In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca. Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». (…) Riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». (…) Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini».
(Letture: Isaia 6,1-2,3-8; Salmo 137; 1 Corinzi 15,1-11; Luca 5,1-11)

Siamo sempre agli inizi della predicazione e dell’attività di Gesù e anche Luca colloca in questo esordio del ministero pubblico del profeta di Galilea la chiamata dei primi discepoli. Rispetto però al vangelo secondo Marco (cf. Mc 1,16-20), ripreso negli stessi termini da Matteo (cf. Mt 4,18-22), Luca dà una lettura più teologica della vocazione. Il racconto si arricchisce di particolari, è espresso con un’ottica diversa, sicché già qui vi è un messaggio che riguarda la teologia della chiesa.

Gesù svolgeva il suo ministero soprattutto nelle città e nelle campagne attorno al lago di Tiberiade (o di Gennesaret), quale profeta continuava a dispensare la parola di Dio ad ascoltatori che aumentavano ogni giorno, fino a diventare una vera e propria folla che faceva ressa, premendo per stargli vicino e raccogliere le sue parole. In quella calca, Gesù vede due barche ormeggiate sulla spiaggia, perché i pescatori erano scesi e stavano pulendo le reti dai detriti risaliti dalle acque del lago insieme ai pesci. Pensa allora di salire su una delle due barche, quella appartenente a Simone, e lo prega di allontanare un po’ la barca da riva, così da farne una sorta di ambone da cui proclamare la parola di Dio. La scena è di per sé eloquente: Gesù “parla la Parola” e come seme la getta verso terra (la spiaggia) nel cuore degli ascoltatori lì radunati (cf. Lc 8,4-15); ciò che nella sinagoga è un ambone solenne, una cattedra, qui è la barca di Simone…

Non appena ha terminato quell’omelia, quell’insegnamento, Gesù passa dalle parole all’evento: chiede a Simone di “prendere il largo” (“Duc in altum!”, nella Vulgata) – cioè di abbandonare con coraggio e speranza le acque quiete dell’insenatura per inoltrarsi in mare aperto – e di gettare le reti in mare. Simone è un pescatore esperto, per tutta la notte ha tentato la pesca senza ottenere risultati. Tuttavia quel Gesù che ha parlato lo ha impressionato per la sua exousía; è un uomo affidabile – pensa –, che merita obbedienza, dunque gli risponde: “Maestro, … sulla tua parola getterò le reti”. Eccolo dunque avanzare verso le acque profonde, verso l’abisso (eis tò báthos), senza timore, munito solo della fiducia nella parola di quel profeta.

Il risultato è immediato, sbalorditivo: “Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare”. Da dove viene questo successo, se per tutta la notte questi uomini hanno faticato invano? Dalla fede-fiducia nella parola di Gesù! C’è qui una profezia per ogni “uscita”, per ogni missione della chiesa: deve essere sempre fatta su indicazione di Gesù, va eseguita con fede piena nelle sua parola, altrimenti risulterà sterile e inutile. Non era bastata la loro competenza di pescatori, non era risultata feconda la loro fatica, ma tutto muta se è Gesù a chiedere, a guidare, ad accompagnare la missione.

Questo segno stupisce Simone, che subito cade ai piedi di Gesù in atto di adorazione; nello stesso tempo, percependosi nella condizione di uomo peccatore, chiede a Gesù di stare lontano da lui. Accade cioè nel cuore di Pietro la rivelazione che in Gesù c’è la santità, che Gesù è il Kýrios, il Signore, mentre egli è solo un misero, un peccatore, indegno di tale relazione con Gesù. È la stessa reazione di Isaia quando nel tempio “vede il Signore” (cf. Is 6,1) e si sente costretto a gridare: “Guai a me, uomo dalle labbra impure!” (Is  6,8; Is  6,1-2a.3-8 è la prima lettura di questa domenica); è la reazione di tanti profeti che hanno visto Dio entrare nelle loro vite, attraverso teofanie, manifestazioni grandiose di Dio stesso. Qui c’è Gesù, un uomo, un profeta su una barca, eppure Pietro ha compreso la sua identità: Gesù è “il Santo di Dio” – come Pietro stesso confessa esplicitamente altrove (Gv 6,69) –, mentre egli è un peccatore e dovrà sentirsi tale per tutta la vita, in tante occasioni. E quando dimenticherà di essere peccatore, il canto del gallo glielo ricorderà: il gallo canterà tre volte, così come lui tre volte aveva gravemente peccato, dicendo di non avere mai conosciuto né avuto rapporti con l’uomo (cf. Lc 22,54-62) di cui qui riconosce la santità e che più tardi confesserà “Messia di Dio” (Lc  9,20).

Stupore e tremore per Pietro, dunque, ma anche per i suoi compagni, di cui ora Luca svela i nomi: Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo. Si intravede già quel gruppetto di tre che saranno i più vicini a Gesù: erano discepoli amati, non prediletti, non amati più degli altri, perché l’amore, quando è vivo ed è in azione, non è mai uguale nel manifestarsi. Certo, amati da Gesù come gli altri, ma partecipi all’intimità della sua vita in modo diverso, poiché muniti di doni diversi rispetto agli altri: non a caso saranno scelti da Gesù quali testimoni della resurrezione della figlia di Giairo (cf. Lc 8,51-55), testimoni della gloriosa trasfigurazione dell’aspetto di Gesù sull’altro monte (cf. Lc 9,28-29), testimone della sua de-figurante passione nel giardino degli Ulivi (secondo Mc 14,33 e Mt 26,37). Saranno coinvolti con Gesù nella sua gloria e nella sua miseria, dunque sempre in ansia, sempre chiamati alla vigilanza, di cui non sono capaci (cf. Lc 22,45-46 e par.), sempre chiamati a una fedeltà che però viene meno, a causa del rinnegamento (cf. Lc 22,54-62) o della fuga (cf. Mc 14,50; Mt 26,56).

Secondo Luca qui Gesù consegna a Pietro la vocazione: “Non temere, d’ora in poi tu prenderai, catturerai vivi degli uomini”. Ovvero, “d’ora in poi è tuo compito andare negli abissi, al largo, per salvare uomini preda del male, per salvarli da abissi infernali, da strade perdute. I pesci muoiono, gli uomini sono invece destinati alla vita eterna!”. Non si pensi subito alla missione come a un causare la conversione, ma a un annuncio di salvezza, quello che Gesù aveva illustrato di sé nella sinagoga di Nazaret, leggendo un brano del profeta Isaia e dichiarando realizzata quella profezia: liberare i prigionieri, ridare la vista ai ciechi, redimere gli oppressi, annunciare ai poveri la buna notizia del Vangelo (cf. Lc 4,16-21; Is 61,1-2). La chiesa, quando va in missione, non va innanzitutto per fare cristiani, per aumentare il numero dei suoi membri, per battezzare, ma in primis per un’azione di liberazione dei bisognosi. Se fa questo, annuncerà il Signore Gesù e, se Dio vorrà, ci saranno conversioni e partecipazione ecclesiale. Attenzione però a non capovolgere la realtà determinata dal Signore, cercando risultati, opere visibili delle nostre mani.

Ecco allora avvenire il mutamento decisivo: “Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”.

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Dopo la solenne presentazione di Gesù nella sinagoga di Nazareth e il suo rifiuto, inizia il viaggio della Parola nell’opera lucana. Una Parola che, entrando nella vita dell’uomo, non lo lascia come lo ha trovato…

Notiamo prima di tutto la strana collocazione della “vocazione” di Pietro e dei suoi compagni: l’evangelista Luca la situa proprio in questo punto del suo vangelo, anche se, da un punto di vista puramente cronologico, l’incontro di Gesù con i suoi primi discepoli doveva essere giù avvenuto (infatti in Lc 4,38-39 Gesù era entrato nella casa di Simone e ne aveva guarito la suocera… quindi si suppone che Gesù conoscesse già Pietro!).

Possiamo allora supporre che questo racconto non si riferisca semplicemente alla prima chiamata di Simone, Giacomo e Giovanni, ma a quella chiamata che avviene continuamente nella vita quotidiana di un discepolo, quando la Parola lo incontra in situazioni di fallimento o di crisi. Non dimentichiamo che un episodio piuttosto simile viene collocato dall’evangelista Giovanni al termine del suo vangelo (cfr. Gv 21), quando Pietro e alcuni altri discepoli tornano a pescare sul mare di Tiberiade dopo la crisi provocata dalla pasqua di Gesù; qui, in seguito ad un’altra notte di pesca infruttuosa, Gesù si rivela loro e chiama Pietro nuovamente a seguirlo: “Tu seguimi!” (Gv 21,22).

Quindi, tornando al vangelo di oggi, Luca potrebbe riferirsi allo stile con cui Gesù chiama e ri-chiama i suoi discepoli, in quella “chiamata permanente” ad andare sempre più in profondità nella relazione con il Signore (per viverla in rapporto ai fratelli!). La chiamata di Dio infatti non avviene una volta soltanto nella vita. Si rinnova ogni volta in cui la Parola di Dio ci raggiunge e noi accettiamo di fidarci di Lui.

Gesù trova Simone e i suoi compagni mentre si stanno confrontando con la fatica e la delusione di “non aver preso nulla” dopo una nottata di duro lavoro sul lago di Galilea. Certo, nel loro mestiere di pescatori, chissà quante volte sarà accaduto a Simone e agli altri di ritrovarsi a reti vuote! Lo stesso accade a noi quando sperimentiamo che il nostro impegno non ci fa trovare ciò che ci fa vivere: cerchiamo, ma non troviamo… Ed eppure questi uomini non sono inerti di fronte al loro insuccesso: accanto alle loro barche accostate a riva, “i pescatori erano scesi e lavavano le reti”. Non hanno abbandonato il luogo della loro fatica (il lago), né gli strumenti della loro ricerca (le reti), ma stanno preparandoli per tornare a pescare; e così stanno predisponendo se stessi per ricominciare. Sanno che pescare chiede la fatica di una fedeltà quotidiana che sempre si rimette in gioco là dove ha sperimentato il fallimento.

Qui li trova Gesù. Potremmo dire che questa è la “situazione ottimale” perché avvenga l’incontro con Lui! Nella quotidiana ricerca di ciò che ci fa vivere, sul crinale delle nostre attese (spesso deluse), nell’apertura invincibile del nostro cuore al futuro, proprio lì arriva il Signore.

In questo brano potremmo riconoscere tre “chiamate” che Gesù rivolge a Pietro, o meglio una chiamata a tre livelli, sempre più profondi. Inizialmente Gesù, circondato da folle affamate di ascoltare la sua parola, sale sulla barca di Simone e “lo prega di scostarsi un poco da terra” per “insegnare dalla barca”. La barca di Simone, che non era servita a raccogliere pesce, appare a Gesù come il luogo ideale dal quale annunciare la Parola. Il Signore Gesù chiama Pietro a spostare lo sguardo dalle sue reti e dalla sua barca vuota, alle folle bisognose di una Parola che le faccia vivere. E Pietro non oppone alcuna resistenza alla richiesta di Gesù. Così la sua disponibilità all’invito del Maestro trasforma la barca del suo insuccesso nel luogo dal quale la Parola può “trarre” le folle alla vita.

Non conosciamo il contenuto dell’insegnamento di Gesù alla folla, ma l’evangelista annota che si tratta di una Parola di Dio (“la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio”): la parola di Gesù è Parola di Dio, in Lui Dio rivolge una parola all’uomo, una Parola che fa vivere. Gesù qui è il primo “pescatore di uomini”.

Tuttavia Simone ancora non sa che Gesù sta per chiamarlo a fare ciò che Lui sta facendo, a mettere la sua vita a disposizione di Gesù perché Lui continui attraverso Pietro a “trarre uomini alla vita”. Ed eppure la prima disponibilità di Simone alla parola del Maestro lo apre fin d’ora a quel cammino di affidamento di cui è intessuta la vita del discepolo.

Ora, avendo acconsentito alla prima chiamata di Gesù, avendo ascoltato e obbedito alla parola di Lui, Pietro si trova di fronte alla Parola che Gesù sta rivolgendo alle folle. Anche lui uditore di una Parola che fa vivere. E Pietro si sarà lasciato toccare da questa Parola, se subito dopo avrà il coraggio di affidarsi ad essa, al di là di ogni logica evidenza: “sulla tua parola, getterò le reti”.

Ora “quando ebbe finito di parlare”, Gesù rivolge “la parola di Dio” a Simone. Possiamo pensare che quella Parola rivolta a tutti, assuma un accento tutto particolare per Simone e i suoi compagni, sia ora declinata in modo personale per loro: “Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca”. La Parola di Dio raggiunge tutti, ma sta a ciascuno di noi cogliere la chiamata personale che contiene. E si tratta di una chiamata personale (“Prendi il largo”) e al tempo stesso comunitaria (“e gettate le vostre reti per la pesca”). Quando Dio chiama qualcuno, è per legare la sua vita a quella di altri.

Anche qui Pietro offre la sua disponibilità, non permette alle sue obiezioni di prevalere sulla Parola di Gesù. Pietro infatti, pur presentando a Gesù la realtà del loro fallimento (“Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla”), si affida alla Parola di Gesù più che alla logica della sua esperienza e dell’evidenza (non si pesca di giorno…).

Sì, c’è nell’uomo, in ciascuno di noi, la fede di Pietro capace di lasciarsi condurre oltre l’evidenza e l’esperienza delle cose della vita. Una fede che osa scommettere su ciò che ancora non c’è, pronta a giocarsi secondo quello che Gesù vede possibile, mentre rimane ancora invisibile ai nostri occhi. C’è in noi una fede che vede l’invisibile (cfr. Rm 4,17 e Eb 11,27)!

Ed ecco che questa fede mette in movimento non solo Pietro, ma tutti i compagni della sua barca (“Fecero così e presero una quantità enorme di pesci”) fino a coinvolgere anche gli altri della barca vicina (“fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli). Le reti piene di cui Pietro e gli altri fanno esperienza sono la conseguenza diretta dell’aver obbedito alla parola di Gesù. C’è sempre un dono di Dio pronto a riempire la barca della nostra vita, ma che rimane sconosciuto finché non ci affidiamo a Lui.

La parola di Gesù invitava Pietro a “prendere il largo” (secondo la traduzione della CEI), ma letteralmente ad “andare nel profondo”, a cercare la vita non sulla superficie delle cose, ma nella profondità degli eventi, delle relazioni, delle situazioni che la vita pone. “Mare profondo è la relazione con Te”, scriveva in modo lapidario il beato Christophe Lebreton, monaco trappista martire in Algeria. Sì, le profondità del mare nelle quali Pietro getta le reti sono la “profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio” (Rm 11,33) dalle quali Pietro trae Vita abbondante, la Vita di Dio.

Ed ecco che qui la chiamata di Pietro si fa ancora più profonda. L’aver attinto dalle “profondità” del mare tanta abbondanza, mette in luce la smisurata piccolezza di Pietro, la sua fragilità, il suo peccato. C’è una sproporzione che getta l’uomo a terra, nel riconoscimento di essere “poco più di un nulla” (cfr. Sal 8) e che chiede di mettere ancora più distanza fra Dio/Santo e l’uomo/peccatore: “Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore”.

Ma Dio non ci misura mai a partire dalla distanza in cui ci pone il nostro peccato, la nostra sproporzione. Là dove l’uomo dice: “allontanati da me” (come Pietro nel Vangelo), Dio dice: “segui me” (come fa Gesù nel racconto della vocazione di Pietro in Mc 1,17). Là dove l’uomo dice: “sono un peccatore” (come Pietro, Isaia e Paolo), Dio dice: “sarai pescatore di uomini…” sarai “altro”, cioè pone l’inizio di una identità che non si misura sul limite e sul peccato, ma sulla promessa di Dio.

Dio così chiama Pietro ad assumere uno sguardo nuovo sul suo peccato. Non è l’ostacolo per la relazione con Dio, ma il “punto di partenza” da cui sempre possiamo ripartire per una relazione nuova con Lui, una relazione dove la consapevolezza della nostra fragilità non ci allontana, ma ci fa riconoscere il nostro bisogno di affidarci sempre più a Lui in un cammino di sequela. E Pietro ne farà concretamente esperienza in molti momenti di svolta della sua vita (di fronte agli annunci della passione, prima della Pasqua, durante il processo di Gesù…)!

Questa chiamata a non temere l’abisso del suo peccato inoltre si apre per Pietro a un orizzonte ancora più vasto: i fratelli. Gesù lo invia ai fratelli proprio a partire dal riconoscimento della propria debolezza perché risplenda in lui quella parola di Paolo: “mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze perché dimori in me la potenza di Cristo” (cfr. 2Cor 12,9-10). Gesù ha “pescato” Pietro dall’abisso della sua debolezza. Ora Pietro è pronto ad andare ai fratelli per lasciare che Cristo, in lui, li tragga alla medesima Vita.

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Un gruppetto di pescatori delusi da una notte intera di inutile fatica, ma proprio da là dove si erano fermati il Signore li fa ripartire. E così fa con ogni vita: propone a ciascuno una vocazione, con delicatezza e sapienza, come nelle tre parole a Simone:
– lo pregò di scostarsi da riva: Gesù prega Simone, chiede un favore, lui non si impone mai;
– non temere: Dio viene come coraggio di vita; libera dalla paura che paralizza il cuore;
– tu sarai: lo sguardo di Gesù si dirige subito al futuro, intuisce in me fioriture di domani; per lui nessun uomo coincide con i suoi limiti ma con le sue potenzialità.
Sono parole con le quali Gesù, maestro di umanità, rimette in moto la vita ed è per questo che è legittimato a proporsi all’uomo, perché parla il linguaggio della tenerezza, del coraggio, del futuro.
Simone è stanco dopo una notte di inutile fatica, forse vorrebbe solo ritornare a riva e riposare, ma qualcosa gli fa dire: Va bene, sulla tua parola getterò le reti.
Che cosa spinge Pietro a fidarsi? Non ci sono discorsi sulla barca, solo sguardi. Per Gesù guardare una persona e amarla erano la stessa cosa. Pietro in quegli occhi ha visto l’amore per lui. Si è sentito amato, sente che la sua vita è al sicuro accanto a Gesù, che il suo nome è al sicuro su quelle labbra. I cristiani sono quelli che, come Simone, credono nell’amore di Dio (1Gv 4,16). E le reti si riempiono. Simone davanti al prodigio si sente stordito, inadeguato: Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore.
Gesù risponde con una reazione bellissima, una meraviglia che m’incanta. Trasporta Simone su di un piano totalmente diverso, sovranamente indifferente al suo passato e ai suoi peccati, lui non si lascia impressionare dai difetti di nessuno, pronuncia e crea futuro: Non temere. Sarai pescatore di uomini. Li raccoglierai da quel fondo dove credono di vivere e non vivono; mostrerai loro che sono fatti per un altro respiro, un altro cielo, un’altra vita! Li raccoglierai per la vita.
Quando si pescano dei pesci è per la morte. Ma per gli uomini no: pescare significa catturare vivi, è il verbo usato nella Bibbia per indicare coloro che in una battaglia sono salvati dalla morte e lasciati in vita (Gs 2,13; 6,25; 2Sam 8,2… ). Nella battaglia per la vita l’uomo sarà salvato, protetto dall’abisso dove rischia di cadere, portato alla luce.
E abbandonate le barche cariche del loro piccolo tesoro, proprio nel momento in cui avrebbe senso restare, seguono il Maestro verso un altro mare. Senza neppure chiedersi dove li condurrà. Sono i «futuri di cuore». Vanno dietro a lui e vanno verso l’uomo, quella doppia direzione che sola conduce al cuore della vita.

Da utenti a corresponsabili.
Quando si parla di crisi delle vocazioni si pensa normalmente alla scarsità di preti, frati, suore e missionari. Circola ancora una concezione troppo “professionale” e poco battesimale della vocazione. Pare che Dio abbia bisogno di soci nella Rivelazione e nella realizzazione del suo regno. Oggi si è affievolita la cultura della partecipazione e della militanza ed è cresciuta piuttosto la cultura dell’utenza: la società è divenuta una catena di sportelli erogatori di servizi dovuti (compresi quelli religiosi). E’ molto diffusa, anche in ambito religioso, la cultura dell’ <usa e getta>. Un’inchiesta sociologica ha rilevato che in Italia solo il 5-8% dei cattolici praticanti può essere definito un “agente di pastorale” e cioè militante attivo in qualche servizio di catechesi, liturgia o carità della propria comunità di appartenenza. Detto ciò, occorre precisare che la vocazione del battezzato non può identificarsi in una qualche forma di attività parrocchiale: ne sarebbero favoriti quelli che hanno meno gravosi carichi famigliari e lavorativi e ne sarebbero esclusi i malati, gli anziani, i disabili.
Il Card. Martini il 5 dicembre 1998, nel suo messaggio alla città diceva: «Qualche anno fa, riferendomi ad alcuni studi statistici condotti a livello europeo, parlavo di cristiani della linfa, del tronco, della corteccia e infine di coloro che come muschio stanno attaccati solo esteriormente all’albero. Ebbene, i cristiani della linfa, quelli cioè visibilmente coinvolti e partecipi (sempre lasciando al Signore il giudizio sull’intimo dei cuori), sono una percentuale bassa».
Le letture liturgiche odierne possono sollecitare una riflessione sulla identità della Chiesa, popolo di persone convocate per fare esperienza Eucaristica di Rivelazione, vocazione e missione.[1]

Dio si rivela, chiama e manda.
Dove si può udire la chiamata? Isaia parla di un’esperienza mistica e/o di culto nel Tempio, il Vangelo riferisce di un incontro sul posto di lavoro, Paolo ricorda il proprio travaglio di coscienza nato nell’impatto tra il fanatismo giudaico e la tradizione della Chiesa primitiva. Resta il fatto del protagonismo centrale della Parola di Dio che comunque si fa largo, direttamente o indirettamente. Per annunciare Dio, bisogna averlo “conosciuto” e per conoscerlo bisogna che sia Lui a “rivelarsi”. L’uomo non Lo raggiunge al termine delle proprie logiche conclusioni. Le tre letture bibliche di oggi propongono storie di vocazioni, di forti esperienze di fede e di impegni militanti pur nella coscienza della inadeguatezza e debolezza umana.

Isaia 6.
Il brano di oggi è tutto dedicato alla narrazione della vocazione profetica. Altre vocazioni le troviamo nei primi capitoli di Ezechiele e Geremia.

Un’esperienza personale. Nel culto di Jahwè erano proibite le immagini di Dio per sottolineare che ogni linguaggio su Dio e ogni sua rappresentazione hanno un carattere provvisorio e limitato; ma forse anche per evitare il rischio dell’addomesticamento di Dio attraverso la manipolazione, come avveniva nella diffusa idolatria. Oggi potremmo anche dire che nella proibizione dell’immagine di Dio c’è un invito a fare ciascuno la propria personalissima esperienza. Se è vero che c’è un unico Dio per tutti, è anche vero che Lui si rivela nella coscienza di ciascuno secondo gli itinerari e i tempi di ciascuno. Solo alla fine lo vedremo come Egli è veramente.

Sono impuro. La vicinanza con Colui che è tre volte Santo fa scoprire al profeta la mancanza di santità sua e del popolo. Avviene però il miracolo: colui che ha visto (“incontrato”) Dio, riceve in dono una vita per il servizio. Da questo momento in avanti il profeta non vive più a causa della sua nascita fisica, ma per una nuova nascita, per un determinato servizio che il profeta deve, però, accettare.

Luca 5,1-11.
Con il cap. 5 Luca inizia una nuova sezione del suo scritto (5,1 – 6,11) in cui descrive Gesù intento ad istruire la propria comunità. Luca inquadra la chiamata degli apostoli tra due cornici: le folle accorrono per ascoltare la parola di Dio; gli apostoli vengono avvicinati da Gesù durante un infruttuoso lavoro.

Esperienza personale. E’ strano come in tutti gli Evangeli risulta che le folle vanno dietro a Gesù per fragile istinto o innominabili interessi e curiosità; i discepoli invece lo seguono solo dopo un invito esplicito o un evento/parola che li ha coinvolti e che provoca una rottura esistenziale significativa.

Coscienza del limite. Come abbiamo sentito dalla esperienza di Isaia («Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure»), così Pietro ha coscienza del proprio limite («allontànati da me, perché sono un peccatore»). Tra l’altro, quando fu scritta questa pagina, tutta la Chiesa primitiva sapeva già che Pietro aveva misconosciuto Gesù nel cortile del tribunale dove lo stavano processando e che il perdono fu dato per grazia di uno sguardo di Gesù. Il profeta Isaia, Mosè, Pietro… non ignorano i propri limiti.
I discepoli seguono Gesù dopo aver abbandonato tutto, ma gli evangelisti ricordano che gli stessi discepoli al momento della cattura lo abbandonarono tutti.

Sequela. Il verbo che il discepolo deve coniugare non è il verbo “imparare”, ma il verbo “seguire”. Al centro non c’è una dottrina, ma una persona e un progetto di esistenza.
Per Luca, che predilige il tema della “strada” verso Gerusalemme, la sequela significa accettare di condividere le scelte di Gesù portandone le conseguenze. Qualcuno ha parlato di “imitazione di Cristo”. Non tutti condividono questa forma di fotocopiatura, perchè di fatto ogni epoca e ogni individuo presentano delle condizioni diverse da quelle originali di Gesù. Il modello di Gesù va sempre mediato e tradotto. A questo riguardo esistono alcuni aneddoti della tradizione ebraica che possono aiutare a capire la necessaria originalità del cammino di ciascuno pur nella indispensabile sequela/imitazione di Cristo.
Rabbi Bar di Radoschitz supplicò un giorno il suo maestro Rabbi Giacobbe di Lublino: “Indicami un cammino universale al servizio di Dio!“: Ed il maestro rispose: “Non si tratta di dire all’uomo quale cammino deve percorrere, perchè c’è una via in cui si segue Dio con lo studio e un’altra con la preghiera, una con il digiuno e un’altra mangiando. E’ compito di ogni uomo conoscere bene verso quale cammino lo attrae il proprio cuore e poi scegliere quello con tutte le forze“. Un discepolo chiese al Rabbi di Zloczow: “Quando la mia opera raggiungerà quella dei Padri Abramo, Isacco, Giacobbe?“. Ed Egli rispose:”Ciascuno in Israele ha l’obbligo di riconoscere di essere l’unico al mondo: se infatti fosse già esistito un uomo identico a lui, egli non avrebbe motivo di essere al mondo. Ogni uomo è cosa nuova nel mondo e deve portare a compimento la propria natura in questo mondo. Finchè questo non accade, sarà ritardata la venuta del Messia“. Rabbi Sussja, in punto di morte, disse: “Nel mondo futuro non mi si chiederà perchè non sono stato Mosè, ma perchè non sono stato Sussja!“.
Dopo questi aneddoti, possiamo osare riascoltare alcune parole di Gesù sulla nostra vocazione: “Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà.” (Luca 9).
La croce di cui parla Gesù non può essere ridotta banalmente alle croci della malattia o della sopportazione. Prendere la croce significa partecipare attivamente alla propria conversione nella preghiera e nell’ascolto, costruendo rapporti umani liberati e conviviali, faticando nell’evangelizzazione e nella realizzazione delle Beatitudini. Anche se ciò avrà un costo di crocifissione.
Ecco come il Concilio Vaticano II° interpreta la vocazione dei laici: “ Per loro vocazione, è proprio dei laici cercare il Regno di Dio trattando le cose del mondo e ordinandole secondo Dio. Vivono nel mondo, cioè implicati in tutti e singoli i doveri e affari del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è intessuta. Lì sono chiamati da Dio a contribuire, quasi dall’interno come un fermento, alla santificazione del mondo mediante l’esercizio dei propri impegni, sotto la guida dello spirito evangelico, per manifestare Cristo agli altri principalmente con la testimonianza della loro vita e con il fulgore della loro fede, speranza e carità.” (Dal Documento Conciliare “Luce delle genti” al n. 31).
Papa Francesco, nella sua “Lettera al popolo di Dio” del 20 agosto 2018 scrive parole dure contro il clericalismo: «Impossibile immaginare una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del Popolo di Dio. Di più: ogni volta che abbiamo cercato di soppiantare, mettere a tacere, ignorare, ridurre a piccole élites il Popolo di Dio abbiamo costruito comunità, programmi, scelte teologiche, spiritualità e strutture senza radici, senza memoria, senza volto, senza corpo, in definitiva senza vita. Ciò si manifesta con chiarezza in un modo anomalo di intendere l’autorità nella Chiesa […] quale è il clericalismo, quell’atteggiamento che non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente».
Sei giornalisti/e francesi (Bruno Bouvet, Claire Lesegretain, Malo Tresca, Gauthier Vaillant, Julien Tranié, Nicolas Senèze), in La Croix del 30 agosto 2018, in un articolo dal titolo: “Clericalismo: idee per cambiare sistema”, avanzano dieci proposte: 1. mettere i preti al loro giusto posto; 2. dare ai laici il loro giusto spazio; 3. ricordare l’uguaglianza di tutti di fronte al battesimo; 4. farsi carico pubblicamente delle colpe della Chiesa; 5. organizzare dei luoghi di dibattito nella Chiesa; 6. usare la propria libertà di parola; 7. governare le diocesi in maniera più collegiale; 8. attribuire delle responsabilità ai laici; 9. far intervenire maggiormente le donne nella formazione dei preti; 10. affidare a delle donne funzioni d’autorità.

Auguri ai preti e ai laici: «Prendete il largo e gettate le vostre reti per la pesca».

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Prendi il largo e gettate le vostre reti… Lasciarono tutto e lo seguirono”. (Vangelo, v. 4.11). Cosi Pietro e i suoi compagni. Come Isaia, Paolo… e tutti coloro che, lungo i secoli, hanno accolto l’invito-comando del medesimo Signore di partire in missione. Molteplici sono le vocazioni e le missioni, diverse nelle forme, percorsi e circostanze, ma identiche nella loro origine e finalità. Le tre letture di questa domenica presentano tre vocazioni tipiche: Isaia, Paolo, Pietro, le quali, pur essendo vocazioni personali e specifiche, hanno molteplici elementi comuni, fra i quali i cinque seguenti.

– 1. L’iniziativa di Dio è il punto di partenza di ogni vocazione-missione. È Lui che chiama e manda. Isaia, in mezzo ad una straordinaria manifestazione divina (I lettura), percepisce l’appello di Dio che cerca qualcuno da mandare (v. 8). A Paolo appare lo stesso Cristo risorto (II lettura) e gli rivela quello che deve annunciare (v. 3.8). Gesù predica dalla barca di Pietro (Vangelo), lo invita a prendere il largo, a calare le reti, e ne fa un pescatore di uomini (v. 4.10).

– 2. L’esperienza di Dio, percepito come grande e santo rispetto alla povertà e indegnità dell’apostolo, è fondamentale nell’avventura della vocazione-missione. Non si tratta di avere visioni, ma esperienze interiori, che sono diverse per ciascuno, ma necessarie per tutti. Davanti a Colui che è il Tre-volte-Santo, Isaia si sente perduto, uomo dalle labbra impure, poi purificato (v. 3.5.7). Da parte sua, Paolo si dichiara ultimo, indegno e persecutore (v. 8.9). E Pietro, toccato dalla parola di Gesù (v. 3) e dalla sorprendente pesca miracolosa, si riconosce peccatore, si getta alle ginocchia di Gesù e lo prega di allontanarsi (v. 8.9). Quindi è chiaro che Dio ha deciso di servirsi di strumenti fragili per realizzare la sua salvezza: li purifica, li incoraggia, li abilita ad esserne messaggeri e operatori (v. 10).

– 3. Il Signore chiama per una missione. Può succedere che all’inizio il compito non sia chiaro, si farà concreto in seguito. Ciò che importa è la disponibilità senza condizioni da parte della persona chiamata; occorre una firma in bianco! È il caso di Isaia (v. 8). Per Paolo c’è un Vangelo da predicare: Cristo morto e risorto (v. 3.4.11). Pietro e i suoi compagni sono chiamati a prendere il largo, a pescare uomini in un mondo vasto e complesso (v. 4.10).

– 4. La risposta è la sequela: una risposta che cambia la vita dell’apostolo chiamato alla missione. “Eccomi, manda me!” risponde Isaia (v. 8). Paolo è contento di essere quello che è, e di aver faticato e predicato (v. 10.11). Pietro e i suoi colleghi lasciano tutto e seguono il nuovo Rabbi (v. 11). L’incontro con un avvenimento, con una Persona, è indispensabile per ogni vocazione-missione.

– 5. La forza della missione viene da Dio, non dall’apostolo. Il fuoco purificatore ha bruciato ogni resistenza ed Isaia si fa coraggio e va, inviato dal Signore (v. 8). Paolo riconosce che agisce “per grazia di Dio” (v. 10). A Pietro non importa di esporsi al rischio di un’altra pesca infruttuosa, o al ridicolo di pescare in pieno giorno, contro ogni logica umana. Si fida di Cristo: “sulla tua parola…” (v. 5).

Il “duc in altum” (prendi il largo, v. 4) è il comando audace di Gesù a Pietro: immergiti nel vasto mare del mondo, affronta il potere del male e le sue forze mortifere. Un comando che esige coraggio, perché spesso nel linguaggio biblico il mare è anche il luogo del ‘male’, del nulla, del caos, delle potenze avverse; per cui risulta più patente la signoria divina di Gesù che si impone alla tempesta, la placa, minaccia il mare (cfr. Lc 8,22-25). L’invito a diventare ‘pescatori di persone’ significa incontrare le persone dovunque siano, portare loro un messaggio di salvezza, tirarle fuori dal male, riportarle alla vita, come già spiegava S. Ambrogio: “Gli strumenti della pesca apostolica sono come le reti: infatti le reti non fanno morire chi vi è preso, ma lo conservano in vita, lo traggono dagli abissi alla luce”.

Mentre le reti della pesca fanno morire il pesce fuori dall’acqua, la rete del Vangelo salva e fa vivere. Però ‘pescare persone’ esclude ogni tipo di violenza, anche solo psicologica; non significa far abboccare qualcuno, neppure per farne dei proseliti. L’invito di Gesù è di tirar fuori dal mare (=male) persone vive. Il progetto di Dio è sempre per la vita e per la libertà. Gesù non toglie i suoi pescatori dal mare, dal mondo, li vuole presenti in esso, ma li custodisce dal Maligno (cfr. Gv 17,15) e li manda a salvare, a far vivere le persone. Questa era per Lui la priorità: salvare le persone da emarginazione, esclusione, morte…, ridare a tutti vita e speranza. Così Egli ha fatto con lebbrosi, posseduti, adulteri, samaritani, peccatori, malati di ogni genere.

L’operazione del “Duc in altum” (gr. ‘eis to bathos’) indica la vastità, la dispersione per le vie del mondo, ma soprattutto la profondità a cui è chiamata la missione. Gesù non affida a Pietro e ai suoi amici un lavoro semplice, di superficie, ma da alto mare. Si indica qui l’opera dell’evangelizzazione nella sua complessità, che comprende mete vitali, quali: annuncio di Cristo, avvio della comunità, inculturazione, promozione umana, ecc. Una missione esigente, aperta ad ogni popolo e cultura. Il “duc in altum” è uno stimolo ad imprese coraggiose. Sul “duc in altum” San Giovanni Paolo II ha impostato il programma missionario della Chiesa per il Terzo Millennio, come si legge nella Lettera apostolica Novo Millennio ineunte (6.1.2001). Un programma da realizzare con “occhi penetranti” e “cuore grande”! (n. 58). Se si vuole arrivare lontano, bisogna mirare in alto. Senza paure, né mediocrità. Lo Spirito spinge la Chiesa missionaria ad andare sempre oltre! A tutti!