Dolore e bellezza
di: Angelo Angeloni
7 novembre 2024
Per gentile concessione di
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Il problema di Dio riguarda oggi non tanto l’ateismo (ammesso che di ateismo si possa parlare), ma l’indifferenza verso Dio. Eppure, c’è una realtà umana che ne evoca in qualche modo l’idea, e cerca risposte nella religione, oltre che nella filosofia, nella letteratura, nell’arte o nella stessa scienza medica. Questa realtà umana è il dolore.

Credo, anzi, che proprio nel dolore l’uomo si ponga il problema di Dio e il rapporto con lui, perché nel dolore è il senso della vita e il momento in cui egli sperimenta la fede o la interroga. In tal senso, il dolore potrebbe restituire quel valore del sacro nella vita, che oggi sembra essersi eclissato; e le religioni potrebbero esserne una terapia.

Nel cristianesimo c’è un’icona straordinaria del dolore: Cristo: quel Cristo che pure un giorno disse con parole dolcissime: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite ed umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,28-29).

Possiamo credere o no che egli sia il Cristo, figlio di Dio e Dio lui stesso; ma per tutti è il crocifisso, l’uomo dei dolori.

L’arte lo ha raffigurato in ogni modo, ponendolo alla nostra contemplazione, come momento di condivisione del dolore suo e di consolazione del nostro; ha raffigurato in lui il dolore e la solitudine del dolore. Crocifissioni, Pietà, Compianti di Cristo morto esprimono la sua umanità e la nostra condizione di creature. La pietosa coralità dei Compianti è la coralità del dolore condiviso.

Il libro di Gualdrini

Questo, soprattutto, mi sembra di poter cogliere nel bel libro di Giorgio Gualdrini: Trittico delle cose ultime – Grünewald, Holbein, Raffaello, nel quale egli esamina tre capolavori dell’arte universale: la Crocifissione di Isenheim di Grünewald, il Cristo nella tomba di Holbein il Giovane, e la Madonna Sistina di Raffaello.

La Crocifissione e il Cristo nella tomba sono due immagini strazianti del dolore e, in Holbein, della tremenda solitudine d’un corpo senza compianto; la stessa che Gesù provò la sera prima nel Getsemani, di fronte ai discepoli dormienti.

In ambedue, il Cristo sembra vero; e questo lo rende attraente, anche nello strazio in cui è dipinto, perché esprime appunto «quella universalità del patire che sfugge alle gabbie di ogni particolarismo nazionale e di ogni confine stilistico. L’orrore della violenza concretamente inflitta all’altro uomo può infatti oltrepassare anche la più ardita immaginazione» (p. 52 sg).

I malati dell’ospedale degli antoniti lo osservavano, e forse elevavano a Dio una preghiera di misericordia e di pietà.

Artisti, filosofi, letterati, musicisti, sono stati segnati in diverso modo da questi capolavori; e il ricco riferimento ad essi che Gualdrini ne fa, è parte integrante di tutto il suo discorso sulla ricezione di un’opera nel tempo e nelle persone. Dipinti che hanno generato in alcuni eccezionali osservatori lunghi momenti di silenzio e di meditazione, turbamento, pensieri, come una presenza interiore non più eliminabile, perché l’immagine genera sempre una catena di pensieri.

Persone – scrive Gualdrini – che rimanevano un intero giorno davanti ad essi, lasciandone poi traccia nelle loro opere o descrizioni, a volte altrettanto crude.

Gualdrini intreccia una figura ad un’altra, un’idea a un’altra, come tanti rivoli che convergono verso quel trittico. Tali riferimenti, perciò, non sono fine a sé stessi, ma integrano tutto un discorso artistico-spirituale, secondo la sensibilità artistica e religiosa di ciascuno, da esso comunicata.

Il libro è, così, anche una storia dell’arte religiosa europea, che spiega, per esempio, il passaggio da un periodo all’altro di tendenze artistiche, o il rapporto artistico fra oriente e occidente. Ed è anche una sorta di diario di viaggio di Gualdrini stesso appassionato d’arte, in giro per musei e chiese d’Europa.

È vero, infatti, ciò che egli dice: che un conto è vedere dal vivo un’immagine, un altro vederla riprodotta.

Intanto, il suo libro accompagna anche noi nei musei e nelle chiese da lui visitate, e lo leggiamo con la stessa passione e sentimento con cui è scritto. Un appassionato visitatore di chiese, non le visita con lo spirito del turista, perché le chiese non sono musei. Le opere ivi conservate sono strettamente legate al culto e alla fede, oltre il tempo in cui sono state realizzate.

Ed è insopportabile vedere visitatori che scattano loro una foto e vanno via indifferenti. Si è perduta ogni sensibilità artistica e umana. Se, infatti, di fronte a un Christus patiens o a una Pietà o a un Compianto non abbiamo nessuna sensibilità, non l’abbiamo neanche di fronte al dolore reale, che l’occhio televisivo ci mostra quotidianamente nell’indifferenza generale.