II Domenica del Tempo Ordinario – anno C
Gv  2,1-11


nozze di cana

1 Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. 2Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. 3Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». 4E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». 5Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».
6Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. 7E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. 8Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. 9Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo 10e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora».
11Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.
(Letture: Isaia 62,1-5; Salmo 95; 1 Corinzi 12,4-11; Giovanni 2,1-11)


All’inizio di ogni cammino è sempre fonte di stupore e meraviglia contemplare con quale semplicità e, allo stesso tempo, con quale forza la liturgia è capace di condurci nel cuore del Mistero di Cristo, nella logica del “già e non ancora”, di un compimento mai del tutto “compiuto”, nella logica di una bellezza, come direbbe Agostino di Ippona, “tanto antica e tanto nuova.

Abbiamo appena concluso il tempo di Natale e già l’evangelo di oggi ci porta alle “nozze del terzo giorno”, nel cuore della Pasqua. Abbiamo ascoltato nelle scorse domeniche dell’Epifania e del Battesimo del Signore, di Colui che “si manifesta alle genti” e l’evangelo di oggi si conclude con queste stesse parole: “Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”.

Siamo allora davanti ad un nuovo manifestarsi di Gesù, dopo quello del suo venire nella carne della nostra fragile umanità e dopo quello dell’attraversare le acque del Giordano insieme all’uomo che attende salvezza. Un manifestarsi che avviene “al terzo giorno”, il giorno della Pasqua e che avviene ad una festa di nozze, quella di Dio con l’umanità che, come dice Isaia nella prima lettura di oggi: “non si chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo”; e questo perché il Signore della gloria ha scelto di abitare con noi per sempre.

A questa festa di nozze, nessuna menzogna. La Madre di Gesù, presente fin dall’inizio, è lei che ha il coraggio della verità: “Non hanno vino”. E questo perché possiamo renderci conto che quello che Gesù è e viene a donarci, non è un incremento di ciò che già possediamo. La Parola dell’evangelo e la vita in Cristo che dal suo ascolto ne nasce, non è un aggiustamento di una vita che già scorre, ma ha solo bisogno di un “di più” di gusto e di gioia. La verità che Maria legge in questa festa di nozze e che svela al Figlio e a noi è che il vino non c’è, non c’è mai stato. L’unico che può donarlo è il Figlio. E’ Lui che dona il vino della “nuova ed eterna alleanza”. E questo vino è la trasformazione dell’acqua. E’ un cambiamento della natura di ciò che in sé e per sé non potrà mai essere vino.

Tutto questo non può venire né dagli sposi, né semplicemente dal fatto che ci sono le nozze. Non può venire da noi, per quanto grande sia il nostro desiderio di gioia e di vita. La Madre lo sa, lei che all’annuncio dell’angelo ha posto la vera domanda che ci immette in un cammino di fede autentico: “come è possibile?”. A lei che sa che questo è impossibile alla sua umanità, alla sua storia, al suo desiderio, alle sue forze, l’angelo risponde: “tutto è possibile a Dio”. Solo a Dio e non a noi. Da noi può venire solo la consapevolezza e il riconoscimento che non abbiamo vino. Questa è la condizione necessaria e sufficiente per accogliere il nuovo, l’inaudito, ciò che solo Dio sa fare.

Quello che abbiamo già, sono solo giare di pietra vuote, come a volte è di pietra il nostro cuore e quello dei discepoli all’annuncio dell’evangelo, che al massimo, con ogni nostro sforzo, possono arrivare ad essere riempite di acqua. Di più non possediamo.
Perché il “di più”, l’impossibile, il vino migliore che nasce dalla trasformazione dell’acqua, solo Dio lo può dare.

Che il Signore ci conceda all’inizio di questo tempo ordinario e di questo nuovo anno di cammino che si apre davanti ai nostri occhi, di riconoscerci bisognosi di Lui, di consegnargli il nostro niente e di vivere del vino nuovo che solo Lui prepara per noi.

Sorelle Povere di Santa Chiara
http://www.clarissesantagata.it

Cana, i nostri cuori come anfore da riempire
Ermes Ronchi

C’è una festa grande, in una casa di Cana di Galilea: le porte sono aperte, come si usa, il cortile è pieno di gente, gli invitati sembrano non bastare mai alla voglia della giovane coppia di condividere la festa, in quella notte di fiaccole accese, di canti e di balli. C’è accoglienza cordiale perfino per tutta la variopinta carovana che si era messa a seguire Gesù, salendo dai villaggi del lago.

Il Vangelo di Cana coglie Gesù nelle trame festose di un pranzo nuziale, in mezzo alla gente, mentre canta, ride, balla, mangia e beve, lontano dai nostri falsi ascetismi. Non nel deserto, non nel Sinai, non sul monte Sion, Dio si è fatto trovare a tavola. La bella notizia è che Dio si allea con la gioia delle sue creature, con il vitale e semplice piacere di esistere e di amare: Cana è il suo atto di fede nell’amore umano. Lui crede nell’amore, lo benedice, lo sostiene. Ci crede al punto di farne il caposaldo, il luogo originario e privilegiato della sua evangelizzazione.  Gesù inizia a raccontare la fede come si racconterebbe una storia d’amore, una storia che ha sempre fame di eternità e di assoluto.  Il cuore, secondo un detto antico, è la porta degli dei.

Anche Maria partecipa alla festa, conversa, mangia, ride, gusta il vino, danza, ma insieme osserva ciò che accade attorno a lei. Il suo osservare attento e discreto le permette di vedere ciò che nessuno vede e cioè che il vino è terminato, punto di svolta del racconto: (le feste di nozze nell’Antico Testamento duravano in media sette giorni, cfr. Tb 11,20, ma anche di più). Non è il pane che viene a mancare, non il necessario alla vita, ma il vino, che non è indispensabile, un di più inutile a tutto, eccetto che alla festa o alla qualità della vita. Ma il vino è, in tutta la Bibbia, il simbolo dell’amore felice tra uomo e donna, tra uomo e Dio. Felice e sempre minacciato.

Non hanno più vino, esperienza che tutti abbiamo fatto, quando ci assalgono mille dubbi, e gli amori sono senza gioia, le case senza festa, la fede senza slancio. Maria indica la strada: qualunque cosa vi dica, fatela. Fate ciò che dice, fate il suo Vangelo, rendetelo gesto e corpo, sangue e carne. E si riempiranno le anfore vuote del cuore. E si trasformerà la vita, da vuota a piena, da spenta a felice.

Più Vangelo è uguale a più vita. Più Dio equivale a più io. Il Dio in cui credo è il Dio delle nozze di Cana, il Dio della festa, del gioioso amore danzante; un Dio felice che sta dalla parte del vino migliore, del profumo di nardo prezioso, che sta dalla parte della gioia, che soccorre i poveri di pane e i poveri di amore. Un Dio felice, che si prende cura dell’umile e potente piacere di vivere. Anche credere in Dio è una festa, anche l’incontro con Dio genera vita, porta fioriture di coraggio, una primavera ripetuta.

Andare a Cana
Enzo Bianchi

Per chi comprende il brano evangelico delle nozze di Cana nella sua intenzione più profonda, risulta sempre imbarazzante sentirlo proclamare nelle celebrazioni dei matrimoni. Perché? Perché, se lo si legge attentamente, ci si accorge che mai appaiono in esso uno sposa e una sposa che agiscono o sigillano il loro matrimonio nell’alleanza. La sposa non è mai nominata, mentre allo sposo viene rivolta solo una volta la parola dal capo tavola, ma egli non ribatte: è una figura senza voce, senza carne, senza corpo, come se si sottraesse alla scena, lasciando lo spazio a un altro Sposo… Il protagonista di questa pagina è infatti Gesù, mentre gli altri personaggi sono presentati solo in riferimento a lui: “la madre di Gesù”, “sua madre” (senza che si dica il nome Maria) e “i suoi discepoli”, testimoni silenziosi, ma che alla fine appariranno come la comunità, la sposa di quell’alleanza con lo Sposo Gesù, sigillata nel vino nuovo del Regno.

Cerchiamo dunque di comprendere questa “epifania”, questa manifestazione che nella festa dell’Epifania veniva cantata, insieme alle due altre, mediante l’antifona Tribus miraculis: il riconoscimento dei magi (manifestazione alle genti), il battesimo (manifestazione a Israele) e, appunto, le nozze di Cana (manifestazione alla chiesa). Si celebra dunque un matrimonio al quale è presente la madre di Gesù ed è invitato Gesù stesso insieme ai suoi discepoli. Siamo nel “terzo giorno”, espressione temporale che evoca il giorno della gloria del Gesù, giorno in cui egli si è mostrato Kýrios più che mai (cf. Mc 8,31 e par.; At 10,40, ecc.). La madre di Gesù è presenza, sta qui all’“inizio dei segni”, come sarà presenza, starà, alla fine dei segni, presso la croce (cf. Gv 19,25). Proprio in quanto madre di Gesù, presente a quell’ora, vedendo che in queste nozze non c’è vino, si rivolge a lui con audacia per dirgli: “Non hanno vino”. E se non vi è vino, come si potranno celebrare le nozze con la gioia necessaria alla festa? Penso sovente che se la chiesa in mezzo all’umanità svolgesse anche solo questa funzione di far notare al Signore che “non c’è vino”, non c’è gioia, questo sarebbe già da parte sua assolvere un ministero essenziale…

Nelle Scritture il vino è innanzitutto promessa di Dio stesso, dono della beatitudine e della gioia fatto al suo popolo. È il vino che rallegra il cuore dell’uomo (cf. Sal 103,15), ma anche il cuore di Dio (cf. Giudic 9,13 : ’Elohim), ed è proprio il vino che segnerà il banchetto escatologico promesso, attraverso il profeta, a tutti i popoli della terra, quel banchetto in cui si celebrerà la liberazione definitiva dalla morte (cf. Is 25,8): “Il Signore dell’universo imbandirà un banchetto, lo preparerà per tutti i popoli sul monte Sion, un banchetto di vivande scelte e vini eccellenti, di cibi gustosi e vini raffinati” (Is  25,6). È il vino che crea il clima dell’amore tra lo sposo e la sposa nella “cella vinaria” (Ct 2,4) del Cantico dei cantici, vino che scenderà come rigagnoli dalle colline della terra benedetta (cf. Gl 4,18). È il vino della gratuità, che fa trascendere la vita sotto il segno della necessità del pane, in un eccesso che chiama l’uomo e la donna fuori di sé. Per questo nel pasto lasciato da Gesù come suo memoriale ci sono il pane necessario e il vino gratuito (cf. Mc 14,22-24 e par.; 1Cor 11,23-25), perché l’umano deve sempre affermare l’uno e l’altro, sentirsi creatura bisognosa ma anche capace di creazione, di bellezza, di canto e di danza.

Non c’è dunque celebrazione di nozze senza vino, e la madre di Gesù per questo interviene. Ma la risposta di Gesù avviene tramite parole che creano una distanza, che le chiedono di restare al suo posto, perché in quanto madre fisica di Gesù non può pretendere nulla: “Che cosa c’è tra me e te, o donna?”. In altri termini, Gesù le sta dicendo che, se c’è qualcosa di suo proprio, non è certo il suo essere madre, ma qualcos’altro. Ed ecco che Maria da madre si fa discepola che ascolta, obbedisce al figlio e chiede agli altri di fare lo stesso: “Tutto quello che vi dirà, fatelo”. La madre, divenuta discepola, chiede che siano riservati a Gesù ascolto e obbedienza, nient’altro. Non può dire altre parole, perché è una donna credente, capace di ascolto, obbediente al Signore: è la prima discepola di Gesù.

A questo punto Gesù dà un segno in cui anticipa la sua ora, non ancora venuta, ma che giungerà solo alla croce, dove si celebreranno nozze di sangue. I servi di tavola subito gli obbediscono: portano sei giare piene di acqua, che serviva per la purificazione. Non vi è però più bisogno di quest’acqua, perché è la presenza dello Sposo a purificare tutti i convitati. Ed ecco che quell’acqua così abbondante, più di seicento litri, diventa vino per le nozze! Quantità e qualità eccezionali dicono che quel vino e più di semplice vino, è il vino dell’amore donato da Gesù ai suoi, è l’amore che non può più mancare. Noi ancora oggi continuiamo a bere di quel vino di Cana donatoci da Gesù, e alla sua tavola, quando celebriamo l’incontro con lui, l’adesione a lui, la fede in lui, celebriamo le nozze tra lui e la comunità cristiana, suo corpo. Come nelle nozze i due diventano “una sola carne” (Gen 2,24; Mc 10,7.8; Mt 19,5.6; Ef 5,31), così nell’eucaristia i credenti diventano carne di Cristo, Signore e Sposo, Sposo che si dà totalmente alla sua comunità. “Questo” – conclude l’evangelista – “fu l’inizio, il primo dei segni della manifestazione della gloria di Gesù, quando i suoi discepoli credettero in lui” e divennero la sua comunità, la sua sposa.

Perché è così potente e intrigante la metafora delle nozze? Perché più di altre esprime la verità dell’incarnazione: corpi che diventano un solo corpo, comunione e comunicazione nel canto dell’amore, nella sobria ebbrezza del vino. Il nostro linguaggio umano è limitato, soprattutto quando vuole alludere a realtà invisibili, e allora fa ricorso alle realtà più umane, umanissime: il mangiare, il bere vino, l’incontro dei corpi nella celebrazione dell’amore reciproco e della reciproca appartenenza. Siamo sempre invitati al banchetto di Cana, non per cercare uno sposo e una sposa che non ci sono, ma per essere noi coinvolti in questo incontro tra Cristo, Signore e Sposo, e la sua comunità. Si tratta di andare a Cana,

di cercare di vedere con occhi di fede,
di ascoltare le parole della fede,
di eseguire le parole dette da Gesù,
di gustare il vino del Regno
e di toccare, sì di toccare il corpo di Gesù.

Allora sentiremo che lui è in attesa di bere presto con noi il vino nuovo del Regno (cf. Mc 14,25 e par.): l’ha bevuto sulla terra, l’ha lasciato a noi in dono eucaristico, ma lo berrà di nuovo con noi nella terra nuova, nel cielo nuovo (cf. Is 65,17; 66,22; 2P 3,13; Ap 21,1).


Paolo Veronese nozze di cana, schema compositivo e narrativo.

L’opera di Veronese fu realizzata su commissione per decorare la parete di fondo del refettorio del Monastero benedettino di San Giorgio Maggiore a Venezia progettato dall’architetto Palladio. Le misure dell’opera sono monumentali da dare l’impressione che il refettorio avesse una parete aperta sullo spazio dove avveniva la scena biblica. La grandezza del dipinto non ha fermato la passione di Napoleone che lo fece togliere dal telaio e lo trasportò in Francia dove tutt’ora si trova.

Veronese immagina la scena ambientata durante un lussuoso matrimonio a lui contemporaneo immerso nelle architetture classiche. Si mescola il sacro della rappresentazione a elementi lussuosi e ludici dell’epoca. Spuntano infatti saltimbanchi, nani, vesti sontuose e tanti animali.

L’opera si impone non solo per la sua dimensione, ma anche per la scelta dei colori riportati alla luce da un restauro che è durato dal 1989 al 1992.

Questo quadro ci chiede però non solo di “guardarlo” soffermandoci sulle vesti e sui dettagli fittissimi, ma di “leggerlo” cogliendone il significato. Molto spesso ci fermiamo al lato estetico di una opera, per cui ci basta averne colto il soggetto per decretare finito il nostro rapporto con essa (che cosa rappresenta?) perdendone il valore profondo di pensiero personale che può innescare in noi (che cosa dice a me?).

Bene, allora proviamo a leggere questo quadro come se fosse un libro occidentale (quindi da sinistra a destra). A destra troviamo un servitore che porge del vino a un ospite, subito al di sotto un altro servitore capovolge la giara che risulta vuota: è “Venuto a mancare il vino”.

Veronese fa seguire la narrazione verso sinistra utilizzando le linee ottiche dei bracci della tavola e ci fa arrivare con l’occhio ai due protagonisti “c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli”. Attorno a Gesù c’è concitazione, ma lui sembra calmo “Non è ancora giunta la mia ora”, ed è anche uno dei pochi personaggi nel quadro che guarda l’osservatore, lo interroga in un certo senso, lo invita a sedersi e a mangiare, non ci dimentichiamo che l’opera era pensata per un refettorio. Noi come rispondiamo a quello sguardo?

Un servitore parla con Maria e non direttamente con Gesù, perché sarà la madre a chiedere il segno.

Il miracolo si compie. Un uomo riccamente vestito, forse il coppiere, tiene in mano il nuovo vino e subito al di sotto come nella scena 1 un servitore capovolge la giara che stavolta risulta piena. Un perfetto parallelismo narrativo e visivo.

Ma come interpretare visivamente un versetto come: «Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora»? Veronese inserisce nella composizione una scena peculiare. Perfettamente in asse con Gesù sopra la balaustra due servi stanno macellando della carne per il banchetto, un chiaro richiamo alla passione, che diventa così chiave di lettura del miracolo.

Concediamo più tempo all’arte, non diamo un’ occhiata frettolosa che risponda solo al bello o al brutto o peggio ancora al già visto, proprio dove pensiamo di aver colto il significato, uno sguardo più attento ci dirà che stavamo perdendo l’essenziale.

http://www.monasterodibose.it

FATELO
Paolo Curtaz

Venuto a mancare il vino.
Quante volte facciamo questa esperienza, nelle nostre vite.
Quanto la stiamo facendo, in questi due anni di pandemia.

Lo scoraggiamento ha sostituito la paura, avanziamo per abitudine senza sapere cosa ci riserva il futuro. Ma, ad essere onesti, non è stato il Covid a toglierci le gioie della vita, ma la mancanza di senso, di orizzonte. È normale che sia così, succede a tutti.

Partiamo, entusiasti, convinti, determinati poi, cammin facendo, viene a mancare il vino.
Una sofferenza, un fallimento, un’esperienza negativa ci fanno rendere conto che manca qualcosa di importante nella nostra vita: il vino, simbolo della gioia, della festa, della gratuità.

Ve la immaginate una festa di nozze senza vino? No. Esatto.
Manca il vino, manca la voglia di vivere, di andare avanti, di fare festa.
Allora tutto diventa grigio, faticoso, rancoroso.
E cresce la rabbia, l’aggressività, la depressione, il vittimismo. Esattamente quanto ci sta accadendo.

Manca il vino alla nostra vita. Manca il vino alla nostra Chiesa. Manca il vino alla nostra società.
Oggi, iniziando l’anno nuovo, il vangelo di Giovanni ci richiama all’essenziale: il miracolo numero uno come scrive l’evangelista, quello che sta alla base di ogni altra esperienza di fede, è trasformare l’acqua insipida nel vino nuovo.
Perché senza il vino della gioia, la vita e la fede non hanno senso.

È la Madre che si accorge della mancanza.
Un matrimonio senza vino è destinato al fallimento, con grave danno agli sposi e alla festa.
Nelle nozze fra Dio, lo sposo, e Israele, la sposa, è venuta a mancare la gioia dell’amore.
E Maria, figlia di Israele, lo sa e chiede al figlio di agire. No, dice Gesù alla madre, non è ancora il momento e, ammonisce, se inizia il tempo dell’annuncio lei lo perderà, non sarà più suo.

In questo strano matrimonio in cui mancano gli sposi e protagonisti sono i camerieri e lo sconosciuto Gesù, Maria si rivolge a noi. A me.
Sono le uniche parole rivolte ai discepoli in tutto il Vangelo.
Maria ha parlato con gli angeli. E con Elisabetta. E con suo figlio, custode del mistero.
Ora parla a me.
Qualunque cosa vi dirà, fatela.

Maria è la prima ad accorgersi della mancanza di gioia nella nostra vita. E ne informa il Figlio.
E a noi intima: fate. Non: aspettate. Non: pregate. Non: pazientate. Non: rassegnatevi.
Fate.

La gioia di costruisce, mica si attende. Si plasma giorno per giorno.
Come?
Riempire le giare!
Dobbiamo riempire le giare fino all’orlo. Con l’acqua, non abbiamo altro.
Dal poco al tutto. Dall’insignificante al miracolo.

Giare di pietra e sei, una in meno del numero della perfezione che è sette.
Simbolo di una fede stanca, impietrita, trascinata. Come spesso è la nostra. Una fede tutta imperniata sulla purificazione, sull’essere indegni, sul senso di colpa. Una fede simile a quella che si respira nelle nostre comunità.

Eppure proprio questa fede va riempita. Non snobbata. Non abbandonata.Ì
Ma vissuta con tutto ciò che siamo.
La tentazione di fuggire è tanta. Ma i camerieri, ignari della situazione, stupiti della richiesta assurda, obbediscono. Sono loro, insieme a Maria, il simbolo della fede tenace, che attende lo Sposo.

Quante altre cose dovevano fare in quel servizio matrimoniale! Con quanto poco entusiasmo avranno riempito d’acqua gli oltre seicento litri quelle giare (senza rubinetto)! E quanti improperi avranno mandato a quel giovane taciturno e bislacco.

Quante volte vorrei mollare, anch’io.
Quando nella mia comunità ci troviamo i soliti due gatti. Quando, nonostante tutti gli sforzi, vedo l’oratorio svuotarsi. Quando servo i poveri riconoscendo in essi il Cristo e vengo insultato dai nuovi razzisti che si sono fatti forza.
Ma tengo duro. E riempio le giare, anche se sono di pietra.
Eccomi, Signore.
Pronto a riempire le giare.

http://www.paolocurtaz.it

Tra i tanti segni miracolosi che Gesù ha fatto, perché Giovanni ha scelto di mettere all’inizio del suo Vangelo proprio questo racconto?
E’ piuttosto strano che inizi la sua missione con una festa di nozze.
Qual è il messaggio profondo che ci vuole dare?

Difficile sapere che cosa veramente è successo a Cana.
Giovanni usa molto i simboli (la mia ora, l’acqua, il vino, la gloria) e non sempre sono facili da interpretare.
Forse la conclusione del brano ci aiuta a cogliere il messaggio profondo di questo bellissimo quadro di vita accaduto a Cana di Galilea:
«…egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui».

Giovanni fa di questo miracolo il “segno” principale per capire la missione di Gesù.
In passato Dio si manifestava in mezzo a tuoni, lampi, luce, angeli.
Con Gesù invece la gloria di Dio si manifesta ad un banchetto di nozze, dove la gente si diverte, mangia, beve, ride, balla.

Per sottolineare questo Giovanni ricorre a delle immagini.
L’acqua è il simbolo della vita.
Il vino è il simbolo della festa, della gioia.

Chi è Gesù? È colui che trasforma la vita in una festa.
Seguire Gesù vuol dire “trasfigurare” la propria vita.
Trasformare l’acqua in vino vuol dire “dare senso” alla vita.

Gesù è venuto per aiutarci a cambiare una falsa immagine di Dio.
Passare dal Dio degli eserciti, dal Dio della paura e dei castighi, al Dio della festa, della gioia, della vita.

Gesù non è un prestigiatore da circo che trasforma l’acqua in vino, che risolve i problemi con un miracolo.
Gesù non è né un buonista (vogliamoci tutti bene)e non è neanche un dolorista (bisogna soffrire).
Piange
con chi piange. Ma anche gode con chi è nella gioia.

Quanto siamo lontani da questo messaggio evangelico.
Nelle nostre chiese parliamo spesso di sacrifici e poco di gioia.
C’è ancora tra di noi l’idea che il cristiano è colui che deve fare sacrifici.
Divertirsi non è da cristiani!
Abbiamo invece bisogno di annunciatori di speranza e di fiducia.

«Non hanno più vino»
Quante volte anche noi abbiamo sperimentato nella nostra vita dei momenti bui, delle situazioni difficili, momenti di solitudine, di abbandono, di sofferenza.
Spesso siamo delusi e rassegnati.

Giovanni oggi ci dice: Seguire Gesù è un invito a nozze!
Seguire Gesù vuol dire partecipare ad un banchetto.
E ad un banchetto non si partecipa mai da soli, ma sempre insieme con gli altri.
I veri miracoli avvengono là dove si fa “comunione”, là dove creiamo relazioni vere e profonde.
E’ nel “condividere”, nello spezzare il pane, che le anfore vuote della vita si riempiono del vino della festa.

Bella la parte della figura di Maria.
«Qualsiasi cosa vi dica, fatela».
E’ colei che ci indica la strada. Ci invita a “fare” il Vangelo. (Ronchi)
Se fai quello che ti indica Gesù, se metti in pratica il Vangelo, ci dice Maria, le anfore vuote della tua vita si riempiranno di vino, di festa.
Trasformerai la tua vita, da insignificante e banale, in una esistenza serena e felice.