Per una cultura del noi

Luigi Alici
16/09/024
https://luigialici.blogspot.com
Per gentile concessione dell’autore
2. Oltre il dualismo
In tale interrogazione occorre ripartire dal pendolarismo irriducibile, radicalizzato nella modernità, che ha contrapposto l’io e il noi, per impegnarci in un doppio esercizio di discernimento, in senso diacronico e sincronico. Da un lato, storicamente dobbiamo riportarci alle radici del dualismo, quando prende forma e si consolida, grazie a una singolare convergenza tra scienza moderna e pensiero filosofico, il paradigma binario soggetto-oggetto. La scelta metodologica di bonificare lo spazio della ricerca scientifica da qualsiasi interferenza teologica e metafisica, in nome di un corretto riduzionismo scientifico, alla fine si trasforma in una vera e propria Weltanschuung: per un verso si finisce per oggettivare la natura come entità inerte e manipolabile, per altro verso il soggetto tende ad accreditarsi come autoaffermazione assoluta, grazie alla quale ben presto il sapere diventa potere.
Quando ormai, spazzando via ogni mediazione, sulla scena resta soltanto un soggetto di fronte a un oggetto, anche l’alterità come tale rischia fatalmente di essere oggettivata. Un insieme di soggetti, allora, dev’essere costruito: o dalla politica, attraverso un artificio contrattuale, o dall’economia, in nome di una logica mercantile di interessi occasionalmente coincidenti. A partire da qui, si scaverà una vera e propria trincea tra individualismo e collettivismo, attorno alla quale si combatterà per qualche secolo una logorante guerra di posizione, non solo ideologica.
Da un altro lato, dobbiamo esercitare anche un discernimento critico e cordiale nei confronti di questo nostro tempo, dove il pendolarismo inquieto tra l’io e il noi conosce nuove luci e nuove ombre. L’individualismo, che tradizionalmente si basava sulla similitudine tra gli esseri umani, declassando le diversità e guardando con indifferenza alla sfera sociale, sta evolvendo verso forme di singolarismo, che al contrario esaltano le differenze, immaginando di celebrare il vissuto come un unicum irrepetibile, plasmabile a piacere alla stregua di un’opera d’arte, ma nello stesso tempo inseguendo una domanda morbosa di riconoscimento per accreditare la propria originalità. Anche per essere unico ho bisogno degli altri!
Nello stesso tempo, una diffusa nostalgia comunitaria contesta ogni vuota idea di convivenza come incrocio strumentale di interessi, in nome dell’identità relazionale del soggetto, all’origine di circoscritte appartenenze comunitarie, in cui sperimentare insieme e incarnare storicamente pratiche virtuose condivise. Su questo interessante richiamo al primato del buono sul giusto pesano tuttavia le ombre di una regressione tribalista, fatta di egoismi di gruppo entro perimetri sempre troppo angusti e di ostilità aggressive, frutto di una miscela inquietante di paura e disprezzo. Si dimentica, a questo punto, come ha denunciato Todorov, che «il male che ci faremo sarà maggiore di quello che temiamo di subire», poiché «La paura dei barbari è ciò che rischia di renderci barbari»[9].
Due idee cristiane impazzite illuminano queste derive: da un lato, l’affermazione del soggetto umano in quanto capace di plasmarsi come singolarità irrepetibile, sfuggendo a ogni cattura omologante; dall’altro, il riconoscimento del telos del bene, come concreta tessitura partecipativa oltre l’impersonalità dei grandi apparati. In entrambi i casi, tuttavia, la ricerca di alternative “corte” agli scenari sfuggenti della globalizzazione e del digitale, acuisce le derive – solo apparentemente opposte – del narcisismo singolarista e del tribalismo populista, in realtà accomunate dal rifiuto delle mediazioni e da un conseguente impoverimento relazionale, schiacciato da un bisogno viscerale di immediatezza, che solo la rete sembra in grado di soddisfare, con le false promesse di azzerare le frontiere del tempo e dello spazio.
In una società senza distanze, in cui i contatti appaiono come la versione più leggera e disimpegnata delle relazioni, l’algoritmo si presenta come l’unica forma salvifica di mediazione, che rende superflui i faticosi processi decisionali della democrazia. Al singolo, da un lato, e alla singola comunità, dall’altro, che s’illudono di essere artefici solitari del proprio destino, la rete offre “chiavi in mano” quel surrogato dell’intero che manca al nostro particolarismo e ai nostri egoismi– individuali o di gruppo – portando a compimento quella metamorfosi da società delle relazioni a società delle prestazioni, che è quasi un sostituto virtuale della comunione dei santi, dove il mercato delle strumentalità effimere prende il posto dell’infinito dell’amore.
In questi scenari si acuisce l’esigenza di ritrovare uno sguardo relazionale che ci aiuti ad andare oltre un eterno gioco di rimessa: ieri, in un’età di dilagante materialismo i cristiani si sono impegnati così tanto in difesa dello spirito, rischiando di diventare spiritualisti; oggi, in un’età di dilagante soggettivismo, ci siamo impegnati così tanto in difesa della vita, rischiando di apparire naturalisti. Contro il collettivismo abbiamo difeso l’individuo, a costo di diventare individualisti; contro l’individualismo abbiamo difeso la socialità, a costo di apparire socialisti.
Anche oggi l’elenco delle tentazioni dualiste è piuttosto lungo. Si può difendere la vita naturale, all’atto del concepimento o della morte, dimenticandosi del tritacarne della guerra, delle migrazioni o delle disuguaglianze, oppure si possono difendere i valori della pace, dell’uguaglianza e della dignità del lavoro, mettendo la sordina a una cultura dell’aborto come “diritto a prescindere”, che è forse la madre di molti altri equivoci irrisolti. Vorremmo testimoniare pubblicamente il nostro antiabortismo, ma nel pacchetto dovremmo prenderci anche un campionario impresentabile del peggiore conservatorismo, con punte di razzismo, autoritarismo antidemocratico e negazionismo antiscientifico, cui qualche uomo di Chiesa non fa mancare una benedizione (rigorosamente in latino); vorremmo poter dare la nostra adesione a una cultura dell’uguaglianza e della solidarietà, finendo per affondare nelle sabbie mobili del politicamente corretto, che è l’incarto scintillante con cui si abbellisce il pacco quasi vuoto di una cultura salottiera dei diritti, in cui torna a fare capolino un individualismo possessivo, che insegue futilità per i garantiti e non appare davvero interessato a elaborare progetti per i disgraziati.
Dinanzi a una interminabile contrapposizione di paradigmi, abbiamo provato a schierarci – non sempre con le migliori intenzioni e non sempre dalla parte dei più deboli – rischiando di restare intrappolati dentro una semplificazione ideologica, che continua a contrapporre artificiosamente l’io e il noi, senza andare alla radice del dualismo, che, come ogni dualismo, è la negazione più clamorosa della Rivelazione cristiana.