Se vuoi costruire una nave, non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato. Appena si sarà risvegliata in loro questa sete si metteranno subito al lavoro per costruire la nave.
(Antoine de Saint-Exupery, Il Piccolo Principe, 1943)

Prima di fare piani o assegnare compiti occorrerà risvegliare la “sete” da cui tutto ha origine. Più ancora che la “fame”, la “sete” descrive il nostro slancio vitale che non può mai essere censurato senza compromettere noi stessi. Basta pensare alla sete di vita, di gioia, di pienezza che, in modi e con toni diversi, scandiscono ogni età della vita. Lo esprime bene il salmista:

O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua (Sal 63,2).

1.1 Una lampada sotto il moggio

Se l’anno scorso a risvegliare la “sete” è stato il silenzio, quest’anno vorrei che fosse la “luce”. E perché mai proprio la luce? In un tempo di oscurità data dalle guerre e dalla violenza sulle persone e sull’ambiente, sento il bisogno di raccogliere perle di luce. La notte del mondo avanza, ma non potrà coprire la terra finché ci saranno alcuni che sanno raccogliere luce. D’altra parte, la chiesa non è forse chiamata anche oggi a “fare luce” attraverso il suo modo di vivere ed agire? Come chiede espressamente il Maestro:

Non si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candeliere, perché faccia luce a tutti coloro che sono in casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli (Mt 5,15-16).

Questa parola, rivolta dal Signore ai suoi discepoli, continua a risuonare come un appello dello Spirito alla chiesa che rende subito palese un paradosso. Un po’ ovunque la comunità ecclesiale vive un momento di crisi, di fragilità, di disorientamento. Esce da un lungo periodo in cui anche nel nostro Paese per la maggioranza ha rappresentato un riferimento praticamente esclusivo dalla nascita alla morte: la pastorale parrocchiale sapeva presidiare i territori geografici, umani e sociali, scandendo attraverso la pratica dei sacramenti le tappe della vita ed orientandone autorevolmente la direzione. Questo regime di cristianità è ormai un ricordo, anche là dove persiste ancora un certo attaccamento al proprio parroco e al proprio campanile. Da tempo la chiesa è chiamata a elaborare il lutto della fine della cristianità. Non ha più l’esclusiva del senso della vita, la sua è una voce tra tante, non raramente inascoltata, persino screditata. Sembrerebbe dunque che essa sia entrata in un cono d’ombra, che la lampada sia finita sotto il moggio.

L’esperienza più evidente di questa perdita di luminosità è la crisi dell’istituzione parrocchiale. Non sono drasticamente diminuiti solo i preti, ma anche i fedeli; diventa sempre più complesso gestire le strutture parrocchiali, sproporzionate rispetto alle risorse umane ed economiche disponibili; il linguaggio della comunicazione della fede fatica a raggiungere le persone, soprattutto i giovani. Tutto questo porta a una crisi di identità, che rischia di trasformarsi in una crisi di fede. Vero è che la parrocchia da queste parti gode ancora di una certa credibilità come luogo di socializzazione, in particolare dei ragazzi, e questo grazie all’impegno di presbiteri giovani e meno giovani, ma anche di laiche e di laici che si coinvolgono gratuitamente in Grest, campi-scuola, animazioni sportive, attività musicali e teatrali. Si tratta di un movimento educativo che ha un gran de impatto sulle famiglie e costituisce una forma di contatto che può evolvere verso più profonde relazioni. Non bisogna mai dimenticare, infatti, che tutto passa attraverso la relazione e anche l’evangelizzazione non può prescindere mai dall’avvio di un rapporto interpersonale reale e disteso. Ci chiediamo allora come potrà la chiesa rispondere all’appello del Signore ad essere luce che risplende davanti agli uomini e alle donne di oggi. È lei che ha bisogno di luce, come può esserlo per gli altri?

1.2 Raccogliere luce

La chiesa ha bisogno di luce ma, certamente, il mondo non ne ha meno bisogno. Per questo, se negli anni Ottanta il presbitero e scrittore Ernesto Balducci (1922-1992) parlava della necessità di “organizzare la speranza”, io sento oggi il bisogno di ragionare su come “raccogliere luce”. Non da solo però. Voglio farlo con voi, come si raccoglie insieme il frumento, in una sorta di rito collettivo che rinsalda la solidarietà e invita tutti, infine, alla festa. Da dove iniziare? Da una lettera del fisico e scrittore Carlo Rovelli, nato a Verona nel 1956, a cui ho chiesto di riflettere sul tema in questione. Carlo e io abbiamo convinzioni e percorsi diversi, ma abbiamo in comune l’amore per il mondo e la preoccupazione per il destino della terra. Per questo ci ritroviamo a condividere uno stesso sentimento di stupore e di commozione. Vi invito allora a sentirvi destinatari insieme a me di questa sua lettera ma, ancor di più, a prendere idealmente parte con me alla riflessione che ne potrà seguire. Perché questa lettera alla chiesa diventi alla fine una lettera della chiesa. Noi siamo nati, infatti, all’alba di un mattino di Pasqua. E siamo di fatto donne e uomini “aurorali”, nati insieme alla luce, che non solo cercano la luce, ma credono nella Luce. Non ci potrà fermare la paura della notte, né lo potranno le barriere o i muri. Ce lo ricorda il poeta e cantautore Leonard Choen (1934-2016) in Anthem: “C’è una crepa in ogni cosa e da lì entra la luce”.

(continua)