Luigi Alici
16/09/024
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Per gentile concessione dell’autore

Per risalire alle spalle di una cultura che ha messo il soggetto contro l’oggetto, dobbiamo tornare a pensare la relazione nella sua forma più radicale; essa nasce dal riconoscimento di un incontro originario tra identità e alterità, che abita anzitutto nel cuore stesso dell’umano, annunciandosi nella forma di una sproporzione costitutiva e non di un dualismo estrinseco. Proprio nell’atto in cui guarda se stessa, la persona umana si scopre come soglia fra due mondi: identità e alterità non sono due opzioni possibili, ma l’orizzonte di una relazione irriducibile che ci costituisce e precede ogni nostra scelta. Proprio in quanto può riflessivamente riconoscersi come affidata a se stessa, la persona è l’unico ente in natura che sperimenta la differenza nella sua forma più profonda: chi è davanti a me non sono io, è un altro nel senso non soltanto di un’altra storia, ma soprattutto di un altro orizzonte di libertà. Nessuna differenza è così profonda tra due piante, due animali, due ecosistemi. Nello stesso tempo, la persona umana è l’unico ente capace di riconoscere l’estraneità dell’altro e trasformarla liberamente, senza alcun automatismo biologico, in prossimità fraterna. La forma più abissale di differenza e insieme la forma più intensa di relazione nella persona si toccano, come due lati inseparabili dell’umano.

Questa condizione paradossale, che è per la persona umana all’origine della sua grandezza e della sua miseria, trova nella Rivelazione cristiana la sua interpretazione più propria. Proviamo a liberare questa singolare coabitazione intrapersonale di identità e alterità, di differenza e relazione dalla fragilità del limite, che espone l’umano all’eccellenza del bene e all’abisso del male, lasciando che sprigioni una luce purissima e infinita: ecco che siamo rinviati al cospetto del mistero più alto della Trinità divina, dove il massimo della differenza tra le persone coincide in pienezza con il massimo della comunione. Nella meditazione dei Padri, soprattutto da quando – anche grazie ad Agostino – si comincia a pensare lo Spirito come dono, che «allude alla comune carità, con la quale Padre e Figlio si amano reciprocamente»[10], a quel punto l’amore che accomuna l’amante e l’amato si “personalizza”, diventa Persona egli stesso!

Tre raggi di quella luce, in sé inaccessibile, possono illuminare la nostra riflessione. Anzitutto, l’amore è il cuore oblativo del bene, che innalza la massima comunione possibile tra l’io e il noi a una compiuta reciprocità, fondandola sull’eccedenza gratuita del dono, che coincide altresì con la forma più alta di conoscenza. Tradiamo il senso abissale di questa verità, se pensiamo la relazione nella forma utilitaristica dell’interesse o nella vuota impersonalità del contatto.

In secondo luogo, l’amore imprime alla comunione un inesauribile dinamismo oblativo, che ha il tratto di una apertura infinita, all’origine del disegno salvifico della creazione e della redenzione. Anche in questo caso, tradiamo il mistero se pensiamo di imprigionare l’amore dentro il circuito effimero degli opportunismi gratificanti, negando al desiderio di intimità la possibilità di alimentare orizzonti di fraternità cosmica. Kierkegaard: «Si son dette molte cose strane, deplorevoli, rivoltanti sull’amore, ma la cosa più stupida che mai sia stata detta è che l’amore deve avere un limite»[11].

Infine, l’eternità dello Spirito come amore che accomuna trasfigura l’interminabilità della durata, donandogli il carattere di una creatività infinitamente feconda e generativa, offrendo alla nostra sete di resurrezione la promessa di cieli nuovi e terra nuova, in una comunione delle differenze redenta in pienezza. Per questo, tradiamo il mistero se pensiamo che l’istantaneità effimera e intermittente della passione possa essere il volto autentico dell’amore, avallando lo stereotipo di un’eternità noiosissima e mummificata nella contemplazione dell’identico.

Tuttavia, non possiamo compromettere l’altissima verità del dogma trinitario, gettandola in modo distratto e superficiale negli ingranaggi della storia e aspettando passivamente effetti miracolosi. Ecco il compito culturale – immane ed entusiasmante – che ci viene affidato: c’è sempre una mediazione culturale chiamata a pro-gettare e quindi a gettare ponti tra fede e storia. Se è vero che nella fede possiamo dare un volto personale allo Spirito, chiamandolo per nome, fino a dargli del tu, è altrettanto vero che la dimensione spirituale non è un attributo antropologico accidentale dell’umano, ma esprime la vita personale – di tutti, credenti e non credenti – nella sua pienezza. Lo sguardo spirituale è sempre uno sguardo a tutto campo, capace di dilatare l’umano in profondità, larghezza e altezza, ancorandosi a un principio ontologico fondamentale: tutto ciò che è, è in relazione.

I valori più alti si alimentano reciprocamente dentro una polifonia relazionale. Il senso e il bene, la libertà e l’amore, la giustizia e la bellezza, la cultura e la cura non sono creazioni arbitrarie dei soggetti né proprietà naturali degli oggetti: sono forme di relazione, e per questo paradigmi di autenticità relazionale attraverso i quali traluce il mistero della creazione. Senza questo sguardo, diventiamo incapaci di conoscerci a fondo, di fidarci gli uni degli altri, di avere a cuore il bene comune, di coltivare disegni di solidarietà e di pace. Quando poi esplodono fatti di sangue atroci e inimmaginabili, sia nel circuito sempre più corto degli affetti – tra genitori e figli, tra uomini e donne, tra ragazzi giovanissimi –, sia negli scenari globali – violentati dal terrorismo, dalla guerra e persino da speculazioni finanziarie che affamano i poveri e aggrediscono il pianeta – ci sentiamo smarriti. Ma come, era un ragazzo solare, una famiglia normale, una conflittualità politica o un sistema finanziario sotto controllo! Nulla faceva presagire la catastrofe… Senza l’altezza dello spirituale, scambiamo la superficialità dei contatti per conoscenza profonda, e le simpatie o gli interessi occasionali per vero amore.

Il cristiano laico, su questa frontiera, non può distrarsi. A differenza delle forme di vita contemplativa, finalizzate all’unione mistica con Dio tendendo a ridurre al minimo l’apparato delle mediazioni, il cristiano laico incontra la Trinità divina dentro la trama complessa delle relazioni, comprendente la relazione con se stessi, con gli altri, con il mondo della natura, con l’intero della storia. L’incontro con Dio non è una relazione posta accanto alle altre, che finirebbe per legittimare l’idea di una fede sterile e separata, ma è la capacità di riconoscere e testimoniare orizzonti di ulteriorità e di trascendenza, che illuminano e dilatano le profondità riflessive, le larghezze comunitarie, le responsabilità creaturali, le lungimiranze storiche. Il laico cristiano riconosce e testimonia che in ogni relazione filtra una luce infinita: c’è una mistica anche della vita attiva, che cerca l’unità nelle giunture, la comunione nelle differenze, la prossimità nella distanza; che incontra Dio anche nel cuore dell’uomo e dell’umanità, alla radice degli spazi vissuti e oltre le distanze temporali. Riconoscere e aprire infinitamente questi orizzonti relazionali disegna lo spazio di incontro e dialogo tra credenti e non credenti.

Un’associazione di laici come l’Azione cattolica e una rivista come “Dialoghi” devono porsi al servizio di questa testimonianza cristiana sulla soglia, in cui il primato dello spirituale non è la password per rifugiarsi in una tana rassicurante, ma è esigenza incontenibile di sintesi sempre nuove, capaci di allungare le arcate dei ponti che collegano cielo e terra, rendendole solide, capienti e percorribili. I grandi maestri di vita spirituale non si stancano di invitarci al senso profondo della fede come atto di abbandono fiducioso a Dio. L’abbandono alla grazia divina non è mai una fuga: illumina, insegna a progettare, a incontrare, a camminare insieme. L’atto con cui affido a Dio miserie, fallimenti, mediocrità, rinunciando a restarne intrappolato, in una dialettica interminabile di vittimismo e recriminazioni, mi libera da tutta questa zavorra umiliante, trasformando i sentimenti distruttivi della paura, della rabbia, dell’angoscia nei sentimenti costruttivi della fiducia, della gioia, dell’entusiasmo…

Ebbene, si deve poter fare lo stesso – credo – abbandonando nel cuore del mistero trinitario il groviglio di relazioni tossiche, malate, persino insanguinate, che ci stanno disseccando il cuore, lasciando che lo Spirito ci aiuti ad attraversarle; ci aiuti a tagliare, a potare e a ricucire; a trasformare gli ostacoli in punti di transizione, cambiando la nostra postura nei confronti della storia. Perché non sempre abbiamo buone relazioni con la storia: nell’epoca in cui dovremmo testimoniare l’aurora nel cuore della notte, manifestiamo solo la malinconia del tramonto. Nessun passo avanti è possibile quando la paura è miope e la mediocrità superficiale.

Per ridare ossigeno al primato dello spirito, abbiamo bisogno di una profonda immersione nel mistero trinitario, accreditata dal coraggio di nuove sintesi. Una cultura senza una spiritualità è un corpo senz’anima, una spiritualità senza cultura è il tradimento dell’incarnazione. Dio non ci amerebbe davvero se non ci desse anche i mezzi per entrare in rapporto con lui: è questo rapporto personale, del nostro cuore con il cuore dell’Amore trascendente – Padre, Figlio e Spirito – che ci rende testimoni credibili e illuminati. Ciò che conta davvero è incontrare la misericordia del Padre, che genera il Figlio in noi e ci dona lo Spirito dell’amore; solo così nasce il suo regno nel nostro cuore, e si generano legami grazie ai quali diviene possibile diventare liberi insieme.

Ha scritto Emmanuel Mounier, senza peli sulla lingua: «Troppi cristiani, in effetti, emigrano all’interno del proprio mondo. Vi sono troppe tende alle finestre delle loro case e a quelle della loro vita, troppe palpebre abbassate su sguardi che non sanno sopportare il peso delle cose»[12]. In una società dagli affitti brevi, dove fra i più giovani si fa strada il miraggio di poter vivere in solitaria, le comunità cristiane, così come le associazioni e i movimenti, hanno ancora troppe tende alle finestre e troppe palpebre abbassate, incapaci di sopportare il peso delle cose.

Solo una cultura che innalza lo spirito e accomuna le differenze può trovare un punto di equilibrio fra la cordialità dell’incontro con la storia e la severità della demistificazione critica di ogni assoluto terrestre, anche (e soprattutto) quando si vende nella forma luccicante di un’offerta a prezzo stracciato. Non possiamo abbandonare al suo destino un mondo che ci appare sempre più estraneo, accontentandoci di presidiare piccole oasi di generosità facoltativa, e rinunciando a intercettare i semi di bene che forse non abbiamo occhi per vedere. Il nostro compito è sognare e progettare in grande magnifiche architetture di bene e di convivenza; tessere nuove riconciliazioni tra pubblico e privato, tra ragione e speranza, tra libertà e responsabilità, tra amore e giustizia. Solo a una comunità cristiana che sappia “affidarsi agli imprevisti dello Spirito” (C.M. Martini), abitando, annunciando, testimoniando orizzonti di fraternità universale, possono aprirsi spazi autentici di incontro e di evangelizzazione. Ce lo ha insegnato anche don Tonino Bello: “Solo chi sogna può evangelizzare”. Occorre dunque sognare insieme: se “uno sogna da solo, il suo rimane un sogno. Ma se sogna insieme con gli altri, il suo è già inizio della realtà”.

Ha scritto Dossetti (due anni prima di morire): «Non cerchiamo di rappresentarci questo sconvolgimento totale con dei modelli precedenti […] sono tutti non proporzionati, perché il rinnovamento è assai più radicale. Siamo dinnanzi all’esaurimento delle culture […] siamo tutti immobili, fissi su un presente, che si cerca di rabberciare in qualche maniera, ma non con il senso della profondità dei mutamenti. Non è catastrofica questa visione, è reale; non è pessimista, perché io so che le sorti di tutti sono nelle mani di Dio. La speranza non viene meno, la speranza che attraverso vie nuove e imprevedibili si faccia strada l’apertura a un mondo diverso […] L’unico grido che vorrei fare sentire oggi è il grido di chi dice: aspettatevi delle sorprese ancora più grosse e più globali e dei rimescolamenti più totali, attrezzatevi per tale situazione. Convocate delle giovani menti che siano predisposte per questo e che abbiano, oltre che l’intelligenza, il cuore, cioè lo spirito cristiano»[13].

[Testo presentato nell’ambito delle “Conversazioni a Spello”, sul tema: “Per una cultura del noi. Alle radici del fare cultura e del senso di comunità” – Casa san Girolamo, 14 settembre 2024]

NOTE

[1] P. Ricoeur, Il cristiano e la civiltà occidentale (1946), in Id., La logica di Gesù, Qiqajon, Magnano 2009, p. 128.

[2] Ivi, p. 129.

[3] J. De Kesel, Cristiani in un mondo che non lo è più. La fede nella società moderna, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2023, pp. 39-40.

[4] Ivi, p. 29.

[5] Ivi, p. 45.

[6] J. Habermas, Una storia della filosofia. I. Per una genealogia del pensiero metafisico (2019), Feltrinelli, Milano 2022, p. 122

[7] Ivi, p. 71.

[8] Ivi, pp. 62-63.

[9] T. Todorov, La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà, Garzanti, Milano 2009, p. 16.

[10] Agostino, De trin. 15,17,27.

[11] S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica, in Opere, ed. it. a cura di C. Fabro, Firenze 1972, p. 382.

[12] E. Mounier, I cristiani e la pace, Castelvecchi, Roma 2022, p. 55.

[13] G. Dossetti, Intervista, “Bilamme. Rivista di spiritualità e politica”, 1994.