Quanto ci preoccupiamo di prestare l’attenzione dovuta a ciò che è almeno ragionevolmente prevedibile e, quindi, ad agire di conseguenza?
di SERGIO VENTURA
12 novembre 2023
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Giovani, adulti, anziani: in ogni fase della vita ci si può trovare a credere che nulla di diverso, di radicalmente nuovo, possa ancora avvenire. In famiglia o al lavoro, nella comunità ecclesiale o in politica, il tempo sembra scorrere pigramente uguale, a volte dandoci la triste impressione che ci sfugga di mano, tutto consumando; altre volte, invece, ci garantisce una certa tranquillità, cullandoci placidamente in una rassicurante ripetizione. E se pure fossimo assaliti dalla noia o dall’angoscia, sembriamo certi che nel mondo in cui viviamo vi sia sempre un rimedio naturale (o artificiale) in grado di contenerle: «mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito, (…) e non si accorsero di nulla» (Mt 24,38-39).
Ecco, di fronte a tale stato d’animo, il vangelo certo comprende – perché conosce l’essere umano – ma esclama chiaramente «no!». In ogni momento qualcosa – se non qualcuno – di nuovo, di radicalmente diverso, può avvenire, anzi av-viene, forse ora sta già avvenendo: con un’offerta sicuramente desiderabile (perché sempre di banchetti di nozze si tratta in questo regno dei cieli), ma purtroppo non da tutti accolta e goduta o desiderata con sufficiente intensità (aspetto che, in un certo senso, dovrebbe anche intimorire e far paura).
La questione, infatti, è talmente importante che ogni anno il cristiano la ricorda – innanzitutto a sé stesso – in quel periodo del tempo liturgico che va sotto il nome di Avvento. Anzi, la fede e la speranza in questo evento è così decisiva che nelle settimane antecedenti ad esso la liturgia cristiana si preoccupa di preparare chi la vive affinché non manchi l’appuntamento: «vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora» (Mt 25,13).
Non basta credere e sperare che in famiglia o al lavoro, nella Chiesa o in politica, il novum avvenga, ma è necessario desiderare fortemente di essere pronti quando sarà il momento di andargli incontro (Mt 25,6). Pronti a riconoscerlo, ma soprattutto a farsi riconoscere da esso, a prescindere dal grado di purezza (“verginità”) personale.
A ciò ho sempre collegato l’immagine delle lampade e dell’olio: senza un po’ di luce e di calore – di passione – è impossibile essere pronti nel senso richiesto dal vangelo (Mt 25,3-4.7-10). Mi piace pensare che lo sposo non faccia entrare alle nozze (e relativo banchetto) le cinque vergini definite stolte perché esse sono da questo punto di vista irriconoscibili (Mt 25,11-12). Forse, nonostante siano andate a comprare di notte l’olio necessario alle lampade (Mt 25,10), esse non hanno trovato nessun venditore o ne hanno comprato poco ed è nuovamente terminato o scoprono che i venditori hanno finito l’olio. In ogni caso, il buio della fredda notte le avvolge di nuovo e questa loro scarsa prudenza (simile a quella del servo evocato da Mt 24,45-51) ne determina il destino, ricadendo su di esse (Mt 23,36). D’altronde, di cosa può lamentarsi lo stolto se la casa che ha costruito sulla sabbia frana, mentre quella che il saggio ha costruito sulla roccia resiste (Mt 7,24-27)?
Ciò significa che per godere del regno dei cieli – qualunque cosa esso possa significare – ci viene richiesta solo questa piccola accortezza – peraltro molto simile alla cortesia di indossare l’abito nuziale offerto dallo sposo (Mt 22,11). Non quindi lo sforzo sovraumano di essere perfetti, di restare svegli tutta la notte. Addormentarsi è lecito (Mt 25,5): peccare humanum est. Anche Giacomo, Pietro e Giovanni si sono addormentati nell’orto degli ulivi (Mt 26,40.43). Anzi, sappiamo inoltre che ci sarà un aiuto in più: in qualche modo una voce misteriosa – il profeta di turno – ci sveglierà dal sonno in cui siamo cascati per l’attesa (Mt 25,5). Ma che non vi sia neanche un po’ di saggezza umana dobbiamo sapere che avrà un esito umanamente tragico: «venne il diluvio e inghiottì tutti», salvo chi «entrò nell’arca» (Mt 24,38-39), «uno sarà preso e l’altro lasciato… una sarà presa e l’altra lasciata» (Mt 24,40-41).
A chi fosse scandalizzato dall’apparente egoismo delle cinque vergini sagge (Mt 25,8-9) o dalla durezza del padrone (poco giustificabile dato il suo ritardo – Mt 25,12), viene in soccorso una legittima interpretazione psicologica del brano: come in ogni racconto parabolico o fiaba che si rispetti, i personaggi possono rappresentare due parti del nostro io che si fronteggiano – qui in modo speculare (saggia-stolta, previdente-imprevidente, desiderosa-svogliata, etc.). Oppure, con una lettura più complessa e raffinata (che potrà essere utilizzata anche nelle prossime due domeniche), la strana assenza della sposa nel brano potrebbe far pensare che esso, una volta intesa la sposa assente come la Chiesa, sia rivolto ad un uditorio pagano, caratterizzato da una mentalità violenta o da un do ut des che si rispecchiano nel linguaggio utilizzato dalla parabola con il fine di spingerci a desiderare altro.
In ogni caso, una volta tradotto, il messaggio è analogo e sembra chiaro: gli effetti della stoltezza ricadono tragicamente su chi ne è segnato e lo stolto, ancor più tragicamente, è tale perché li proietta continuamente sugli altri – e sull’Altro – tanto più perfetto («vergine») egli si presenta. La tragedia (ogni volta) vissuta dovrebbe invece insegnare – a loro e a noi – l’importanza di assumersi la propria parte di responsabilità in questi effetti rovinosi: perché non sono riuscito a prevedere ciò che è alla fine avvenuto? Perché non ho degnato di uno sguardo chi si è rivelato capace di prevedere ciò che alla fine è avvenuto? Ma soprattutto – che è ai miei occhi il non detto della parabola da far emergere – c’è una persona che nonostante ogni mia stupida imprevidenza mi ama così tanto da offrirmi ciò che nessun altro essere umano potrebbe umanamente offrimi? E se non c’è, posso sperare che un giorno, pur in ritardo, questa persona arriverà?