Domenico Pompili
Vescovo di Verona
Lettera pastorale 2024

2.5.2 Perché la luce fa luce?
La luce è la relazione
La tua seconda domanda, Carlo, è: “Perché la luce fa luce?”. E aggiungi subito dopo:
La risposta non è davvero difficile, ma viene da un’altra sfera, che non è quella della semplice fisica.
Poi affermi:
La luce ci porta il mondo. Noi guardiamo e vediamo il mondo. Senza la luce non lo vedremmo.
E concludi:
Il fenomeno della luce allora non è per noi davvero un’onda, o una particella, o qual che altra diavoleria quantistica; è piuttosto la relazione che si instaura fra noi e queste onde, e la relazione che queste onde stabiliscono fra noi e il mondo.
Ecco il punto: la luce è la relazione. Ed è grazie alla luce che, finalmente, vediamo. Vien da chiedersi: è la luce che inventa gli occhi o sono gli occhi che scoprono la luce? Quel che è certo è che la luce fa la luce perché rende luminosa la realtà che è finalmente vista, come nel lontano Cambriano inferiore, per la prima volta.
In pieno medioevo, un teologo di nome Riccardo di San Vittore scriverà con fulminea efficacia: “Ubi amor ibi oculus”. Come a dire che dove c’è la relazione, lì si formano gli occhi, lì nascono gli sguardi. Si tratta di una formula generale che per noi cristiani prende però un valore tutto particolare per il fatto che, come dichiara, nel solenne inizio della sua lettera, l’autore della Prima lettera di Giovanni:
Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita […] quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi (1Gv 1,1-3).
Gli occhi dei discepoli hanno visto il Verbo della vita e, per loro, ma anche per tutti quelli che, ininterrottamente lungo i secoli, sono entrati in comunione con loro, “ubi amor, ibi oculus”. In fondo, l’ultima beatitudine evangelica è proprio rivolta a coloro che, di generazione in generazione, hanno creduto in Gesù pur non avendolo visto nella carne: “Beati quelli che non han no visto e hanno creduto!” (Gv 20,29). Perché c’è la luce della fede e ci sono cose che si vedono solo con gli occhi della fede. Non ci deve stupire allora che, nel la rivelazione neotestamentaria, il tema della “luce” sia così centrale (il termine compare ben 73 volte in 15 libri) e arri va al suo massimo sviluppo proprio negli scritti giovannei in cui credere e vedere coincidono tra loro: “Questo è il messaggio udito dal Figlio: Dio è luce e in lui non c’è tenebra” (1Gv 1,5). Sì, dopo aver contemplato che “veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9) e dopo aver conosciuto e amato colui che ha proclamato “Io sono la luce del mondo: chi segue me … avrà la luce della vita” (Gv 8,12), per Giovanni il discepolo può riconoscere nel Figlio, Parola fatta carne (Gv 1,14), la rivelazione del Padre (cf. Gv 1,18).
Lo celebriamo nella liturgia del Natale: “La luce che si è levata su quelli che dimora vano in terra e ombra di morte” (Mt 4,16; cf. Is 9,1) diviene accessibile agli occhi umani. Durante la sua vita pubblica, Gesù ne ha fatto fare l’esperienza privilegiata in particolare a tre discepoli quando, al cuore della Trasfigurazione, il volto di Gesù “brillò come il sole e le sue vesti divennero bianche come la luce” (Mt 17,2), prefigurazione della luce che risplenderà accanto alla tomba vuota nell’alba di Pasqua (cf. Mt 28,3). La loro sarà un’esperienza unica e irripetibile, almeno fino al mattino di Pasqua, quando la luce della risurrezione ha squarciato le tenebre della morte. Per sempre e per tutti. Fino al punto che, sulla parola di Gesù, anche noi siamo chiamati a divenire “luce del mondo”, lampada che illumina quanti abitano nella casa, e veniamo esortati a diffondere la luminosità delle opere belle e buone (cf. Mt 5,14-16). Anche in questa immagine della luce che abbraccia la casa l’immateriale si sposa con la materia, come in quel giardino degli inizi e in quel “in-principio”, pieno di luce.
C’è poi un fatto nell’esperienza della chiesa primitiva che merita di essere contemplato perché è traboccante di luce. Mi riferisco alla chiamata dell’apostolo Paolo. L’Apostolo non la racconta, ma ne descrive il significato teologico di rivelazione profetica (Gal 1,17), mentre negli Atti degli Apostoli per tre volte ci viene raccontato questo episodio decisivo non solo per la vita di Paolo, ma anche per lo sviluppo della missione cristiana (cf. At 9,1-19; 22,3-21; 26,4-23). Non è facile dire cosa accadde sulla strada per Damasco, perché i racconti non coincidono perfettamente. La tradizione successiva ha poi insistito molto su un particolare del tutto fantasioso, la caduta da cavallo, e non ha messo in evidenza quanto nel primo racconto gioca invece un ruolo decisivo, cioè il violento contrasto fra la luce e il buio della cecità:
E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perséguiti?”. Rispose: “Chi sei, o Signore?”. Ed egli: “Io sono Gesù, che tu perséguiti! Ma tu àlzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare”. Gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la voce, ma non vedendo nessuno. Saulo allora si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Così, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco. Per tre giorni rimase cieco e non prese né cibo né bevanda (At 9,2-9)..
Paolo, immerso nella luce, diventa cieco, e rimarrà così per tre giorni, senza mangiare e senza bere. La metafora è quanto mai eloquente: è come se la “luce dal cielo” gli avesse improvvisamente “abbuiato” tutte le rappresentazioni di Dio che aveva in mente. Ed è nel mezzo del silenzio delle immagini che l’apostolo si apre al cammino di Dio, alla nuova rivelazione divina. Perché la sua esperienza “mistica” cominci a dare frutto, però, ci vorrà l’intervento della comunità cristiana, in particolare di Anania, che aiuta Paolo a capire cosa significava e, soprattutto, cosa comportava per lui, essere stato avvolto dalla luce. Il linguaggio della fede è “altro”, ma non è mai incomprensibile! Non è quindi un caso se nella chiesa antica il sacramento del battesimo verrà chiamato “illuminazione”, per ché tale sacramento dà la luce, apre all’intelligenza della fede.
Per i Vangeli, poi, la luce è metafora del la fede. Gesù era attento alle persone e le guardava negli occhi. E come non ricordare il cieco Bartimeo (Mc 10,46-52), chiuso nel suo mantello, nella sua piccola tenebra? Emarginato e perfino zittito, quando Gesù lo farà chiamare farà un salto per poterlo raggiungere. Il “salto della fede”, dirà più tardi il filosofo Søren Kierkegaard (1813-1855). E il dono della vista coincide con il dono della fede. Così Bartimeo si mette sulla strada del discepolato e segue il Maestro di Nazaret. Un’altra pagina di Vangelo racconta di un cieco dalla nascita. Per il Vangelo di Giovanni si tratta di un testo particolarmente indicativo perché intreccia insieme polemica e ironia. Il racconto è attraversato da una lunga disputa e, alla fine, dopo l’azione taumaturgica di Gesù il cieco vede mentre quelli che presumevano di vedere diventano ciechi, cioè incapaci di vedere i segni di Dio (Gv 9,1-41). E potremmo continuare. Talvolta mi chiedo: cosa vediamo? Anche come chiesa: cosa vediamo? Come Bartimeo, il medicante di Gerico, o come il cieco dalla nascita gridiamo al Signore: “Rabbunì, che io veda di nuovo”? Oppure presumiamo di vedere e per questo siamo ciechi?
Giovanni XXIII aprendo il Concilio diceva che non voleva dare ascolto ai “profeti di sventura” e concludeva lo storico messaggio con queste parole: “Tantum aurora est” (Ed è appena l’aurora). Dopo tanti anni ci potremmo chiedere se siamo più portati ad ascoltare i “profeti di sventura” o se invece, come insegna la Scrittura, sappiamo “svegliare l’aurora” (Sal 108). Imparare a vivere sulla soglia dell’aurora, presagio del giorno: per lui il Concilio avrebbe dovuto essere questo. Non è forse questa la fede pasquale, quella che le discepole sperimentano il mattino di Pasqua, presagio di una storia in cui la promessa ha raggiunto il suo compimento? Mi viene in mente un rito popolare che, un tempo, si faceva anche qui in Veneto. Il mattino di Pasqua, quando arrivava il chiaro (l’alba) le mamme lavavano gli occhi ai bambini. Spesso scendevano lungo i fiumi, lungo i ruscelli e bagnavano con acqua viva gli occhi dei loro figli. Per riprendere la tua suggestione, Carlo, mi sembra di poter dire che, per loro, la Pasqua era una specie di “Cambrano inferiore” della fede. Bisognerà tornare a bagnarsi gli occhi per vedere la luce! Allora, per rispondere alla domanda “quale chiesa vogliamo essere”? potremmo dire molte cose, ma prima di tutto dobbiamo ricordare che questa domanda ha senso solo se scaturisce dall’esperienza della luce pasquale.
La notte di Pasqua, dalla cattedrale fino alla più sperduta chiesa della nostra Lessinia, nelle periferie ferite o negli incantevoli paesi del nostro lago, quella luce avanza nel buio. Siamo tutti avvolti dal buio, tutti nel lutto della passione. Ma piano piano a partire da quel cero, simbolo del Risorto, tutta l’assemblea (Ecclesia) si illumina. Si accendono le nostre piccole candele, ma a risplendere sono i nostri occhi pieni di luce. E, guardandoci negli occhi possiamo dirci, come ci insegnano i nostri fratelli e le nostre sorelle ortodossi o delle diverse comunità dell’Oriente: «Cristo è risorto! Sì, è veramente risorto!».
(continua…)