprio per questo.
Si attua già qui il primo incontro tra il catecumeno che si riconosce ignorante e distante dal Regno e la figura di Gesù medico, il quale non gli dice ancora cosa dovrà fare, ma gli annunzia che è venuto proprio per guarirlo. Il confronto fra il catecumeno e il suo Signore prelude all’intimità della chiamata di Gesù.