La COP 29 quest’anno si è svolta a Baku capitale dell’Azerbaijan, una tappa deludente nel percorso inarrestabile verso l’abbandono dei combustibili fossili.

02-12-2024 – di: Margherita (Rita) Corona
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La COP Conferenza delle Parti per il Clima, si svolge ogni anno in un paese diverso e dovrebbe occuparsi di stabilire via via regole sempre più stringenti con l’obiettivo di combattere il riscaldamento globale, attraverso la limitazione dei combustibili fossili che sono la principale causa del cambiamento climatico del Pianeta, e in modo da non superare l’aumento di 1,5° di temperatura media, rispetto al periodo preindustriale. Con la scelta della sede, l’Azerbaijan, il condizionale è palesemente d’obbligo, poiché questo stato, un tempo poverissimo, ha il 90% di esportazioni da fonti fossili (all’Italia il 20% del gas e il 57 % di petrolio). Le COP – nate per rendere possibile, riguardo ai problemi arrecati dal cambiamento climatico, il confronto tra i paesi del Nord e Sud del mondo, o meglio tra i paesi sviluppati, da tempo utilizzatori delle fonti fossili, e le economie più arretrate nonché le ONG della protezione ambientale (Green Peace, WWF ecc.) – purtroppo sono ormai fortemente condizionate in modo negativo dalla presenza di un gran numero di lobbisti del fossile,che quest’anno erano quasi 2.000 (1773) e che interferiscono pesantemente nei colloqui, spesso ostacolandoli. È come se una regione dovesse stabilire quali e quanti finanziamenti ed interventi programmare per le scuole pubbliche e a deciderlo fossero i rappresentanti delle scuole private. Un’aberrazione.
Come è ormai chiaro a tutti per la produzione di energia nel mondo si bruciano massicce quantità di carbone, petrolio, gas e continuando ad immettere gas climalteranti nell’atmosfera si spezza l’equilibrio della sua composizione e temperatura per molti anni a venire, se non per secoli. Paradossalmente sappiamo bene che le conseguenze di questo disastro sono pagate dai popoli e dalle comunità che non l’hanno causato, i quali, anche continuando a vivere secondo regole di sobrietà e nel rispetto delle leggi naturali, vanno incontro a cataclismi climatici che rendono impossibile la vita nei loro territori e li costringono ad emigrare per sopravvivere. Oltre il 40% della popolazione mondiale abita ormai in situazioni di vulnerabilità climatica, i migranti ambientali, secondo l’Onu, entro il 2.050 saranno 216 milioni.
I paesi fragili, dunque, chiedono a gran voce finanziamenti e non prestiti che li soffocherebbero con un debito insostenibile, chiedono l’aiuto economico dei paesi industrializzati che a lungo hanno utilizzato le fonti fossili per ottenere energia e inquinato il Pianeta. I soldi sono necessari per un duplice scopo: la mitigazione e l’adattamento, per ovviare ai danni delle catastrofi ambientali. Circa 6.000 miliardi per il ripristino, e da 200 a 390 miliardi per investimenti sulle rinnovabili.
Dei 1.300 miliardi entro il 2030, indicati dal segretario generale dell’Onu Gutiérrez come ristoro per i paesi fragili da quelli ricchi, nel comunicato finale congiunto della COP 29, ne sono stati ipotizzati solo 300, senza specificare chi, quando e come dovrebbe erogarli; quindi, con una promessa vaga che non ha agganci nel concreto, ma soprattutto in stridente contrasto con i 2.300 miliardi trovati in poco tempo per la guerra. Il problema insito nel riscaldamento globale è che il Pianeta non aspetta, le leggi della Natura sono insondabili e non si possono assoggettare agli appetiti dell’avidità umana.
L’esito della COP 29, come una débâcle annunciata, è stato fumoso, confuso e, dunque, negativo. Tuttavia, come dicono le associazioni ambientaliste, anche quando la situazione sembra senza sbocchi, non bisogna mai perdere la speranza. Altrimenti si smette di lottare e non si raggiunge nessun obiettivo. Ne è la riprova l’iter per il riconoscimento degli ecoreati in Italia: ci sono voluti trent’anni di lotte ambientaliste perché la giustizia desse il giusto riconoscimento al concetto di reato ambientale, ma ora finalmente la legge viene utilizzata per perseguire chi inquina e devasta i territori e la necessità di difendere l’ambiente è entrata nel sentire comune.
Nel meccanismo complesso che regola le leggi del capitalismo selvaggio c’è una rotella che potrebbe, inaspettatamente, ribaltare le sorti del Pianeta: un cambiamento radicale, una presa di responsabilità e di coscienza profonda nei comportamenti dei consumatori, tali da farne inceppare la vorace distruttività senza limiti. Lo sviluppo crescente di un’economia circolare che riutilizzi all’infinito le risorse senza più predarle dal pianeta, la diminuzione progressiva dei consumi energetici, l’abbandono definitivo del fossile sostituito via via da fonti rinnovabili, possono davvero cambiare le sorti del mondo.