di Giovanna Brambilla
16/04/2022
Per gentile concessione della
rivista Vita e Pensiero

Si può parlare del silenzio? O è un paradosso anche solo pensarci? E se il silenzio è quello dell’abisso e della sospensione del sabato di Pasqua, come potrà renderlo l’arte?

Non si pronunciano parole nel sabato santo, ma non si venerano nemmeno immagini: i Crocefissi sono coperti da drappi, il tabernacolo è vuoto; l’arte si è spesso ammutolita davanti a questo deserto iconografico, tanto che la cosiddetta sacra triade, la sequenza più frequentata dai pittori medievali e moderni è Crocifissione-Deposizione-Resurrezione. Dall’agonia di un corpo mortale al trionfo sulle leggi della vita. Non è qui, non si dà allo sguardo il Cristo, né in chiesa né nelle opere, con una dichiarata afasia dell’arte.

È il tempo del dubbio, magari non ora, per chi ha una fede certa, ma per gli apostoli, i compagni di strada di Gesù, è un momento in cui la fiducia si schianta, deve essere stato un giorno di sgomento, un giorno di “forse”.

L’interpretazione di Emilio Isgrò

Il Forse Gesù dell’artista Emilio Isgrò sembra dare voce a quella temperie, che si rinnova ogni anno nel sabato di Pasqua. Quest’artista ha come cifra stilistica la pratica della cancellatura: quello che si dà allo sguardo non è un disegno accennato e non finito, ma un lavorio complesso che, partendo da un’immagine completa, la elide attraverso pazienti velature di colore, fino a lasciare una linea di contorno appena accennata, un arco diroccato, così evocativo di un paesaggio di rovine e desolazione, e frammenti di croce.

Prima di Isgrò cancellare significava levare le storture, i refusi, il superfluo, correggere indicando le soluzioni. Un atto di chiusura, mentre nelle mani dell’artista questa pratica apre a una rivoluzione copernicana. Levare qualcosa allo sguardo significa raddoppiarne la potenza, l’assenza da sempre genera la mancanza, e celare significa spingere ad interrogarsi, ad attivare il pensiero, le parole, il logos.

Non è qui. Prima di essere pronunciata dall’angelo, questa è la considerazione di chi sapeva Cristo morto, nel sepolcro, vedeva la croce disabitata sul Calvario. Isgrò, dunque, cancella Cristo: parte da un’immagine esistente, una tradizionale Crocifissione, e la priva del corpo di Gesù, evocato attraverso un’ombra bianca, un sudario di assenza, una velatura fatta di nulla. Non sono più le cancellature nere, linee tirate per nascondere le parole, ma cancellature bianche, con acrilico, che sotterrano il corpo. Il colore si fa sepolcro, non per levare un’immagine di troppo, ma per fare ragionare sulla privazione della vista di una persona. L’assenza fa questo. È generativa, fa spazio alla meditazione. È nel silenzio che coltiviamo i dubbi e troviamo risposte? Isgrò ne è certo. La scomparsa dell’immagine ne aumenta la dignità, ne fa risuonare il riverbero, così come il silenzio non è un vuoto sterile, ma è uno spazio di ascolto.

Il sudario ignifugo del Cristo di Lviv

È cancellato, in un modo del tutto diverso, anche un altro Cristo. Levato dalla croce su cui stava da secoli, parte dell’altare del Golgota dell’importante cattedrale armena di Lviv, avvolto in teli di protezione, per essere calato in un sepolcro del III millennio, un bunker. L’ultima deposizione di questa scultura lignea risaliva alla seconda guerra mondiale ma ora, nel tragico conflitto che devasta l’Ucraina, si cerca di proteggere non solo i vivi, ma anche le loro icone, in cui il confine tra opera d’arte e simbolo di fede non c’è, specialmente in un’opera venerata da molte confessioni cristiane. È un sudario ignifugo quello che avvolge il Cristo di Lviv, a proteggerlo non dal fuoco dell’inferno – in cui dovrebbe andare per salvare le anime – ma da quello delle bombe.

Le guerre oggi si combattono anche con le immagini, scattate per colpire al cuore quei lettori che spesso si arenano sui grandi caratteri dei titoli, ignorano gli articoli, gli approfondimenti, e da un’immagine cercano di ricostruire una narrazione. Così questo scatto, del freelance portoghese André Luis Alves, ha fatto il giro del mondo. Sostenuto da uomini che, a fatica, lo portano fuori dalla cappella posta nel cortile della cattedrale, la fotografia richiama le deposizioni fortemente chiaroscurali del primo seicento; si respira qualcosa di epico e tragico al tempo stesso, si sentono rispetto e sconforto. Si tratta di portare via un’immagine dal mondo che la venera per nasconderla e preservarla dalla distruzione, con la stessa sollecitudine con cui Giuseppe di Arimatea chiede a Pilato di autorizzare una veloce sepoltura, per evitare di esporre il corpo al sole e al vento nel sabato ebraico, con la stessa delicatezza nel calare il corpo scolpito che si avrebbe con un uomo reale.

Così, e la fotografia lo documenta, questo Cristo senza croce viene deposto, avvolto nel sudario e nascosto alla vista. Non per questo la chiesa sarà disabitata: vi si prega tutt’ora, per i civili, per i ragazzi e gli uomini al fronte, per la salvezza.

«Dio c’è, ma non si vede. Oppure si vede, e allora non c’è»

Forse, allora, questo silenzio, quello del giorno aliturgico in cui nulla sembra accadere, in cui nulla si può celebrare, lascia davvero lo spazio all’ascolto, leva il rumore confuso e disturbante delle certezze, dei fatti, la rassicurante consuetudine delle liturgie, e diventa momento di discernimento e consapevolezza. Non è sulla croce, Cristo, e nel volgere di un giorno non sarà più nemmeno nel sepolcro. Il silenzio del Forse Gesù fa spostare la ricerca di senso da un forse dubbioso a uno spiraglio di speranza, la sagoma cancellata dal bianco non è stata ritagliata, non è stata abrasa con la gomma, riposa sotto uno strato di protezione, ma non se ne è mai andata via.

Lo sanno anche le ucraine e gli ucraini, che hanno visto il loro Cristo velato dal telo ignifugo bianco scomparire nelle profondità del bunker. Non è lì nel cortile della chiesa, il posto dietro il cancello è vuoto, ma la speranza del ritorno tiene accesa la veglia.

Ha ragione Turoldo, quando afferma «Dio c’è, ma non si vede. Oppure si vede, e allora non c’è». Nel clamore vivace di mille immagini esposte allo sguardo non solo dei fedeli – nelle chiese – ma anche dei visitatori – nei musei – forse non è così scontato trovare Cristo, così come nei discorsi tuonanti di chi lo invoca come grande vendicatore di tutti i mali del mondo, veri o presunti. Forse per trovarlo è necessario rovesciare lo sguardo all’interno, sapere dimorare sulla soglia, accogliere il tempo dello sgomento, e, negli abissi del silenzio bianco, cercare di riconoscere, dentro di noi e intorno a noi, l’impercettibile rumore del seme che germoglia sotto la neve.

Le opere:

Emilio isgrò, Forse Gesù, 1991, Acrilico su libro in box di legno e plexiglass, 50×65 cm

André Luis Alves, Jesus Christ statue is taken out from Armenian Cathedral in Lviv to be stored in a bunker as prevention, 4 marzo 2022, fotografia.

Giovanna Brambilla

Giovanna Brambilla (1969), storica dell’arte, è Responsabile dei Servizi Educativi della GAMeC, la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, e insegna Storia dell’arte in una scuola superiore. Socia ICOM, è docente del Master «Economia e management dei beni culturali» della Business School del Sole24Ore e del Master «Servizi educativi per il patrimonio artistico, dei musei storici e di arti visive» dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Dal 2020 insegna Iconografia presso l’Accademia di Belle Arti «Rosario Gagliardi» a Siracusa.